Da Mahler a Mann

“Le osservazioni e gli incontro di chi va attorno in silente solitudine

sono al tempo stesso più sfumati e più netti di quelli dell’uomo socievole,

i suoi pensieri sono più gravi, più bizzarri,  e mai esenti  a un’ombra di tristezza…

La solitudine fa maturare l’originalità, la bellezza strana e inquietante, la poesia.

Ma genera anche il contrario, lo sproporzionato, l’assurdo e l’illecito.”

 

Thomas Mann - 1912 – Der Tod in Venedig (La Morte a Venezia)

 

 

 

 

Da Mahler a Mann

 

Percorso solitario nella nostra romantica e decadente “Europa di Mezzo” dal Cadore per i due Tiroli, la Carinzia e la Carniola fino alla Venezia Giulia seguendo malamente mie ossessioni letterarie e musicali.

 

 

Giorni 6 - distanza km 545 -  dislivello   + 4859   - 5529 metri

 

“Il ritmo regolare e agevole di quell’esistenza lo teneva già sotto il suo incanto,

la dolcezza morbida e sontuosa di quel vivere lo inebriò rapidamente.

Soggiorno ineguagliabile, infatti, che unisce le attrattive di una comoda villeggiatura

su una spiaggia meridionale con la vicinanza familiare della città stupefacente e stupenda!”

 

 

 

Un 2017 compresso e complesso mi ha fatto ritardare il viaggio di primavera. Non ho progettato nulla, non era aria di preparare tragitti elaborati o spostamenti in nave o di telefonare alla signorina della Lufthansa per portare la bici chissà dove e non era nemmeno aria di fare salite. Era invece il caso di un altro viaggio a “bassa entropia”. Le due lunghe e semplici discese della Drauradweg e della Alpe Adria avrebbero colto nel segno. Avevo comunque il bisogno di una motivazione più seria. Sarebbe stato dunque un percorso dentro la nostra “Europa di Mezzo”, asburgo-germanica, romantica, decadente e cadente nell'annullamento della guerra. 

Passerò dunque per il Cadore, e Cortina, per Dobbiaco dove Gustav Mahler compose le sue ultime sinfonie. Segnando quindi una traccia che sembra un punto interrogativo giungerò al Lido di Venezia dove Thomas Mann ambientò la struggente fine di Gustav Aschenbach (anche lui Gustav, come Mahler) nel suo racconto “La morte a Venezia”.

Sarà un viaggio “Triste, solitario y final?”

“Boh?”

Parto per andare attorno e dietro quello sfigato di Mahler che, pieno di corna e malato di cuore si ostina a creare monumentali sinfonie e attorno e dietro quello sfigato di Aschenbach che dalle glorie di affermato classicista tedesco va a morire di colera a Venezia inseguendo i simulacri di un viaggio esaltante e l'esaltazione della bellezza classica in un giovane e bellissimo nobile polacco. Non c’era bisogno di altro che dell’esile edizione tascabile Einaudi del 1987 del racconto di Mann e delle registrazioni di tutte le opere di Mahler, comode comode, dentro il furbotelefono.

 

 

Adagietto della V sinfonia di Gustav Mahler 

Claudio Abbado - Lucerne Festival Orchestra (2004)

https://www.youtube.com/watch?v=yeaCjyxrgGY

 

 

 

“Faticò non poco a raggiungere la sua meta,

chè il gondoliere, d’accordo con negozianti di merletti e di vetrerie,

tentava ogni momento di farlo scendere per visite ed acquisti;

 e se talvolta cominciava a sentire il fascino del fantastico itinerario veneziano,

subito interveniva, a ricondurlo brutalmente alla realtà,

la sordidezza truffaldina della città regale e pitocca.”

 

 

1 – Da Calalzo di Cadore a Dobbiaco - Distanza Km 69

 

Non è gran bel tempo, l’alta valle del Piave che sale a nord est è monca delle sue montagne confuse dentro spesse nuvole. La ciclabile costruita sulla vecchia ferrovia Calalzo Dobbiaco, non inizia alla stazione ma più a ovest e più in alto (chissà perché?), ma è inizio trionfale con perfetto asfalto e le linee spartitraffico per i due sensi di marcia e per i pedoni. Per ponti e gallerie illuminate mi muovo verso ovest, passo presto Pieve di Cadore, Tai, Valle. Entro nel solco del Boite ma le nuvole ancora non mi fanno vedere le montagne, solo alcune chiazze e canaloni di neve, passo Venas, a Peaio faccio un po’ di casino con i lavori per il cavo a fibra ottica che stanno mettendo proprio sotto la pista ciclabile. Già da Vodo si sarebbero dovuti vedere a sinistra, oltre il fiume, il Pelmo e a destra, più incombente l’Antelao. Invece nulla, la nuvolaglia non mi dà tregua. Si vede solo la strada per la val di Zoldo che sale a Forcella Cibiana dove andavo a giocare a Scarabòcio con mio cugino Maurizio. Sono stato tra queste montagne per tante estati e alcuni inverni.

Ho sempre preferito il Pelmo, “El Caregon de Dio” con la sua forma a cascata che troneggia sopra i pratoni oltre il monte Penna e il rifugio Venezia. L’Antelao mi è rimasto sempre più antipatico con la sua semplice forma piramidale, il Bus del Diaul e le leggende da paura; e poi mi ha lasciato una cattivissima esperienza quando ho voluto salire sulla sua cima tanti anni fa. Passo Cancia e arrivo a Borca, anche qui il cartello in due lingue:

“Borcia?”

“E che lingua è?”

“Ma non ce n’era stato mai bisogno!” 

La cancrena dell’autonomia linguistica dei mediocri politici colpisce ovunque e sempre. Mi fermo alla vecchia stazione proprio sopra la casa dello zio Bepi e l’albergo dello zio Nani. Il paese, a parte la doppia lingua, non è cambiato affatto, c’è ancora il negozio di Bonetti dove ho preso i miei primi scarponi da montagna.

La ciclabile sale gentile gentile, passo San Vito, ecco Zuel e il trampolino delle olimpiadi del 1956, su a sinistra, oltre il Pocol, la marmorea e musicale parete sud della Tofana di Rozes, a canne d’organo verticali e complici. Cortina me la ricordavo vivace e cosmopolita, magari con qualche tamarro di troppo ma viva. Oggi è tutto chiuso, introvabili e chiusi i negozi di generi alimentari, chiusi i bar, chiuse le finte botteghe di attrezzi da alpinismo, chiusi perfino Moncler e North Face, la Cooperativa di Consumo è in ristrutturazione. O siamo terribilmente fuori stagione o son tutti a Chamonix con i loro cani vestiti. Intanto comincia a piovere bene e la disfatta di questo posto mi appare completa. Trovo un baretto aperto, c’è dentro una ragazzona pisana assai simpatica che mi accoglie con:

“Oh bimbo! Che ti sei bagnato? Che ti preparo? C’ho dei buonissimi toast con prosciutto e formaggio!”

Le rispondo in automatico, pensando oltre, al gran cibo:

“Me ne fai due per piacere.”

E lei:

“Ma guarda che so’ grandi!”

Forse mi convince:

“Va bene, allora preparamene solo uno.”

Il cane da guerra dell’esercito romano, un corso nero, fa la guardia discreta. C’è un altro cliente, un uomo appoggiato al bancone, che parla senza ottener ne aspettar risposta dalla ragazza, con un’ ombra di bianco nel suo bicchiere a calice che continua a roteare con la destra. Finisco fulmineo il toast con prosciutto e formaggio che lei mi fa altrettanto pronta:

“Oh bimbo, avevi ragione te! Ne preparo subito un altro.”

Non piove più, forse uscirà anche un discreto sole. La ciclabile scorre sempre dentro la vecchia ferrovia ma il fondo ora è di ghiaia a volte un grosso breccione non proprio agevolissimo per le mie ruote da 35 millimetri. Nei pressi della stazione di Fiames fisso questa cosa forse un pochino più intensamente dei soliti pensieri che cavalcano a caso in testa quando sono in viaggio in bici e la Salsa Vaya sbotta:

“Potevi portare la Fargo!”

E continua:

“Quella ha le gomme da quasi sei centimetri ed è meglio bilanciata, l'hai detto tu!

Rincara:

“Cosa l'hai comprata a fare? Per fare il moderno Bikepacker figaccione con tutti quel ciarpame attaccato al telaio?”

“E poi la lasci a casa!”

Era un sacco di tempo che non si faceva più sentire, forse dal viaggio a Berlino quando ci eravamo quasi persi nelle brume del Brandenburgo. Non so rispondere e sto zitto zitto, nella speranza che la storia finisca lì. Andiamo su piano, ancora perfettamente muti, passiamo il ponte in ferro sul torrente Felizon costruito, distrutto e poi rifatto a turno dall'esercito di Francesco Giuseppe o da quello di Vittorio Emanuele durante la guerra del 1915-1918.

Passo la diroccata stazione di Ospitale e finalmente il valico di Cimabanche a 1529 metri e finalmente l’Alto Adige. L’odore dell’erba cipollina, dei canederli nel brodo con spek e wurst e il pane nero a semini mi affrancano dagli odori scialbi, melensi e neghittosi delle seppie che bollono e da quelli irti e falsamente esotici dei crostacei sulle braci del lungomare da casa mia a Senigallia. Scendo fino al bivio per Misurina, su a est non si vedono le Tre Cime di Lavaredo. Oltre il lago di Landro mi fermo al cimitero di guerra del vecchio nemico con ungheresi, balcanici, altoatesini morti nella battaglia di Monte Piana. Musulmani, ebrei, cristiani del troppo moderno impero dell’Europa di Mezzo mi guardano muti e sconsolati. Arrivo a Dobbiaco con il campanile verde a bulbo e le case color pastello sopra i partoni verdi. Il maso che ha ospitato Gustav Mahler è ancora chiuso, la casetta di legno dove si ritirava a scrivere ha ora l’aspetto di una vecchia gabbia per canarini abbandonata, tristemente velata.


[La vecchia stazione di Borca di Cadore]

[La vecchia stazione di San Vito di Cadore]

[La ciclabile dopo Cortina d'Ampezzo]

[Galleria della ciclabile dopo Cortina d'Ampezzo]

[Al passo di Cimabanche]

 

 

 

“Questa era Venezia, bellezza adescatrice ed equivoca: città fiabesca e

trappola per forestieri, aura viziata che un tempo aveva permesso all’arte di fiorire opulenta e

che ai musicisti ispirava morbide melodie di voluttuosa ninnananna.”

 

 

 

2 - Da Dobbiaco a Spittal an der Drau  - Distanza Km 131

 

Il viaggio inizia sotto lo splendore dolomitico della Croda dei Baranci e della la Croda Rossa di Sesto, da San Candindo la ciclabile diventa la scalinata di Trinità dei Monti a Roma o il ponte Carlo a Praga o … Centinaia di persone comprese intere classi inneggianti il prof. si precipitano con le bici a noleggio, in uno spazzaneve anarchico e immediato giù per la valle fino a Lienz.  Dopo il mirabolante ponte di legno che supera la Drava e il confine tra Tirolo e Carinzia la ciclabile è una noia mortale, si avviluppa in percorsi astrusi per appiccicose colture, il fondo di terra, segnato dalle ruote dei trattori in domestiche e personalissime calaminas o tolle ondulé è una vera tortura. La abbandono per la strada statale n 100, il paesaggio scorre ancora agilmente alpino e veloce fino a che non mi ferma la Polizei. L’auto fa inversione, l’agente scende e con piglio troppo professionale mi dice che deve controllare i miei documenti e il mezzo, mi chiede la patente e scruta attentamente la bicicletta. La patente è a posto la bici anche, ha tutti i fanali del mondo e anche i catarifrangenti bianco e rosso e quelli laterali e quelli gialli sui pedali, ha anche il campanello, ma sto percorrendo una autostraße.

Con voce schioccante mi fa:

“Devi pagare 36 euro! Sei d’accordo?”

Gli rispondo senza esitazione:

“Certo che sono d’accordo. Ma come li pago?”

Allarga il viso alla mia domanda che forse ha ritenuto ridicola:

“Li dai a me!”

Non sono convinto a mille.

“Boh?”

Ma, ha la divisa della polizia, sale sulla macchina della polizia, mi lascia solo con la mia ricevutina con tanto di timbri e firma. Mi ha costretto ad uscire dall’autostraße per proseguire su un percorso parallelo che dopo qualche chilometro si immette nella stessa strada di prima, perfettamente uguale a prima, ma che ha perso la caratteristica di autostraße. Continuo fino che incontro di nuovo il segnale che avrei dovuto conoscere, un cartello rettangolare azzurro con dentro una macchinina bianca: autostraße, non autobahn, ma comunque vietata alle bici. Mi fermo. Ho capito la lezione, ci sono due stradine, percorro lento quella di destra annusando l’aria fino che non incontro un nonno con la nipote. Gli chiedo:

“é la strada giusta per Spittal?”

Lui. Indicando con il viso oltre:

“No questa va solo a casa mia, devi prendere quella dall’altra parte”.

Intanto che raggiungo Spittal tranquillo, senza ulteriori fatti da raccontare, penso alla mia impreparazione e supponenza. Quei cartelli li ho oltrepassati anche in Portogallo, in Spagna ho percorso anche autovias, non c’erano divieti ma con la bici non ci potevo andare e lo dovevo sapere. Aggiungo solo la dovuta documentazione, soprattutto per mia figlia che crede che mi sia inventato la vicenda solo per scriverla e raccontarla.

[Ponte ciclabile sulla Drava]

[autostraße]

[Image title]

 

 

“Tadzio gli sorrise, d'un sorriso eloquente, confidenziale,

carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco.

Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte,

quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia

al riflesso della propria bellezza, un sorriso un poco contratto dalla vanità dell'aspirazione a

baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno dicivetteria,

di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante.”

 

 

 

3 – Da Spittal an der Drau a Tarvisio – distanza Km 85

 

Percorso di argine, tranquillo forse monotono, fino a Villach. mi fermo per l'imbiss direttamente sulla ciclabile in centro. Risalgo un poco la valle del Gail, lei si congiungerà con la linea della Pusteria, io invece prendo la ciclabile R3C per Tarvis, verso sud. Il percorso è vario e alterna asfalto a buon breccino, non montagne ma placide collinone in giro, guadagno la sponda sud del Gail e passo sopra la ferrovia e vicino alla stazione delle OBB di Neuhaus an der Gail, mi serpeggia dal basso solo l’idea di informarmi sull’orario dei treni fino a Tarvisio. La stazione è molto piccola, c’è solo un ragazzo nero che deve andare a Villach. C’è un treno ogni ora, sarebbe agevole arrivare fino alla fine della salita in un baleno e senza nessuna fatica. Il ragazzo nero è di Quelimane in Mozambico, con semplice, fraterna e disarmante chiarezza mi fa abbandonare la malsana idea che mi era venuta dal recondito riflusso della ragione:

“Irmão. Você já tem a bicicleta para ir, porque você também precisa do trem?”

Lo saluto e lo ringrazio e quasi scappo di vergogna.

“Obrigado! Adeus, irmão sem nome.”

Più in alto, oltre Unterthörl alcune nonne jet mi superano pedalando allegramente in salita, fanno parte di un gruppo, con tanto di guida, di gente che potrebbe avere tranquillamente l’età di mia madre. Quelle bici hanno solo una piccola batteria sul tubo obliquo e il motore chissà dove.

“Alla faccia dell’articolo due!”

Il confine di Tarvisio arriva inaspettato, gran cosa che l’altimetro del Garmin sottostimi le quote! I vecchi baraccamenti dei controlli sono vuoti e sprangati. Sul piazzale italiano lo Stato è presente o almeno si fa vedere con la Punto blu dei Carabinieri e un grosso mezzo da guerra dell’esercito e soldati con fucili grandi come cannoni. Oltre il valico di Coccau, che passo in galleria, (e chi ho ‘mazzato?) verso sud di nuovo si manifestano belle montagne calcaree, le Alpi Carniche, che mi aspettavo più moscette. Meglio così!

Da domani non ci saranno più salite, solo gran comodità.  Il Magister nonché Ammiraglio Aldus Tortaldus ha già percorso la favolosa ciclabile Alpe Adria, con il suo liscissimo asfalto e le gallerie che si illuminano magicamente al tuo passaggio. È comunque bene che prepari il mio arrivo al Lido di Venezia, non vorrei che presentandomi al Grand Hotel des Bains da “mona coe braghe curte” e “un poco sudà” mi dicano che non hanno posto per me. Magari prenoto anonimamente on-line o riesco a fare la voce da “signore” al telefono.

Ma, accidenti a me e alla mia impreparazione. Sono veramente un mona con i calzoni corti! L’albergo è chiuso da anni. Che ci vado a fare al Lido se non ci sono né Thomas Mann, né Gustav Mahler né tanto meno Gustav Aschembach né la nobiltà polacca? A rischiare il colera per niente? Cosa andrei a fare ancora una volta a Venezia che, povera e sprofondata per sua stessa mano, non si sa più dove sta andando?

Spengo l’arpa e i violini dell’adagietto della quinta sinfonia appena prima che il largo e giallo riflesso sopra la lenta onda del mare lasci visibile il profilo scuro di Tadzio ad indicare chissà cosa.

Cambio percorso, il fascino del viaggiar soli in bici è anche questo, si ha la libertà assoluta, anarchica, vertiginosa, quasi eccessiva.

Andrò “verso oriente.”

 

 

 

“Appoggiato allo schienale della poltrona aveva girato lentamente il capo per seguire il moto di Tadzio che camminava laggiù; e ora si erse come per andare incontro allo sguardo, poi ricadde sul petto così che i suoi occhi guardavano di sotto in su, mentre la faccia prendeva l'espressione distesa e introspettiva di chi è caduto in un sonno profondo.

Tuttavia gli parve che il pallido e soave psicagogo laggiù gli sorridesse, gli facesse cenno; che, staccando la mano dall'anca, gli indicasse l'orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell'immensità piena di promesse. E, come tante altre volte, volle alzarsi per seguirlo.

Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto del poeta che s'era accasciato su un fianco. Lo portarono in camera sua. E il giorno stesso il mondo apprese con reverente commozione la notizia della sua morte.”

 

 

 

Scena finale di ”Morte a Venezia” - Luchino Visconti (1971)

https://www.youtube.com/watch?v=36QBU474nqM

 

 

 

4 – Da Tarvisio a Lubiana - Distanza Km 110

 

Questa mattina mi crogiolo nella soddisfazione di appartenere all’Unione Europea. Se non fosse per l'asfalto più chiaro della meravigliosa ciclabile non avrei capito di aver varcato il limes e di essere in Slovenia. La salita è gentile fino al valico di Fusine e poi, in discesa, tra fiori gialli, morbidi pratoni e abeti arrivo a Kranjska Gora, mondana e lucente.

Mi ricordo ancora con stupore l'altra volta che ho varcato questo confine circa 30 anni fa, quando c'era il controllo della Polizia di frontiere della Jugoslavia. Era inverno e c'era tanta neve (si andava a far sci da fondo a Bled), i poliziotti non erano nemmeno usciti dal loro gabbiotto, si vedevano solo i baffi e il cappello da militare (il cappello con l'unghia come direbbe Rigatti). Ma la cosa sorprendente, che ha annullato tutta la sacralità e la miticità di quella uscita oltre cortina, fu che il passaporto lo dovevo infilare si attraverso lo spioncino ma anche sotto un gattone grigio che vagamente inarcato s’era colà stabilmente installato. E il passaporto con il timbro di entrata mi venne restituito da sotto il gattone grigio.

La ciclabile finisce a Jesenice ma opportuni cartelli mi guidano per un tracciato fuori dalle strade più trafficate o per l’idillio di Bled o direttamente per Lubiana dove scelgo di andare. Il percorso è leggiadro, agile e vario nella valle della Sava, con piccoli paesi lindi e pinti quasi da nobile Borgogna, campanili slanciati, prati curati e placide mucche al pascolo e pervasivo odore composito di erba-latte-caccadimucca. È veramente un bell’andare a parte un breve tratto di perfido e polveroso breccione prima di Zgornji Otok e la discesa dentro il Dobro Polje con la conseguente risalita. Mi fermo per comprare il pranzo a Kranj, bella città costruita su un cuneo di roccia tra il fiume Sava e il Kosorep, suo affluente di sinistra. Mancano una ventina di chilometri a Lubiana, mi aspetto a breve una lunga e tediosa periferia invece larghi campi e blande colline circuite da boschi ben verdi mi accompagnano fin quasi in centro.

La città è una piacevole sorpresa: piste ciclabili capillari, efficaci e rispettate, pulizia svizzera, efficienza teutonica con guizzi balcanici e fantasia mediterranea. Il centro storico, attorno al castello, al lungofiume e ai numerosi ponti, seriamente pedonale, racchiude un’architettura barocca gentile e un liberty giocoso. Purtroppo non sono il primo a fare questa scoperta. La città è letteralmente “rasa” di turisti, cinesi e gringos sopra tutti. Ho seri problemi per trovare una sistemazione per la notte, da solo non combino nulla e perdo un sacco di tempo, nella recepcija  mostrano sempre la faccia contrita. La signorina dell’ufficio turistico ha un gran da fare al telefono, nulla negli alberghi di lusso, nulla in quelli normali, nulla perfino in quelli sfacciatamente di lusso, c’è rimasto solo un pertugio in una pensione di infimo grado.

Alla sera per i lungo Lubianka è una festa mobile pacata e direi perfino elegante con l’eccezione di due ragazze americane con le cosce così tirate a lucido, gli abitini così corti e i tacchi così alti che nemmeno le stelle di Cannes, sul red carpet, si azzardano a combinarsi in quel modo.  Al ristorante. Vicino al mio tavolo quattro americani siedono, a voce alta, bevendo vino rosso attendendo la cena: tre donne immancabilmente grasse e un uomo taciturno e riflessivo. Lisa è di Tulsa, Oklaoma è molto espansiva mi chiede il perché dei miei occhiali con le lenti rosse, mi confessa che è voluta venire a Lubiana con le sue amiche, Madison e Sienna, per vedere i luoghi da dove proviene Melania la moglie del presidente Trump. Poi, tra l’altro, mi chiede se in Italia abbiamo il forno elettrico ed il frigorifero.

Torno alla mia pensione sopra i fumi della carne alla brace della Gostilna. I miei pregiudizi erano estremamente inutili.

[Ciclabile slovena]

[Slovenia]

 

 

 

5 - Da Lubiana ad Idrija – distanza km 60

 

L’obiettivo di oggi è la vecchia e ormai abbandonata miniera di mercurio di Idrija, la seconda al mondo dopo quella spagnola di Almadén. Anche oggi gli sloveni si ostinano a tenere attivi dei percorsi ciclabili degni del loro nome. Parto da Lubiana verso ovest, se la pista non ha sede propria è a lato della statale e comunque segnalata e protetta. Fino a Vrhnika il tragitto non è entusiasmante dentro una larga e calda pianura. Lascio finalmente, a sinistra verso Postumia e Trieste, il gran traffico della ferrovia e dell’autostrada; il percorso serpeggia in salita fino a Logatec, poi entro magicamente di nuovo nel paesaggio idilliaco di paesini colorati, colline, boschi e mucche. La strada sale sinuosa fino ai 600 metri dello spartiacque e precipita, anche a tornanti, nella valle del fiume Idrija.

Il paese, bellamente rinascimentale, è raccolto intorno alla confluenza di due torrenti all’ombra del turrito e dominante castello asburgico. Arrivo tardi per la visita guidata e il museo ma comunque bighellono amabilmente nel lento e luminoso pomeriggio per il parco minerario, tra i vecchi opifici, le torri dei pozzi, la mega pompa ad acqua per estrarre le acque di sentina e tutta una serie di canali artificiali per farla funzionare. I chilometri di oggi sono stati relativamente pochi, ma il fatto non mi esime dallo strafogarmi di zuppa con salsiccia e spek, e di grasso cibo animale nella Gostilna del centro. Per quanto riguarda la birra poi, non ho ancora capito se è meglio la Laško pivo o la Union pivo. La Laško ha comunque la bottiglia più simpatica con sopra disegnato un cervo.

[Dobra voda]

[Il castello di Idrjia]

 

 

6 – Da Idrija a Gorizia – distanza km 90

 

Pioverà tutto il giorno con delle tregue vigili, il percorso è semplice e in costante leggera discesa dentro la valle dell’Idrija verso nord ovest fino a Most na Soči (Santa Lucia d’Isonzo) e poi dentro quella del Soča (Isonzo) verso sud ovest. Nel primo tratto mi circondano colline verdi, non montagne, l’altezza è di circa 200 metri sul mare, che è poi molto vicino, ma è pieno di impianti da sci da discesa.

“In inverno ci sarà un clima siberiano!”

A Most na Soči poco prima di una sgarrupata forra i due fiumi si uniscono, e con la complicità di una diga sul Soča e un lago dalle acque sfacciatamente smeraldine, si crea un sito multiforme e seducente. Il lindo borgo, i due fiumi, le colline verdi fittamente boscate, le rocce e il colore appassionato del lago mi costringono a fermarmi.

“Che sia questo il luogo da cui si torna!”

Mi accomodo per il pranzo su una panchina sopra uno scenografico belvedere, godendomi quel momento estremamente appagante, personalissimo e intraducibile, del viaggio in bici. Non mi curo del fastidio della pioggia (in verità ora pochina) e dei turisti che ogni tanto si fermano, scendono dalla macchina in ciavatte per una foto e poi ripartono.

Il tentativo di visitare Tolmino fallisce miseramente dopo solo tre chilometri, oramai è tutto compiuto, bisogna tornare a casa. Torno indietro, oltrepassato il ponte potrei utilizzare delle stradine più agili e più brevi, ma sapendo che sicuramente mi perderei, affronto la salita e la pioggia, questa volta copiosa, per aggirare un colle e l’intransitabile forra del Soča.  Ora la valle è più larga ma buia e coperta da nuvole dense, piove, c’è abbastanza traffico, non è un bell’andare, mi affianca la ferrovia Transalpina. Passano paesi senza memoria, a Canale d’Isonzo qualche Alfa Romeo con targa slovena in giro, mai viste prima, mi comunica un’italianità ancora presente; abbandono il fiume, a Nova Gorica passo il limes e quasi non me ne accorgo ma è ormai pieno di pizzerie.

Nella piazza davanti alla vecchia stazione Gorizia Nord, tagliata in due dal “Muro di Gorizia” il confine c’è ancora, prima e dopo la linea delle tante foto tracciata sul metallo ci sono le fioriere, sono fioriere ma non si passa. Di qua ci sono le auto parcheggiate con targa GO di Italia e di là ci sono macchine parcheggiate con targa GO di Slovenia. Dopo le fioriere, sul prato c’ è ancora il muro, è alto come me con base in cemento e rete metallica che pare il recinto di un condominio popolare degli anni 60 ma è ancora oggi invalicabile.

“E che palle!”

E poi ancora il luogo si chiama piazza della Transalpina (la ferrovia di Francesco Giuseppe) e non Piazza dell’Europa Unita come avrebbero voluto gli sloveni.

“Boh?”

Gorizia mi sembra un posto troppo difficile per capirci qualcosa ora e subito.

 

[Il lago di Most na Soči]

[Image title]