Il mondo che io abito è governato dalla scienza, e questa scienza ha un fondamento tragico:  il processo irreversibile che conduce l'universo a decomporsi in una nube di calore.
    

Italo Calvino - collezione di sabbia

 

 

 

 

1° giorno
Da Casa a Cagli
Km 97


Qualsiasi scambio di energia fa degradare la stessa energia in calore, aumentando l’entropia del nostro universo fino a quando non ci sarà più energia utilizzabile, ma solo calore inutile.
È per salvare il mondo che questa volta ho intenzione di viaggiare con un basso dispendio di energia, energia fisica per pedalare e energia per pensarlo. Diciamo un viaggio a bassa entropia.
In questi tre giorni andrò a caso seguendo le volontà o i bisogni del momento per la scelta del bivio: il sole in faccia, la discesa, il vento, il bel paesaggio, il traffico. Dove arrivo metto il punto. Non il treno... Per carità. Partirò direttamente da casa. Ma partire da casa è partire per i viaggi seri? Sembra di fare il giro di sempre: la discesa e poi il percorso ciclabile lungo il Rubbiano dove conosco i singoli sassi, non uso il ponticello di legno, vado avanti fin sotto l’autostrada dove la breccia non è mai compatta e poi l’odore delle fabbriche di polli e gli orti abusivi sequestrati dal CFS, la sbarra troppo invadente per uscire e poi, poco più in là alla Gabella, il percorso ciclabile finisce ma non c’è comunque un cane per via Brecciata e via Ronco, anzi c'è solo il solito cagnetto che mi aspetta e abbaia, abbaia e ringhia, da fermo, da anni.
Dicevo viaggio a bassa entropia, ma quanto mi potranno concedere le colline marchigiane e le loro pendenze?   La provinciale n. 20 mi conduce fino alla breve salita di Monte San Vito, graziosa e cupoliforme: tutta a mattoni bassi e con la facciata della chiesa su cui ci si può arrampicare. Vado avanti, supero una zaffata di odore di sapone che fuoriesce da un grata di un palazzetto del centro. Vado avanti, ma prima di arrivare alla cresta collinare più o meno in piano, devo tagliare ortogonalmente tre crinali con tratti di pendenza dal 8 al 12 % (Garmin dixit).  Passo le località di Santa Lucia e  Sant’Amico, con le dimore nuove di residenti tedeschi (Herr e Frau ai campanelli) e le vecchie case signorili dei milanesi. A Sant’Amico inizia la “Lacrima Valley”. Qui il sangiovese, geneticamente modificatosi per suo conto, fa rompere la buccia e dalla bacca gonfia esce appunto “la lacrima”. Il vino è purpureo, dagli odori intensi di rosa canina e...  La Lacrima di Morro d’Alba è qui il paese è laggiù in fondo sulla collina. Con il grazioso centro murato con il percorso di ronda coperto. E poi poco più in là: San Marcello attorno alla sua microscopica piazza e  al suo microscopico teatro. Le Marche sono piene di teatri, ogni paese, tra il 7-800 ne ha costruito uno. Oggi ne abbiamo più di 100.
Vado avanti ancora sulla groppa, praticamente pianeggiante, delle colline di argilla miocenica. Incontro ancora vigne fino alla Madonna del Sole con la chiesa  ottagonale del 500 costruita sopra una più vecchia, con una campana che miracolosamente si ostinava a suonare da sola. Per me è interessante anche la fontana di acqua e l'avvertimento della signora che stava lì.
"Falla scorre quell'acqua che sta sempre ferma, la pijano solo i tedeschi come te".

Ma se ero un tedesco vero, come avrei fatto a capire quell'avvertimento? Da qui per un bel tratto tutto è viziato dal toponimo Ostra, che fu un insediamento romano, giù nella valle del Misa. Ma nel tardo ottocento tutti i paesi dell'intorno fecero a gara per cambiare il nome e ottenere quello della città romana con tanto di imboscate presso il governo di Roma. Ora siamo pieni di Ostre: Montalboddo vinse la Ostra semplice, Montenovo divenne Ostra Vetere e Belvedere divenne  Belvedere Ostrense. In quest’ultimo paese, non c'è nulla di Romano ma belle case di mattoni attorno al castrum medievale e fuori una chiesa neoclassica quasi inutile.

Dopo Belvedere piego decisamente a ovest per terre più selvagge. Si vedono i primi monti azzurri di leopardiana memoria. Per un tratto le vigne lasciano lo spazio a campi glabri e agli allevamenti di pecore dei pastori sardi. Poi di nuovo tornano, questa volta di verdicchio, con vigne vecchie e antiche. A tratti interi valloni appaiono completamente foderati di vigne. Ai bordi della provinciale si susseguono le cantine, dalle piccole e familiari alla grande cooperativa e a quella particolare del vino fatto con l'uva attaccata dalla muffa nobile  che ha vinto la medaglia a Londra e che costa una barca di soldi.
Montecarotto è in cima alla collina con la sua cerchia di mura di mattoni e le case si mattoni e il teatro in piazza e la torre civica rotonda e in alto la chiesa collegiata  assassinata dal furore del neoclassicismo.
Di nuovo in discesa dopo il cimitero e di nuovo in salita verso Poggio San Marcello, che non raggiungo. Vado avanti in groppa alle colline oltrepassando i bivi per Rosora e Mergo. Le costruzioni non sono più di mattoni ma di blocchi di arenaria, le montagne si fanno sempre più vicine, a Trivio le case sono di conci calcarei del monte Murano. A questo punto una veloce discesa mi porta in fondo ad una valletta che nasconde la piccola chiesa di S. Ansovino del XI secolo. Una seria salita mi fa guadagnare il bivio di Maestà e quindi il castello di Avacelli, un borgo fortificato del 1400 attaccato sul fianco sud di uno sperone calcareo, estremamente suggestivo e scenografico, rimesso forse troppo aposto e perfino pettinato recentissimamente. La vicina Arcevia (prima si chiamava Rocca Contrada, ma che mania quella di cambiare i nomi !) è circondata dai suoi castelli, tutti estremamente scenografici, dentro le loro mura e le loro porte, in cima a speroni più o meno rocciosi: Caudino che ha un solo abitante fisso, Palazzo che copre perfettamente uno sperone conico, Loretello, Nidastore dal nome che la dice lunga, San Pietro e Piticchio. Quest'ultimo curiosamente colonizzato dagli olandesi perché tanti anni fa ci hanno “fatto” un grande fratello. (almeno è quello che dice la gente di qui).
Da Avacelli fino a Rocchetta la strada inizia durissima, alla faccia della bassa entropia, il Garmin sentenzia 16% di salita, ma per fortuna solo per alcune centinaia di metri, dopo è solo salita. A sinistra uno stranissimo bosco di cipressi e poi farnie e farnie fino al passo e altrettanta discesa fino a Rocchetta, borgo di case sparse con il campanile quasi altoatesino.
Da qui, oltrepassate le montagne calcaree del Trias, verso nord il paesaggio è  lo stesso di sempre, un paesaggio che conosco bene e che amo da sempre: le colline non dolci e docili ma  nemmeno dirupate e scoscese, i cipressi isolati e rari che si ostinano a non mettersi in fila come quelli della campagna toscana, dall’altra parte dell'Appennino. A volte mi rammarica che questo mio  paesaggio non sia ne abbastanza signorile ne abbastanza colto come quello toscano. Le case sono troppo disseminate, quasi polverizzate nello spazio e quasi sempre semplici case coloniche, di solito rosa, non vi sono quasi mai le costruzioni altere e massicce dei crinali. Avrei preferito quelle possenti costruzioni di arenaria piuttosto che gli esili muri di mattoni  dei contadini, di semplice argilla cotta nelle fornaci della valle.
Una calda, avvolgente luce sale su dalle valli e abbraccia quei colli, intenerisce lo scabro e glabro maggese, vi adagia sopra, a coprirlo, quasi a nasconderlo, le sfrangiate ombre delle siepi che, addossate ai fossi, lambiscono le sommità ancora sotto il sole. Le macchie sparute e irregolari dei boschi disseminate tra il giallo e il marrone dei campi allargano i loro verdi a volte esili a volte grossi e cupi.  Le strade, prima bianche e polverose,  acquistano allora confini infiniti. Non tagliano più il mondo separandone porzioni, ma segnano necessariamente i percorsi delle persone, delle loro idee  che volteggiano sopra quella terra.
Verso nord est si staglia nel cielo la montagna convessa della miniera di zolfo di Cabernardi, con la sua epica di minatori che arrivavano a piedi dai paesi vicini a disegnate strade e percorsi. Tre ore a piedi, otto ore per lavorare nei pozzi  a 600 metri di profondità e  ancora tre ore per tornare a casa. Rispetto ai contadini, erano comunque ricchi e le mogli “se la tiravano” come gran signore. Poi venne lo zolfo americano che non costava nulla e i minatori occuparono la loro miniera per giorni e giorni di lotta ma alla fine la miniera chiuse ed emigrarono tutti verso gli stabilimenti Montedison di Ferrara e nella bassa Toscana. Le targhe delle macchine in estate sono quasi sempre FE o GR.
La discesa è veloce fino al capoluogo: Genga. Genga da queste parti significa roccia e infatti le case sono piantate sulla roccia, alcuni muri del piano terra sono intagliati nella roccia. Il paese è tutto sistematissimo come le frazioni e le strade dell'intero comune, molto ricco per le entrate delle grotte di Frassassi. Salgo ora in debolissima salita la valletta del Sentino fino alla doppia città di Sassoferrato: su in alto la città con le sue torri e chiese bianche di calcare e giù il borgo.
Il sole si abbassa a ovest, le montagne sembrano più alte della realtà: Il Cucco, lo Strega, il Catria mi guardano mentre vado sopra i larghi prati dopo Stazione di Monterosso. A Serra S. Abbondio una breve salita e poi ancora tranquillo fino a Frontone che mostra lassù, sopra un ardito cucuzzolo un munito forte. Questo tratto è veramente a bassa entropia, vado, si fa quasi sera senza dolore, tutto scorre tranquillo e placido fino a Cagli.


2° giorno
Da Cagli a Foligno
Km 125

Da Cagli seguo la valle del torrente Bosso che sale ombrosa e leggera verso lo spartiacque appenninico. Il borgo di Pianello giace su uno slargo della valle, il paesaggio si allarga: verso nord è evidente la pelata del Monte Nerone, verso sud le cime binate del Catria e del monte Pulito, verso ovest si staglia la Serra di Burano che con la sua continuità precisa sembra oltre che un accidente geologico un serio limite a raggiungere l’Umbria: Ma il Bosso, o forse un suo affluente, caparbio e snello non sente ragioni e taglia ortogonalmente la serra di Burano e mi permette di valicare il confine e di valicare l’Appennino in un modo elegante ed etico. Il passo senza nome (magari non lo ricordo)  scavalca delle bancate torbiditiche e mi fa arrivare a Pietralunga con una agevole discesa.  A Pietralunga è da anni che devo venire da quando in una collezione petrografica, forse a Padova o a Pisa o a Torino, ho visto un’arenaria con minerali vulcanici provenienti da qui. Ma sono passati tanti anni e ora le arenarie non le cerco più. Pietralunga mi offre un ombroso ristoro sui giardinetti sopra uno strano Museo al Partigiano Umbro (progettato forse per essere visto dai satelliti), e al margine   di una piazza con in fondo, forse  una onesta pieve medievale, ma orrendamente ruotata e modificata alla fine del 1800 e i resti di una  “rocca longobarda”.
Mantenere bassa entropia, non acquistare energia, non disperdere energia, rimanere in quota. Ci riesco abbastanza, almeno dopo una discesa con altrettanta salita fino a a San Benedetto, fino a confluire nella statale per Gubbio. Il percorso è vario e bellissimo in un paesaggio quasi alpestre con larghe prospettive, prati verdi, grandi alberi al bordo della strada e fitti boschi sulle alte colline. La statale fino a Gubbio è un poco trafficata, c’è anche una gara ciclistica. Dopo Gubbio si torna nella calma. Il traffico moderno è tutto nella nuova strada veloce e percorro in esilissima discesa verso sudest tutta la valle Eugubina per la vecchia strada fino a Branca. Perfetto per l’entropia totale.  Purtroppo la vecchia strada finisce sul nuovo progetto della grande strada Ancona Perugia. Verso ovest non posso andare: sono ammesse solo i motocicli sopra 150 cc. Mi ritaglio un percorso al di qua e al di là della grande strada verso est, verso Fossato di Vico e Osteria del Gatto. Mi piace il nome ci vado volentieri.  Da Osteria del Gatto la vecchia Flaminia è un percorso che fa al caso mio, traffico dirottato sulle solite grandi strade, leggeri saliscendi su una larga valle fino a Palazzo Mancinelli, Gualdo Tadino, Gaifana, Nocera Umbra. Sorgenti dappertutto vecchi e nuovi nomi di acque minerali mi passano nella mente fino a quello degli anni 60-70 con un nel tappo blu con un leone con su scritto Nocera Umbra associato stranamente alla Ferro China Bisleri. Stesso blu e stesso leone.
Dopo Nocera siamo alla testata della valle del torrente Topino che, confluendo nel Chiascio e quindi nel Tevere, è un asse portante della complessa idrografia umbra. La strada scende lentamente, tranquilla, solitaria, quasi non si pedala fino a  quando, nei pressi di Vescia, è necessario abbandonare la Flaminia che diviene autostrada. Foligno è a soli 7 chilometri. 

 


3° giorno
Da Foligno a Chiusi
Km 95

Foligno per me è una grande città, immancabilmente mi perdo, finalmente arrivo
a intercettare il fiume o canale Teverone. Sul suo argine corre una bellissma ciclabile.
Tempo fa l'ho percorso verso Trevi per andare a Roma, ora vado verso  nord e arrivo
splendidamente a Bevagna che vista così dal fiume e dal lavatoio sovrastato dall'arcata del ponte mi sembrava una città della Borgogna. Ma appena entrato, la grande piazza, le botteghe, il lussuoso relais e perfino il fabbro che martella le spade sulla via, mi fa ritornare in una ricca città per turisti della “Grande Toscana”. Esco da Bevagna da un polveroso giardino con il monumento ai caduti delle nostre guerre che dà finalmente al luogo un poco di normalità. Il percorso ora è agile e in piano, anzi dovrebbe essere in leggera discesa fino alla confluenza della valle Umbra nel Tevere. Sfioro Cannara. Bettona è lassù nell'alto, non è in linea con la filosofia del viaggio. La evito girandole intorno da est. Una piccola salita mi coglie poco prima di Torgiano, borgo in duplice allineamento sulla via che nasconde il museo del suo famoso vino.
Passano caldi e solitari borghi: San Martino in Colle, Pila, San Biagio della Valle.
Mi fermo a pranzo “in un borgo della Mancia di cui non voglio ricordare il nome” trovo riparo dal caldo in una panchina all'ombra appiccicosa di due alberi davanti alla chiesa, arrampicata sopra uno sperone come tutto il centro storico murato, costruito in pietra a vista attorno ad una torre civica completa di orologio e campana. Non c'è nessuno in giro, alcune automobili parcheggiate mostrano le loro targhe rumene e bulgare, da una Fiat Punto che si ferma veloce d'avanti alla chiesa, scende e sparisce  veloce dentro la canonica il prete con il viso del sud-est asiatico, dalle finestre aperte attorno alla torre “sento bestemmiare in Alamanno e in Goto... Romani e Greci urlate dove siete andati”.
Continuo verso l'Occidente. La strada, fino ad ora solitaria e persa nella campagna assolata, adesso confluisce in una via più abitata e trafficata ma non è tragedia, in questo pomeriggio caldo e lento non c'è in giro nessuno. Non mi aspettavo la salita che prima si infila in una valle e poi, dopo Piegaro, si apre su un  vasto piano inclinato che sale verso ovest. Arrivato alla fine della salita, il mondo cambia. Sembra di essere sul bordo di una terrazza. Sotto, alcune centinaia di metri sotto, passa una grande valle in direzione nord-sud con ferrovie e autostrada, oltre la valle,  s'innalza la plaga vulcanica del Centro Italia con in mezzo l'Amiata a verso sud il Vulsino, verso nord il monte Cetona, il dicco di Radicofani e le interminabili colline toscane fino al Tirreno. Corro verso nord sulla cornice fino a Città della Pieve.......Da li la discesa fino a Chiusi è velocissima. Dopo un grande parcheggio di pendolari, per un sottopassaggio pedonale supero la ferrovia la stazione è a destra, no a sinistra, attraverso un pertugio arrivo sul marciapiede del primo binario, la stazione è ancora lontana. Laggiù in stazione è domenica pomeriggio: la biglietteria è  chiusa, la biglietteria automatica, quella che può fare i biglietti, è rotta, le macchinette per i regionali non ci sono, la signora del bar, sconsolata mi dice:
"No. Non me li fanno vendere. Qui è così. I biglietti li fa il capotreno, senza sopratassa".
Bontà loro!
Il regionale per Roma è già fermo da un pezzo sul binario cinque. La ressa attorno al ferroviere è patetica. Tutti vogliono salire su quel treno. Come tutti volevano salire sugli elicotteri americani sul tetto dell'ambasciata a Saigon all'arrivo dei comunisti nel 1975, o come tutti volevano salire sulla nave che salpava da Nanchino all'arrivo dei giapponesi nel 1937, o quella che salpava da S. Giovanni d'Acri all'arrivo dei Mamelucchi del Sultano nel 1291. Chi fosse rimasto sarebbe stato massacrato nel peggiore dei modi.
Il Leviatano Ferroviario Italiano è in guerra con me da alcuni anni. Non mi faccio vedere, vado in testa al treno, dove c'è il “pittogramma”, sistemo la bicicletta e mi siedo. Il treno aspetta fermo ancora per molto. Finalmente si parte verso sud. Dopo molto arriva il capotreno. Il biglietto per me è veramente senza multa, quello per la bicicletta ce l'ho, ne ho comprati tanti.  Ma il gran maestro mi fa il biglietto solo fino a Orte.
Io gli dico disperato e supplice:

"Ma devo andare a Falconara Marittima".
A lui non gliene frega nulla.
"
Le faccio il biglietto solo per Orte".
Dal modo e dal distacco in cui ha pronunciato il “Le” capisco che mi è andata bene così. Capisco che altri non hanno avuta la mia sfacciata fortuna.
A Orte dovrò fare un altro biglietto, ma è domenica anche laggiù. Spero che non sia sotto assedio e che ci sia una macchinetta per i biglietti che funzioni.