MARCHE-UMBRIA DIVIDE (PROVE DI BIKEPACKING)

Inizi lontani nello spazio e nel tempo

 

 

“Quod Mesto Purkaballo manere in Fraternitate Peregrinantium Bicicli, obtemperare cum nova arte biciclo pachando. Biciclo acquirit, et caulas, et omnes materia apta agro itinera futuro.”

L’iscrizione era inserita alla base di un piccolo affresco nell’intradosso del vano cieco sito sopra la colonna centrale ad otto braccia della cappella mozarabica di San Baudelio de Berlanga in provincia di Soria nella Vecchia Castiglia. Gli affreschi sono stati trafugati durante la guerra civile, forse dalle milizie internazionali o forse dalle truppe franchiste.  Era una copia di un commentario miniato sull’Apocalisse del monaco dell’ottavo secolo Beatus di Liebana.

 

[Image title]

[Image title]

[Image title]

 

 

“Chi sono io per non ottemperare ad una prescrizione e vaticinio cosi pressante e preciso?”

Dunque mi sono procurato, da autodidatta e da spia del forum de il Cicloviaggiatore, il telaio di un chiassoso blu, i componenti da montare e gli accessori, tra quelli più facilmente accessibili qui nella Media Marca. Ecco la bici, con tutta la sua bardatura, nella Val di Panico dei Monti Sibillini.

 

[Image title]

 

“Ma io non voglio andare fra i matti” osservò Alice.

“Oh, non ne puoi fare a meno” disse il Gatto. “Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.”

“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.

“Tu sei matta,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui.”

 

Lewis Carroll - 1865

Alice's Adventures in Wonderland

 

 

 

Marche-Umbria Divide (prove di Bikepacking)

 

 

Lo so! Il titolo è scimmiottato da ben più seri cimenti e il mio cicloviaggio, che ha il suo esiguo fulcro più o meno sul filo dello spartiacque appenninico, è troppo domestico ed il chilometraggio ridicolo, ma il diario si è reso necessario per certificare l’avvenuto rito di passaggio al moderno e per dare ulteriore spazio più alle sciocchezze raccontate che alla vera attività di pedale.

 

 

 

Da casa a San Donnino – km 60 – dislivello +1237 mt

 

 

Ho la tenda ed il sacco a pelo attaccati al manubrio, il bikepacker serio fa campeggio libero. Io non sono né serio né bikepacker convinto, ho pensato di fermarmi per la prima notte a San Donnino, un villaggio di alta collina dove conosco un sacco di gente. Mi faranno piantare la tenda sul pratino davanti casa. A voler essere precisi al millimetro la casa ed il pratino sarebbero quelli di mia moglie, e prima ancora erano della mamma e della nonna.

Ma:

“Giuro giuron! Che il diavolo…

…Che userò la tenda e non il letto di casa e il fornello a gas MSR e le minestre liofilizzate, che ho sulla bicicletta, per prepararmi la cena.”

Sono andato molte volte a San Donnino e non è facilissimo trovare un percorso originale,

“Ma stavolta ho più o meno una MTB!”

Non sono abituato alle ruote così larghe, riempiono quasi la linea bianca del bordo strada. Fin dai primi chilometri mi trovo benissimo con la nuova bici. Il carico risulta meglio bilanciato che nell’altra, che ogni tanto in discesa scodinzolava. Lo strano manubrio, poi, è di una comodità inaspettata e disarmante.

Il primo incontro con lo sterrato è nella valle del torrente Triponzio fino al borgo di Santa Lucia. Non sono avvezzo alla tecnica ma vado abbastanza bene, in salita la larga presa del woodchipper mitiga le vibrazioni e mi rassicura assai.

Passano i nostri Petits Villages di Morro D’Alba e San Marcello, passano gli allevamenti del vitellone bianco marchigiano, le crete argillose dei pastori sardi e le vigne del Verdicchio, passano Montecarotto e Serra dei Conti. Arriva finalmente un percorso mai visto: la strada provinciale N. 44 per il Castello di Castiglioni di Arcevia e poi una strada ancora più solitaria. Percorro un’ampia cresta collinare fino al fiume Misa, che seguo verso la sorgente per una strada sterrata in una valle stretta fino alla ripida salita di Santa Croce e alla più placida conosciuta ex statale per Gubbio.

Arrivo dopo lo strappetto della cabina dell’Enel al 17% che i Vecchi Capo Villaggio sono ancora tutti lì, sotto il grande albero vicino alla Fonte Nuova seduti ad osservare a oriente il Vasto Mondo che ancora si ostina a muoversi verso di loro: Primo, Caterina, Lello, Emilia, Gigetta e Barbara. O forse sono loro che si ostinano, con ragione, a rimanere uguali a se stessi da almeno quaranta anni che li conosco.

Primo, che ancora ha una vista da rapace, mi dice:

“T’avevo visto che eri su per la salita della Cappellina. Eccolo, quello é quel matto de Andrea con la bicicletta”

E poi ammiccando alla bici, con pragmatismo da antico e tradizionale economista:

“N’hai comprata n’altra?

Ndò ce devi andà con questa, a raccoje l’ovi sui nidi dell’alberi?

E quella arancione non t’andava più be’?"

Come al solito, non rispondo in maniera sensata e annuncio la mia nuova idea. Emilia, stupita, mi fa:

“In tenda? Ma figlio mia non ce l’hai li letti dentro casa?"

E poi:

“E che vai a fa’ sul Monte Cucco?”

Domanda precisa e plausibile alla quale non so rispondere con appropriata decenza. Devio le mie responsabilità, chiedo delle novità.

Mi dicono che hanno festeggiato i cento anni di Annetta che non abita più da sola a San Donnino ma dalla figlia vicino a Sassoferrato, mi dicono del nuovo-vecchio trattore Landini di Eddo e della chiesa che ancora dal terremoto del 1997 non è agibile.

Sono stato sempre molto bene in questo ambiente, sereno e certo custode di stabilità e di costante cultura materiale. Qui i miei figli hanno imparato ad allacciarsi le scarpe, ed io a preparare la carbonella per la brace con la legna della Macchia, qui abbiamo conosciuto le bacche commestibili per non morir di fame nel Bosco, qui abbiamo conosciuto le storie di diavoli, streghe e fattucchiere…

Lello mi indica un percorso per raggiungere domani il bivio di Filipponi senza passare per la strada asfaltata ma per il sentiero del Piano Basso e Catozzi e mi avvisa:

“Mette la tenda vicino a casa che stanotte ci sarà tanto vento!”

Obbedisco:

“Sì Capo!”

Ma la nottata é comunque rimbombante di teli che sbattono e ridondante di levatacce per tirar le corde e risistemar picchetti.

 

 

 

Da San Donnino a Scheggia – km 45 – dislivello + 1435 mt

 

 

Il percorso di Lello per il Piano Basso si dimostra ardito in salita dentro un serpeggiante canale di scolo in secca, ma agevole e veloce in discesa.  Riprendo l’asfalto fino a Sassoferrato e al borgo di Bastia di Fabriano. Inizia lo spauracchio della giornata, una salita di circa 600 metri di dislivello su strada bianca per una lunghezza di sette chilometri. Arrivo allo spartiacque prima delle previsioni e nemmeno tanto sciattato. Non sarà un passo andino ma oltre la cresta erbosa si spalanca tutta l’Umbria e buona parte della Media Italia. Mi basta così.

La Val di Ranco è un luogo meraviglioso: oltre il pedaggio dovuto alle case da vacanza, all’area sosta camper, alla cappellina neogotica e all’albergo si spalanca un bosco incantato e buio di faggi giganteschi. Lo chiamano, forse non a torto, la Madre dei Faggi.

 

[Image title]

[Image title]

[Image title]

 

Ci precipito dentro con la mia biciclettina blu e la maglia troppo chiara. L’ambiente mi affascina e mi intimorisce in po’, sono lì con le orecchie basse, mi sento improvvisamente come il Bianconiglio di Alice. Seguo il percorso in discesa che, morbido e ovattato, costeggia il torrente in secca, scende ancora, si stringe, passa tra grosse pietre… A piedi accompagno la bici fino al nulla. Sono fuori traccia, la via maestra è alla sinistra del torrente e più in alto, io sono a destra e quaggiù in basso. Ho sbagliato strada.

“Che novità!”

Come al solito, non ho carta geografica, quella dentro il Garmin è ridicolamente inutile. Come raggiungo la traccia? Provo a piedi un sentiero che si infila nel torrente e poi sale come un tipico sentiero da fare appunto a piedi. No. Non va. Mi siedo e guardo in giro un tantino scocciato.

Dal bosco rumori di fronde mosse e rametti rotti: vengono verso di me addirittura il Gatto Mammone o lo Stregatto o il Gatto dello Cheshire (chiamatelo come vi pare) e la moglie. Lei silenziosa mi guarda stralunata, lui con gli occhi spalancati e gialli, allucinati e con un gran sigaro in bocca mi gira attorno e sale su un albero.

Più che con la parlata umbra, stretta di muschio e funghi porcini, ma con la sguaiatezza aperta e grassa della porchetta romana mi dice con voce cantilenante:

“Oh, conijé, ma che ce fai quaggiù?”

“La regina te aspetta da mò! È ‘ncazzata come na jena!”

Continua sornione:

“Te sei sbajato. Addevi tornà indietro, fino a che poi addevi da salì alla fonte dell’Acqua Fredda e poi al bosco della Fida e poi addevi da salì fino al Piano delle Macinare.”

“Ma daje! Movete de prescia!”

“Che te se fa’ notte e la Regina te fa’ la pelle!”

Parto subito, ma lui ancora incombente e largo:

“Aoh! Conijè! Te sei scordato l’occhiali!”

Raccolgo gli occhiali, torno indietro, in salita la bici inizia ad essere un peso. Raggiungo la stradina in mezzo al bosco dei grandissimi faggi. Il percorso è stavolta agevole e gaudente. Entro ancora di più nel personaggio del Bianconiglio e incomincio ad urlare:

“é tardi, è tardi, non aspettano che me.”

Alla fonte dell’Acqua Fredda incontro Il Cappellaio Matto e la Lepre Marzolina. Lui dorme sdraiato su una panchina e lei gioca a scacchi con uno specchio…

Scendo dalla bici, saluto e vado verso di loro, lui si solleva seduto e mi guarda come se non fossi il Bianconiglio ma un ciclista qualsiasi, lei continua a saltabeccare sulla tastiera con il cavallo bianco:

“Tracchete tracchete trachete…”

Lo specchio le risponde con le note dei fiati cadenzati degli alfieri neri.

“Tumbede-too tumbede-too tumbede-too…”

Continuo ad avvicinarmi alla coppia con l’impressione di essere inaspettato e inopportuno. Mi fermo e con un leggero inchino chiedo:

“Lor Madame et Messeri conoscono la via per lo Pian delle Macinare?

Debbo raggiunger lo sito con gran premura. è tardi, è tardi, non aspettano che me.”

Sono abbottonati dentro le loro rigide giubbe di velluto e pelle, e sulle loro, rimangono in silenzio per un poco e poi lei mi fa:

“Alcuni ciclisti sono passati di li.”

Indicandomi uno stretto guado del torrentello che nasce dalla fonte dell’Acqua Fredda e che andrà a formare il Rio Freddo.

Il mio percorso continua stretto, lui inizia a salire, io scendo e spingo la bici. Diventa un difficile sentiero che si muove malamente e nuovissimo attorno ai molti alberi sradicati di recente. Sale tra le radici e macigni di calcare, inizia a zigzagare ripidissimo su per canaloni e rocce compatte. Trascinare la bici per di lì è una fatica immane. La spingo su un pochino, blocco i freni per non farla tornare indietro, e la raggiungo a minuscoli passi. Il gioco si ripete per centinaia di volte. È una tragedia, mi iniziano a far male le spalle e le braccia e ad ogni nuova spinta della ingombrante bicicletta penso ad un inutile orpello della immane masserizia che mi porto dietro:

Il sacco a pelo più grosso… Che incomincia ad essere freddo.

La lampada frontale Black Diamond Icon da 320 lumen… con quattro batterie AA.

Il cavo d’acciaio ABUS da due metri ed il lucchetto… Per legare la bici agli alberi.

Il cambio completo da “civile”…. Che non si sa mai.

La giacca di piumino.

Il fornello MSR con una bombola in più… Che magari quella vecchia finisce.

La busta di pasta e fagioli e quella della zuppa ai cinque cereali.

Un’altra bottiglia d’acqua.

Le quattro paia di occhiali.

Lo Zzing…

 

[Image title]

 

Storicamente non riesco a viaggiare leggero, mi porto sempre, sulla bicicletta, addosso e nella testa cose inutili, pesanti fardelli e magoni. Magari questa lezione mi servirà per il futuro. Continuo in salita, sempre più rocciosa, con tanto di segnali rosso-bianco-rosso del Club Alpino Italiano come se fosse il percorso di avvicinamento allo spigolo nord del Badile più che un percorso di escursionismo e di mtb.

“E sì!”

Quello che sto precorrendo lo fanno normalmente i mtbikers, con le bici nude ma, quello che vale di più e che mi è ora evidentissimo, loro sono dei mtbikers.

“Ma io proprio no!”

Mi viene in mente che forse non è la strada giusta, che forse ho sbagliato di nuovo. Lascio la bici e torno indietro fino ad un bivio segnato. Incontro alcuni gendarmi che salgono veloci verso il castello della regina. Loro saltellano, mi cantano che è quella la strada giusta e che c’è ancora molto da salire e che mi dovrò sbrigare se voglio uscire dal bosco prima che faccia notte. L’ultima carta del plotone, una soldatessa di picche, mi offre il suo aiuto per portare su la bicicletta.

La ringrazio molto, ma faccio da solo. Le dico poi, che la notte non sarebbe un problema, che tanto ho la tenda e tutto il resto, ma…

“Che palle! Qui non c’è nemmeno un posto in piano per metterla!

Loro sono andati avanti veloci e io dietro con il solito sistema dello spingi e raggiungi. I preziosi denti della corona Shimano XT picchiano sinistramente e ripetutamente sul calcare massiccio. Salgo fino ad uno stretto passaggio tra una parete verticale e il precipizio: il passo del Lupo. Sotto il multiforme e verde versante marchigiano e tutte le colline di tutte le Marche fino all’Adrio Mar. È un posto finalmente molto appagante anche se per venire qui ho dovuto pagare molto di più di quello che mi ero aspettato.

Il Monte Cucco è costruito sul Calcare Massiccio, una formazione di ambiente neritico della base del Giurese e della sommità del Trias. La parre occidentale è il solito monotono panettone brullo e pelato dove si sono create cavità carsiche dello sviluppo di oltre 20 chilometri e della profondità di 900 metri. Nella parte orientale, l’ambiente è gratificato da pareti di roccia chiara, boschi e le acque invece di nascondersi nel ventre della Terra incidono la bianca roccia in profonde valli e forre.  La più bella è quella del Rio Freddo. L’ho discesa diverse volte, in corda doppia assieme alle cascate e dentro i laghetti. Una volta con una nutritissima compagnia di figli piccoli, dai cinque agli otto anni, avversati dalle rampogne del presidente della sezione di Ancona del Club Alpino Italiano che voleva chiamare addirittura i Carabinieri per impedire la cosa.

Con spirito più leggero dovuto alla leggiadra vista del Vasto Mondo e al ricordo degli antichi fasti percorro il falsopiano (sempre salita è) che mi separa dal Pian delle Macinare, un verdissimo prato ellissoidale in una dolina appena fuori del bosco.

 

[Image title]

 

Mi aspettavo che in mezzo al prato fosse piantato il bianco gran castello di pietra della perfida Regina e fosse già iniziato il processo in cui dovevo essere presente, non mi ricordo più con che funzione e in che veste. Trovo invece un piccolo maniero in legno con l’ospitalissimo castellano che mi dispensa gran cibo e una barocchissima birra ad addirittura nove luppoli.

Qual oriental lusso e visibilio!

Si è fatta sera seria, sarebbe consona conclusione della giornata accamparsi sulla verde dolina ma la procedura amministrativa prevede di telefonare per chiedere autorizzazione all’ Università degli Uomini Originari di Costacciaro e pagare chissà come la quota. Non sarebbe stato un problema insormontabile, ma il caldo consiglio del castellano fu quello trovar altro riparo nella citta di Scheggia a soli undici chilometri in discesa per bianca strada sassosa:

“Qui, già da qualche giorno, di notte, fa un freddo gatto.”

Come già si sapeva, non sono un bikepacker serio e mi getto in un’ammaliante discesa dentro nuvole basse che coprono la gran palla solare che si immerge dietro lontane colline umbre in una atmosfera a cristalli micritici che frangono i contorni del Catria, del Nerone e della lontana e toscana Alpe della Luna. Arrivo in paese che è notte scura.

 

[Image title]

 

 

 

Da Scheggia a casa  - km 113 – dislivello + 706 mt.

 

 

Un’ordinaria mattina luminosa e calda di fine settembre mi affranca dagli umbratili e folli incontri nel bosco di ieri. Ho superato, quasi indenne, anche la gran festa del quattordicesimo compleanno di un notabile del luogo. Tirate le somme non so se siano meno innocue le mie bizzarrie o le normali ritualità dei tempi. Oggi ho pensato di seguire la strada consolare III Flaminia almeno fino a Fano. Che ci sia un velo di storia e di antico in questo percorso di asfalto, la venerabile strada funziona da almeno 2200 anni.

La salita fino al passo della Scheggia é breve e facile. Segue una lunga discesa, con tanto di tornanti perfino in galleria, in un paesaggio che sa di lontano. Proprio al confine tra Umbria e Marche ritrovo il tracciato antico della Flaminia, diventato una piccola strada bianca e poi di terra e poi ancora di niente. Nel superare una vallecola riemerge in tutta la sua forza e tenerezza. Delle arcate sostengono il substrato di mattoni del fondo della strada che segna una debole curva verso destra ed entra nel borgo di Pontericcioli.

Passo poi Cantiano e poi ancora a Cagli e Acqualagna, tutte città interessanti, che meritano di più che il conteggio delle fontanelle per segnalarle in “Fontanelle d’Italia”, ma il viaggio ormai è solo ritorno a casa. Ha un guizzo nel passaggio della gola del Furlo che, a dispetto degli abitanti, e diventata pista per solo pedoni, bici e moto. Non mi fermo a Fossombrone che mostra comunque un ardito ponte sul Metauro. Arrivo alla stazione di Fano nel medesimo istante del treno che mi doveva portare verso sud. Lui riparte senza di me. Oggi è domenica, faccio prima ad arrivare a casa in bici che aspettare il prossimo, mancano solo quaranta chilometri.            

 

[Image title]

              [Image title]