PALENQUE
 
Sto girando con Paola tra i resti della città cerimoniale Maya, simboli litici del potere sacrale di quel popolo. Ci muo­viamo in giardini esuberanti, siamo circuiti, quasi assediati, e le costruzioni con noi, dalla vegetazione eccessiva e rigogliosa nelle forme e variabile nelle molte tonalità dei verdi. La selva sorda e compatta umetta continuamente il nostro spazio di nuovi umori caldi e spossanti forti all'olfatto e fluidi e inesistenti al tatto e alla vista.
Le piramidi, i palazzi, i tempi di calcare tenero  e chiaro risaltano sul verde riflettendo la piatta e violenta luce del mezzogiorno del tropico. In quel biancore secco e calcinato ven­gono sorpresi e seccati, fissati gli odori e gli umori  della selva. Essi sfuggono, si insinuano negli interni degli edifici, si accumulano e prosperano, protetti si accentuano e si distilla­no in quei recessi angusti e bui, caldi e soffocanti.
Scendiamo nel tempio delle iscrizioni fino alla cella alla sua base, qui giace scolpita una lastra di roccia, raffigura un  antico sacerdote in viaggio verso l'interno della Terra, verso gli dei sotterranei. Questa azione mi identifica in una penetra­zione di un corpo femminile, primario, un archetipo di donna uni­versale, che mutando nella mente i tratti esteriori tra quelli della Madre Terra e di donne reali, mi abbraccia in un gesto car­nale d'amore. Nella salita per le ripide scale elicoidali che portano alla sommità della torre del Palacio mi trovo nella stretta di una vagina primigenia, assoluta.
Qui non ci sono altre persone, la solitudine accentua i riflessi di questo condizionamento. Sento Paola dietro di me, ansi­mante per la fatica nel superare gli alti gradini, con la pelle madida di sudore per il caldo, vicinissima per il buio. Ripenso alla sua figura. Ha solo un vestito di cotone leggero, molto cor­to, bianco, stretto alla vita da una cintura di lana grezza di colore verde smeraldo molto intenso, e sostenuto con due sottili strisce di stoffa  dalle spalle scoperte, come la  schiena e le braccia. Non ha il reggiseno.
Sento il suo odore, nascosto, ma presente e vivido per me, tra quelli che come folletti guizzano in quell'ambiente  e che rimbalzano rapidi sulle rocce delle pareti rese lisce e scorrevo­li dalle mani e dai corpi degli uomini e delle donne che le sali­vano per i loro riti e per la loro scienza. Per un attimo sono investito, sommerso e permeato da un carico intenso, impetuoso ed enorme di messaggi: la selva, i sacerdoti Maya, mia moglie ed i loro folletti si mescolano assieme e sovraccaricano la mia sensi­bilità fino a farla xxxxxxxxxx. Per un attimo, stordito, sono chissà dove.
Sento Paola, in sintonia con me, investita da questo evento.  Il suo respiro lambisce il mio collo, il suo odore risalta su tutti gli altri, i suoi seni premono e si allargano contro la mia schiena, la sua pelle si incolla alla mia. Attorno al nostro ab­braccio caldo e silente solo oscurità.
Lei emana un richiamo sessuale irresistibile. Dichiara una sessualità forte, decisa, ferina, ancestrale, sopita sotto mi­gliaia di anni di storia culturale. Sessualità che, liberata da quegli influssi primordiali della selva, supera e prende final­mente il sopravvento  anche sulla cultura dell'uomo, anche sulle piramidi e sulle costruzioni dei Maya e sopra i loro riti e la   ;7 loro scienza.
Mi trovo, ci troviamo proiettati, soli e assoluti rapprese­nanti della vita, oltre la storia, oltre la mente.

 
Palenque luglio 1987 

 


NAGA

Mas, l'autista, sale sul tetto della Toyota e scruta pensoso in giro; si é perduto per la seconda volta in quattro giorni. Scende, ci guarda contrito, si batte la testa con il pugno chiuso rimproverandosi il suo errore. Attorno a noi, per trecentosses­santa gradi, il paesaggio é fermo: deserto sassoso piatto fino al fosco limite raggiungibile dai nostri occhi, immobile nel prelu­dio calmo della sera. Vogliamo andare a Naga, luogo un tempo più attraente per l'uomo, che vi costruì una realtà urbana circa due­mila anni fa. Oggi rimangono due tempi di quella cultura nubiana ed un successivo, piccolo, delizioso chiosco che porta chiare in­fluenze ellenistiche. Mas, dopo un buon numero di giri a vuoto, ritrova la pista. Finalmente arriviamo, in tempo per partecipare al tuffo del sole sull'Hammada sahariana, dietro l'altura lunga e piatta che protegge il luogo ad ovest.
Le vecchie costruzioni di pietra sulla sabbia sono isolate, lontane tra loro. Le immagino, altere dimore divine tra i quar­tieri della gente comune, degli schiavi: effimeri luoghi di ca­panne di legno che non hanno storia di fronte alle eterne, sacre rocce dedicate al Dio Amon, al Faraone Natakamani e alla sua spo­sa Amanitare. Più in là: un pozzo ed alcuni alberi attorno. Pian­tiamo la tenda lontano dagli alberi e dal pozzo. << Là, serpenti velenosi>> ci avverte Mas.
Oggi è il mio compleanno, il trenta dicembre. Lo festeggiamo  attorno al fuoco, nel silenzio di quel luogo assoluto e assorto.
Enormi cavallette, attratte dai bagliori delle fiamme, ci colpi­scono continuamente ed alcune finiscono nella brace. In questo deserto ci sono luoghi da cui, secondo equazioni variabili, si irradiano le emigrazioni di questi insetti per tutto il continen­te, flagelli per l'Africa come per noi europei lo furono i noma­di, che furiosi  si irradiavano dalle steppe dell'Asia.
Il crepitio del fuoco, gli urti sui nostri corpi delle ca­vallette ed il loro rapido evaporare e schioccare sul fuoco sono gli unici suoni sensibili. Attorno a quella nostra bolla luminosa e trillante, nulla, forse: il suono del mondo, che permea e fa vibrare nelle sue molteplici essenze, l'etere cosmico. Riusciremo a sentirlo?
Al mattino siamo svegliati da un rumore di campane, da bela­ti, da voci maschili secche e precise, da fischi modulati. Attor­no al pozzo ci sono dei pastori che abbeverano i loro animali: dromedari, asini, pecore e capre. Si sono portati delle semplici carrucole di legno, le fissano a dei rami ad ipsilon, lucidi e bianchi dall'usura, già presenti al pozzo. Sulla carrucola fanno scorrere una corda attaccata ad una pelle di capra che va a pe­scare l'acqua nel pozzo ad una profondità di 25 - 30 metri. Un asino tende e tira la corda, camminando verso l'esterno, solleva l'acqua che viene rovesciata in una buca in terra.
Gli animali sono tanti, il lavoro è lento e va avanti per tutto il giorno fino al tramonto: alcuni uomini sorvegliano  i turni dell'abbeverata affinché qualche animale non si prenda una doppia razione di quell'acqua salmastra a scapito di altri. L'uo­mo vigila sull'etica dei propri animali affinché le ferree regole fisiche biologiche del deserto non facciano soccombere i mansueti e  premino i prevaricatori. Il sole é feroce: alcuni vecchi e i bambini piccoli attendo­no e giocano all'ombra degli alberi lì vicino. Un vecchio, con gli abiti stracciati e lo scesh scomposto mi offre un bimbetto, maschio, di circa quattro anni. E' un scherzo? Rifiuto comunque l'offerta. Forse abbagliato dai simulacri della nostra opulenza che sfacciatamente provocano la sua essenzialità di nomade ci prega di portarlo con noi e di offrirgli una vita diversa, mute­vole, moderna al posto di quella: arcaica, statica, costante. Non migliore ma almeno sciolta dai terribili bisogni primari del­l'uomo e dalle crudezze che li soddisfano e più spesso negano ta­li soddisfazioni. Forse me lo vuole semplicemente vendere.
Le bambine più grandi, le ragazze aiutano nel lavoro. Hanno ancora la pelle compatta e liscia, le guance sono incise da tagli che fanno più interessanti i loro profili. Ci guardano curiose ma non si avvicinano.
Il gruppo non è infastidito dalla nostra presenza, si mostra tollerante alle nostre fotografie eccetto che ai primi piani, a quelle che richiedono  una stretta vicinanza della macchina foto­grafica. Ripenso a quei "viaggiatori" incontrati qualche giorno fa a Kartoum: dicevano che la zona di Naga era controllata da predoni nomadi. Eccoli i temibili predoni trasfigurati da tanta, cattiva letteratura di viaggio, dalla presunzione di essere gli "ultimi" i "veri" viaggiatori, di vivere delle "avventure".
Sono semplici pastori  ma dimostrano una fierezza ed un por­tamento nobile. Mi immagino nei loro occhi la consapevolezza del­la libertà dei grandi spazi, sulla loro pelle i segni di una vita profondamente attiva, nelle loro vesti e nei loro gesti una cul­tura millenaria integrata con questo ambiente. Forse mi immagino un mondo finto, che vive solo nelle nostre teste romantiche assetate di spazi e viziate dalla solita cattiva letteratura di viag­gio, o impigliate nelle traduzioni dall'arabo, in carovane, suk, caravanserragli, funduq, in notti mai uguali sotto e fuori la tenda, nei racconti e nelle fiabe  e nei loro Jinn; nella nostra invidia di poveri fellayn verso i mitici, temuti beduyn: domina­tori, razziatori di bestie e di donne, padroni di schiave e della terra che, sempre diversa, calpestano sotto i loro zoccoli.
Ma questi nomadi di Naga, neri, li sento stanchi, non padro­ni dello spazio ma piuttosto, deformati da esso, oppressi, quasi schiacciati dalle sue discontinuità che, ora, si creano in com­plicità con il tempo e dalle quali si espandono, a dar man forte ai geni del male di sempre della siccità e delle malattie, i geni del male del nostro tempo: la fine dei traffici carovanieri, l'e­spansione dell'agricoltura tecnologica, l'economia e le comunica­zioni globali...
Alla sera, con il fresco, se ne vanno. Ritornano nel nostro (non per loro) nulla dal quale erano apparsi: con gli stessi rumori, richiami e versi degli animali, con gli stessi ordini e i fischi modulati, immutati nel tempo e immutabili. Immutabilità caparbia che sanci­sce la loro eroica inutile resistenza  contro il nuovo che avan­za, verso la frammentazione del loro universo.  Li vedo andare via verso pascoli stentati e sempre più lontani, verso pozzi sem­pre più profondi e salati. Preferisco salutarli con il mio irrea­le rimpianto. Io rimango li dipendente dalla mia tenda a cupola, dalla Toyota, dal Boeing 707. Preferisco ricordarli ancora vin­centi sulla mia casa in Italia e sul mio lavoro sul lago.
Salgo sul jebel scolpito su una bella arenaria, gialla, ru­gosa e calda, amabilissima al contatto delle mie mani e salda al­la loro presa. Dalla sommità, piatta, spazio con la mente, oltre le lontane montagne simili a questa, dal mar Rosso all'Atlante,  dal Mediterraneo al Kilimangiaro.

Menaggio marzo 1993

 

CORRIERA 1
 
Un fortissimo mal di testa mi tortura da alcune ore, la si­nusute e la stanchezza, già ieri abbiamo viaggiato in autobus per tutto il giorno per queste strade di alta montagna.
Sono seduto, finalmente, sull'ultima fila, pigiato tra un corpulento monaco a destra e Paola a sinistra, i piedi su un mo­tore diesel, caricato dai monaci. Emana un forte odore di gasolio e di olio bruciato. L'autobus è stracolmo di passeggeri: molti monaci, che devono raggiungere i loro nidi d'aquila e soldati e poliziotti, siamo vicini al confine, ancora non definito, con la Cina ed il Pakistan. L'autobus è riempito dalle merci più invero­simili: oltre al motore dentro  materassi e coperte e sacchi, sul tetto mobili, una campana di metallo. Prima della partenza abbia­mo assistito ad una lotta fra l'autista che temendo un peso ec­cessivo  scaricava i bagagli e i monaci che di nascosto li cari­cavano da un'altra parte.
Siamo partiti alle tre di notte da Kargil. Sono le cinque del pomeriggio, il monaco a volte si addormenta e facendo cadere la testa me la striscia sul collo come carta vetrata dai capelli cortissimi sul cranio pelato. Guardo fuori, credevo di aver supe­rato il passo dato che il fiume sembrava scorrere nella direzione opposta a quella di sempre, ma sbagliavo, il fiume scorre  se­guendo la direzione di sempre, verso Kargil, da cui siamo parti­ti. Lo spartiacque non lo abbiamo raggiunto, e non il passo. Man­cheranno ancora cinque o sei ore a Padum. Questa consapevolezza improvvisa di non essere arrivato acuisce il mio malessere e ali­menta la disperazione. Sotto gli occhiali scuri, impenetrabili, sigillato dagli schermi laterali di cuoio per i raggi ultravio­letti mi sento isolato, protetto. Piango, con le lacrime, come facevo da bambino. Piango disperato e sommesso.
I monaci, i poliziotti, i ragazzi che viaggiano con me sono contenti, la neve ormai si è sciolta e si può raggiungere Padum, è la prima corriera che pasta in questa estate. Scendono e corro­no in discesa tagliando i tornanti precedendo l'autobus. Quando risalgono mi offrono i primi fiori della stagione con il loro "ciulé".

Padum luglio 1988

 


DELHI
 
Sono nella città vecchia con Paola, giriamo a piedi senza meta e senza scopo se non quello di percepire visioni, odori e contatti, quasi rubare sensazioni da questa folla indiana. Dalla via principale che proviene dal Forte Rosso  ci perdiamo in stra­de laterali, strette che a volte si fanno pertugi sormontati da­gli aggetti delle abitazioni. Odore di sapone e di casa, odore di bucato e panni stesi, non spezie e non mercato, il pavimento a piastrelle si raccorda, pulito, con il canaletto di scolo e con i muri tirati a lucido e dipinti di verde e di azzurro, non richia­mi ma silenzio.
Ripenso a dove ero un'ora fa: drappi verdi dell'Islam agita­ti con frenesia, autoflagellazioni e il rosso del sangue del mar­tirio, ovunque onde di uomini in movimento, ovunque facce barbu­te, maschili, arcigne ed accese che rifiutavano la mia invadenza, la mia presenza, ovunque grida ostili che mi cacciavano dal piaz­zale della grande moschea.
Qui invece un universo femminile, quasi statico, assopito nei vicoli e nelle case aperte nei vicoli, e bambini piccoli e donne che mi guardano curiosi e mansueti. Rincuorato da questa apertura nei miei confronti, forse determinata da un'altra reli­giosità, esaltato da questa accettazione non mi accorgo di supe­rare il tenue confine che mi porta nell'intimità di questo uni­verso senza essere invitato.  
Una dolcissima e bellissima donna avvolta nel sari mi avvisa di questo passaggio, con tatto e gentilezza:

"Sir. This street is closed".
 
Delhi agosto 1988

 


PER QUELLI CHE HANNO SCELTO LE SIRENE
VOLO PER ERMOSILLO

 
Mi son innamorato di una voce, ancora oggi, a distanza di anni la ricordo vivida e pulsante nel cervello. Ero all'aeroporto di Città del Messico, moderno e pulitissimo, proveniente da New York. Mi aggiravo con il sacco, spaesato, alla ricerca della ban­ca e del terminale dei bus o dei taxi. Ad un tratto vengo amma­liato dalla dolce voce femminile che per interfono annuncia il volo per Ermosillo. Non ho più avuto modo di essere permeato, e di affogare in una sensazione così calda e melodica e sensuale. Per me quella voce fu un pressante richiamo sessuale, un invito all'amore. Per me in quel luogo del Messico c'é una bellissima ragazza che mi chiama, che mi accoglie in un caldo e languido  abbraccio d'amore. Per me in Messico esiste una sirena che mi chiama e alla quale non so rinunciare.

Menaggio marzo 1993

 

CRETA - settembre 1976

Era il mio primo viaggio. Viaggio serio e autonomo. Organizzato con Mauro alla buona. Senza aver letto guide, senza aver cercato informazioni. --Andiamo in Turchia, andiamo “lontano”  in oriente -- la meta e Stambul. Pensiamo di attraversare l’Adriatico e poi in corriera attraverso la Yugoslaviae la Bulgaria.  Poi scegliamo Brindisi e Igoumenitza. Ci ritroviamo sulla nave diretta ad Atene senza scalo, non per sbaglio. Da Atene a Stambul andremo in aereo. Ci ritroviamo sulla nave diretta a Yraklion.
Lo sbarco a Creta avvenne di mattina molto presto. Dopo la notte in nave, lo sbarco, il ritorno sulla terra e il ritorno in un ambiente più familiare é sempre un sollievo. Non più l'odore insistente e ubiquitario, grasso, del gasolio, non più l'odore di piscio che ti azzaffa ogni tanto. Una bella mattina di settembre,
un aria fresca e salsa ci accoglie assieme al placido brusio del­la vita mediterranea. Dal muro che proteggeva il molo dalle insi­die provenienti dal mare ancora fa la guardia il leone alato di Venezia e la sua vista mi trova spaesato tra il piacere di una cosa famigliare e vicina e il fastidio di ritrovarla.
Cosa facciamo? Lungo la via che conduce al centro, sulla ve­trina di un barbiere, una scritta in inglese - RENT A VESPA - forse volevamo girare l'isola con la corriera ma la vespa ci sol­letica e maggiormente invita Mauro, da sempre in simbiosi con la moto. Unico problema nessuno dei due ha la patente. Il barbiere telefona. Ci viene a prendere un taxi che ci porta al garage dove prendiamo la vespa Piaggio da 50 cc.

Le vecchie corriere Volvo sono tenute benissimo. Sono quasi tutte verdi lucidissime e cromate. Sono i modelli con il muso al­lungato avanti alla cabina di guida. Il bigliettaio e severissimo per quanto riguarda il rispetto dell'arredamento interno. E' quasi maniaco, non si può nemmeno far scattare l'elastico che tiene la reticella attaccata nel retro del sedile che sta avanti al no­stro.

Moni Keras. Il prete con il tappo ci parla, con voce conci­tata, con disprezo dei turchi. Hanno assaltato il monastero, han­no sparato dentro i locali del monastero: ci fa vedere il buco del colpo di fucile.

L'uomo della bancarella delle uova fritte. Italiani hanno fatto la guerra contro di noi ma erano bravi, anche i tedeschi hanno fatto la guerra contro di noi ma .... e si fa il segno a recidersi la gola. Non ho capito se i greci la tagliavano ai te­deschi o viceversa.

Altopiano di Lasshiti. Doveva essere verde, ricco di acqua e di mulini a vento che la pompavano dal sottosuolo. Una interru­zione sulla strada, il brillamento di alcune mine e i relativi lavori non ci hanno permesso la prosecuzione del viaggio.
 
Sulla strada da Ag. Nikolaos. Le vampate di aria calda secca provengono dall'asfalto, sono le due del pomeriggio. Non sono fa­stidiose anzi son piacevolissime, non odorano di strada asfaltata ma di erbe dei greppi, di roccia calcarea riscaldata dal sole e di mare che è comunque lontano.
 
Siete tedeschi? No italiani.

 


LAGO

Stasera sono stato preso dal furore di essere immerso nelle forze della natura e principalmente nel vento.

Varenna 25 marzo 1993
 
Lentamente assaporare la bellezza intensa del paesaggio, sorbire stilla a stilla gli umori della Terra, farsi cullare da­gli sciacquii morbidi del lago, accarezzare  col corpo la roccia puntuta e ruvida che riflette gli ultimi calori del tramonto, li­brarsi nella brezza dolce e fresca.
 
Rimanere trafitti e indolori dai suoni, dai canti garruli degli uccelli, e dall'abbaiare del cane, dal volo garrulo del gabbiano.

Amare i rosa caldi e forti e l'arancio ruvido delle case che si specchiano sullìacqua crespa (l'opera dell'uomo che non intui­sce non asseconda talvolta il paese) Attendere ed avvertire i più tenui odori che provengono dall'ambiente.
 
In questi  *****  la presenza umana é un fastidio. Anche la bella signora che passa troppo veloce con un crepitio di tacchi a spillo sulla passerella e con le calze nere sotto la gonna corta é un fastidio, una nota fuori posto. Un segno troppo univoco, de­ciso in mezzo a quelli naturali, molteplici e tenui, ma ammalian­ti e necessari se amalgamati nel tempo e nella lentezza con cui ti permeano e si appropriano di te stesso.
 
Varenna 18 marzo 1993  h 17.30 - 18.30 - 19.00
 

 

I nostri tramonti (Tramonto sul lago).

Passaggio tenue, discreto, indolore dai toni caldi ai freddi dell'oscurità: dal caldo del giallo, arancio, rosso al al viola al blu, dalla rugosa roccia rasa dal sole al liscio metallico del lago al grigio di tutto. Passaggio lento dal giorno alla notte, nell'odore dell'aria tiepida che si raffredda e fissa a poco a poco i dolci effluvi sul suolo.
I nostri tramonti sono così. Quelli tropicali netti, decisi, sono dolorosi, un cambiamento troppo veloce, non ci siamo abitua­ti.

Varenna 18 marzo 1993
 

La televisione non produce modelli positivi e non produce cultura, per i giornali é la stessa cosa, gli articoli sono far­citi di idiozie inutili, esprimono una letteratura sempre più po­vera, anche i quotidiani a diffusione nazionale, vendono i loro bassi pettegolezzi scritti da "giornalisti" senza talento.
 
Menaggio novembre 1992
 

Il ragazzo di 16 anni con gli scarponi calcia sulla macchinetta dei biglietti e sui raccoglito­ri dei rifiuti.
 
Sono quelli che bruciano i turchi!?

Chi conosce Leopardi non brucia i turchi e non porta quegli orrendi scarponi.  Chi ama Leopardi non spacca il cranio dei bam­bini di tre anni. Non va allo stadio ad accoltellare la gente, non é fascista.
 
Osnago 4 dicembre 1992

 

Il sole é sceso dietro la montagna che sta diventando scura ­con i bordi in riflessi rossi della luce del tramonto e chiari della neve. La parte scura forma un cono quasi perfetto isolato dal cielo occidentale, quasi luminoso, interrotto alla base dal lago frazionato in minimi riflessi di luce.
Il **** é li sul lago e sui pini, oramai scuri, di un verde minuto nelle chiome e di opaco scheletrico rapido non colore dei rami e del tronco che risaltano le creste e i ventri argentei delle onde della riva.

Varenna 5 marzo 1993 h. 18.00
 

 

PRAGA

Il ricordo di Praga, a distanza di un mese è quasi scomparso. Comunque quella città mi ha colpito più di quello che avevo pensato che mi colpisse. E’ una città bellissima, perfetta nelle sue qualità architettoniche, precisa nelle sue strade palazzi e chiese. Le facciate delle case hanno i colori più diversi, anche molto vivi, sono molto elaborate da fregi e statue. Tutto è perfetto, pulito. Tra le cose di maggior fascino ci sono la cattedrale di Thin e  Mala Strana.
Mala Strana è oltre la Moldava, sotto la collina del castello e sotto il castello che incombe. A Mala Strana i bambini giocano negli spiazzi erbosi e prati tra le case. A Mala Strana il fiume si divide lasciando in mezzo un’isoletta, fittizia quanto si vuole ma isolata dal resto del quartiere e dal resto della città. L’isola di XX è tranquilla con il suo grande parco e le acque che la lambiscono, nell’isola non vengono i tram e i grandi mezzi, è quasi totalmente pedonale. Se si sale su verso la Nerudova

 

VENEZIA

Sono andato molte volte a Venezia. Ho anche vicino Venezia ai tempi dell’università. Mio padre è veneto, mi è famigliare la lingua e il paesaggio del Veneto ma non conosco Venezia. Prima,  come in tutti gli abitanti della campagna, c’era la consapevolezza di inferiorità personale verso la città dei signori della storia: il Doge, i nobili.  Quello che vedevo di quel mondo erano le ville di campagna lungo la riviera del Brenta. Quello che sentivo erano i discorsi di mia nonna che parlava dei veneziani come persone inadeguate alla terra, alla campagna, alle nostre cose.  Venezia era per me un sogno e per via del condizionamento culturale dei media e della scuola, un sogno oggettivamente positivo.
Andavo, quindi,  spesso a Venezia. La percorrevo instancabile a piedi, andavo anche nei luoghi mito di quel tempo, ma la mia preparazione ancora non mi faceva entrare in sintonia con quei miti, con la biennale, con la tempesta di Giorgione. Le avrei viste poi quelle cose, per il momento mi bastava percorrere la città e guardare, solo guardare le case, le finestre, i mattoni rovinati dall’acqua e dall’umidità, i calcari bianchi di Dalmazia delle facciate dei palazzi, delle chiese, dei ponti. Guardare senza pensare, esplorare per riconoscere il percorso a distanza di mesi. Intendevo appropriarmi del luogo in generale, poi mi sarei calato sempre più nei particolari. [**]
Ad Un certo punto si è rotto questo meccanismo e Venezia mi è venuta a noia. Di quei tempi i ricordi più vivi sono quelli negativi. I Laidi e puzzolenti canali quando sono in secca o con poca acqua, il fastidio e la confusione del carnevale (era una liberazione rimanere nell’istituto di geologia quando tutti andavano al carnevale) il concerto dei Pink Floid a piazza S. Marco, la quantità sempre crescente di turisti che si accalcano nella città, gli americani e i giapponesi. Unica tappa buona di quei tempi il campo S.Polo, la chiesa S. Maria Gloriosa dei Frari e Tiziano.
Ma il colpo di grazia è venuto da una migliore (aimé) conoscenza della gente di Venezia: dei veneziani e di quelli che abitano a Venezia. E’ caduta  la consapevolezza di un tempo in cui io veneziani erano signori. Ora i veneziani (almeno quelli che ho visto io) sono dei venditori di Venezia, dei bottegai di vetri, di ciarpame, di cibo e di quant’altro non so. Gentili, perfino servili con gli americani e i giapponesi, con quelli vestiti in un certo modo o con l’età precisamente compresa tra a e b, ma sono odiosi con tutti quelli che non riconoscono nelle categorie di cui sopra. I veneziani non sono più dei signori, forse saranno stati dei signori. Di contro, credono di essere diventati dei signori, quelli che per scelta, abitano temporaneamente a Venezia. I peggiori sono gli studenti universitari, magari sono delle Marche, fanno architettura o lingue e si sentono depositari di tutta la storia e della cultura di Venezia. E’ loro intimamente la città. E’ solo loro la città, la sua nebbia fredda, l’odore dell’acqua, del pesce morto, la lingua, l’arte, il sogno. C’è stato uno scambio, i signori di una volta sono diventati dei bottegai senza metafisica e i campagnoli di tutta Italia sono tutti Dogi sul Bucintoro allo sposalizio del mare.
Ma in mezzo ci sarà un’altra Venezia

Monte 10 maggio 1997

 

ICE

Come ogni sera Ice la attendeva alla stazione di arrivo del­la funicolare. Se ne stava composta, seduta sulle zampe posterio­ri, al solito posto dall'altro lato della piazzetta che si apre sotto i tre gradini dell'edificio giallo della stazione. Aveva scelto quel posto per non essere invadente, per non dare fastidio agli altri viaggiatori che a quell'ora erano comunque pochi.
Come ogni sera, anche quel giovedì di autunno, lei era una delle ultime persone a percorrere quei pochi metri della piazzet­ta pavimentata con ciotoli rotondi. Quando Ice la vide fece il solito suo saluto festoso muovendo compostamente la coda e otte­nendo un saluto di risposta, le si avviò dietro e la seguì sul lato destro, come ogni sera, su per la stradina.
Dovevano percorrere un buon tratto a piedi per le erte stra­dine del paese e quindi tra gli abeti e i pini prima di arrivare a casa, a quella grande casa forse un pò massiccia, quasi da vil­la toscana, piantata lì proprio a pochi passi dalla cresta del colle che sovrasta il paese. Quella camminata serale con Ice era un suo rito ormai assestato da anni. Non aveva mai voluto usare un qualche mezzo che rendesse più veloce il percorso. Le piaceva vivere lentamente quel suo ritorno a casa, sentire con tenerezza i rumori e gli odori e i ritmi del suo percorso, volutamente len­to, per avere il tempo di calarsi, dopo le sue attività, giù in città, nella sua storia di sempre.
Quella sera la brezza saliva vivida su dal lago, alimentata anche da un leggero vento da nord, che incanalato nella stretta valle , faceva volare le foglie già secche dei platani delle vil­le attorno alle loro figure. Le foglie, colpendo l'acciottolato grossolano della via, provocavano un rumore crepitante ed ovatta­to.
Arrivate in vista della casa, Ice corse avanti costeggiando la folta siepe di bosso resa di un verde coriaceo e rilucente dai raggi radenti del sole di quel ventoso ottobre. Ice entrò nel piazzale antistante la casa scompigliando con la sue zampe il ghiaietto bianco, ben curato del pavimento con un rumore di gocce di quarzo cadute a grappoli. Subito dietro il rumore più grave delle sue Chanel nere che percorrevano il ghiaietto. Una carezza, un saluto affettuoso ad Ice ed entrò in casa.

Brunate aprile 1990