Portugal é outra coisa

 

 

 

 

 

 

 

LISBOA

Ora sono qui in questo mio Appennino, tranquillo, a guardare dalla finestra che piove sulla montagna convessa della miniera. Gli ultimi lampi di luce che vengono da occidente lambiscono le accidentate rocce del Catria.
Ora, in questi pomeriggi, volgo il mio sguardo oltre le montagne di occidente ad una terra che amo. So quando a saudade vem.  In questi momenti  melanconici, luminosi  di una luce lontana, in questa solitudine  cercata e in cui mi crogiolo, in questo appagamento delle piccole cose che mi circondano da vicino: il foglio giallo e compatto, questa mia  penna che gratta la sua traccia blu con l’esile pennino d’oro, e più in la l’ondulato paesaggio del maggese scabro e laconico, i cipressi verdi e soli.
Forse il mio stato d’animo é vicino  al gosto de ser triste. Forse  il ricordo, o più la nostalgia di altri paesaggi lontani, di altri incontri, di altri viaggi, forse la mancanza di qualcosa che non so  mi risveglia il magone, che sopito e recondito attende in agguato. Non proprio il magoa della lingua portoghese, che identifica una sensazione più forte e negativa, ma un sentimento positivo di auto compatimento compiaciuto in un luogo e in un tempo amati sia reali che  ricordati o immaginati.
Ogni volta che lascio il Portogallo, già quando la signora del check-in mi domanda “O senhor tem males?”, quando devo scendere nella costrizione della sala d’imbarco ad ascoltare per forza l’italiano che mi ero abituato a non sentire  più,  quando vedo di sfuggita, basso sulla destra il ponte Vasco da Gama  o più tardi quando mi pare di riconoscere Marvao o il Tejo,  già sale il bisogno di tornare. Si rafforza la vecchia idea, quella di fare del Portogallo una sorta di rifugio culturale per i viaggi. Il Portogallo offre queste possibilità. E’ un posto vicino,  accessibile, ci si può creare un luogo elettivo in cui calarsi, uno spazio con cui interloquire, un luogo e un tempo da conoscere bene. Sento il bisogno di essere permeato lentamente dalle essenze portoghesi: il viaggio e il destino e l’eroismo, l’oceano e il granito e il vento, la saudade, la lingua dolce, morbida e fluente.
A lampi, nel tempo,  riemergono dalla memoria persone, semplici  particolari di visi: degli  orecchini di perla o un ricciolo di capelli neri,  occhi verdi propensi allo stupore, o ancora, occhi neri, dolci,  profondissimi e incantati nel passato. Riappaiono luoghi, minuti brandelli di paesaggio: una bandiera verde e rossa, rattoppata che sventola sulla torre di un castello dell’alto Alentejo, un ruvido pavimento di granito madido di pioggia del sagrato della chiesa di un villaggio del Minho. A volte ritornano suoni, odori: la muffa vinosa di una chiesa di campagna, lo scampanio del tram, una canzone, le frasi cadenzate della pubblicità alla radio della macchina, il picchiettio della  pioggia sugli ombrelli. Risalgo queste sensazioni, inseguo i loro percorsi che si intrecciano e se ne vanno a loro volta chissà dove, si frammentano ancora e trovano particolari ancora più minuti: altri luoghi e spazi reconditi, altri occhi, o mani, o baffi, altri rumori: Vado ancora oltre, dove i particolari, ormai infinitesimi quanti di informazione, praticamente inintelligibili, entrano in risonanza con il tutto. Raramente poi,  raggiungo  una segreta sensitività di fondo. Allora una rara capacità di entrare in sintonia mi scorre dentro  fino ad ottenere dei momenti di pathos con non so cosa, chiamiamolo “Genius loci”,  o meglio “Genius Lusitanus” che mi guizza per un attimo dentro e viaggia via lontano. A volte ancora, rimango con la consapevolezza che i viaggi sono stati  compatti, non riesco a frazionarli.  Penso di non aver viaggiato per quel paese ma di essere stato in quel paese. Non riesco a rendere discreti gli spostamenti,  le pause, i giochi dei nostri bimbi, la pochezza dei monumenti visitati, e le cose da vedere, viste. Siamo stati in pochi posti: Lisboa, Coimbra, Porto, Viana do Castelo, Guimaraes, Braga, Madeira, Beja, Evora, in alcune delle Açores, a Vila Nova de Cerveira, Setubal, Marvao, Crato, Tomar, Bragança. Dato che si “sta” in  quel luogo dove ci si ferma per dormire, dove si passa la notte e in cui ci si risveglia e ogni giorno si rinasce. Ogni giorno ci si appropria di quel luogo, o meglio ogni giorno il luogo stesso ti assorbe appropriandosi a poco a poco di te. Abbiamo visto alcuni luoghi senza la necessaria lentezza che meritano. Siamo stati molto tempo a Lisboa. Frequentavamo gli stessi posti:  Alfama, il Castello di S. Giorgio, il Bairro Alto,  San Pedro de  Alcantara. Tornavamo nei luoghi e stavamo in quei luoghi, la praça de S. Miguel in Alfama é un esempio chiaro: stavamo seduti e basta. Seduti e basta se bastano i rumori, i suoni e le voci di quella piazza, se bastano gli odori e gli umori di quella piazza, se bastano i colori e le luci di quella piazza. Sensazioni sempre diverse nei diversi spazi della lunga giornata occidentale. Sensazioni che si amalgamano diversamente tra loro e ti rapiscono ogni vota con nuovi sentimenti.

“Quella sera, dopo cena,  scendendo per Alfama ci siamo fermati nella piazza di Sao Miguel, seduti su un gradino addossato al muro e alla gradinata che sale alla cappella di S. Lucia. C’era una festa, come tante in Alfama. In  questo periodo ci sono le feste per i Santi di giugno: striscioni e festoni di carta multicolori, musica e cucina all’aperto tutti assieme. Le sardine arrostivano sulle braci che sibilavano nelle mezze lune dei fusti di metallo tagliati a metà. Non volevamo sembrare inopportuni, come ci era capitato altre volte, stavamo seduti sul sedile in muratura. Dallo spigolo prospiciente la scalinata si sprigionava un deciso odore di piscio. Non dava molto fastidio, Valeria si sposta verso di me e anche Daniele. Io pensavo che anche questo era quanto volevamo e che avevamo cercato. Più verso la piazza, dei ragazzini, maschi e femmine, stavano mangiando dei ghiaccioli, confezionati dentro dei  semplici cilindri di plastica come dei piccoli calippi. Subito i nostri bimbi dicono che lo vogliono anche loro. Domando ai ragazzi dove li hanno comprati, mi rispondono che erano finiti ma, chiamano Daniele e Valeria e gli offrono il loro gelati. I nostri bimbi, prima si vergognano, poi cedono e vanno a mordere i calippi dei ragazzi. La scena mi sembra quella di quanto un uomo dà del cibo ad un animale selvatico affamato che vuole serbare la sua fieritudine e autonomia senza sottostare all’ammaestramento dell’uomo ma il bisogno gli fa superare quell’idea.”

Ogni volta che passa il 28, il locale di Martinho vibra tutto, il rumore del tram sovrasta quello del compressore e del motore del frigo che abbiamo sopra la testa. Dapprima si sente solo il rumore, incanalato dalle rotaie e dall’angustia della rua Escolas Gerais,  si acuisce, aumenta e quindi si vede il tram. L’elettrico attraversa piano lo specchio della porta e della finestra che dà sulla via. Sembra di essere noi in strada o che l’elettrico entri da noi.
I bambini sono contenti di essere di nuovo a Lisboa. Sono contenti perché possono ritornare ancora da Martinho. E’ da tanti giorni che vogliono ritornare a mangiare da Martinho. Il rapporto tra loro e Martinho é stato subito entusiastico. Già dalla prima sera si sono baciati, Daniele, il giorno dopo, é voluto andare a “dare un salutino a Martinho” Gli stanno simpatici sia Lucinda che esce sempre dalla cucina per dirgli qualcosa sia Osorio con quegli occhi sporgenti e un po’ spiritati.
Siamo tornati a Lisboa. Il viaggio da Porto, questa volta, non è stato comodissimo, i bimbi ci hanno dormito addosso per la maggior parte del tragitto. Sceso dal treno ho avuto la sensazione di tornare a casa, di rivedere finalmente delle cose familiari: la stazione di S. Apolonia così minuta e intima, i Bus Carris, Il Tejo;  ma quello che più mi ha ammaliato e colpito è quella luce così pulita, aerea, chiara in cui la città risalta. Luce godibile sino alle 23, sfrangiata, cristallina, secca e precisa.
Più tardi scenderemo ancora una volta in Alfama, la percorreremo tutta fino in basso al “largo chafariz de dentro” e quindi ancora su per le scale, da S. Miguel  fino a S. Lucia. Nel muro di quella chiesetta c’é incastonata una croce celtica di pietra. Una leggenda dice che chiunque, passando, tocca la croce di Santa Lucia e quindi si tocca gli occhi, li avrà guariti dalle malattie o dai difetti che li colpiscono. Più tardi toccherò la croce e i miei occhi. Forse anche domattina passerò in Alfama a Santa Lucia a toccare la croce celtica e miei occhi
Siamo tornati ancora da Martinho, dopo un anno e mezzo. Mi ha subito riconosciuto e mi ha subito chiesto di Valeria e di Daniele che sono arrivati subito dopo. Oggi é il 30 dicembre, il mio compleanno. Martinho ha improvvisato delle candeline  con i fiammiferi di legno che ha infilato su un suo dolcetto. Ci ha tirato fuori del Moscatel del suo Nord, del Tras-os-Montes. Si è improvvisata una festa inaspettata che …
La volta scorsa, era un luminoso ottobre, Martinho aveva la saracinesca chiusa, non l’abbiamo visto,  ho poi saputo  che ora lavora  in un ristorante in Rua do Jardin do Regedor dalle parti di Praça dos Restauradores, Osorio è rimasto su in Alfama.
L’ultima volta che siamo passati da Lisboa era un luglio scintillante, siamo andati a trovarlo. Avevamo solo due ore di tempo prima dell’aereo per Ponta Delgada. E’ sempre  molto contento di vederci.
Amo il Tejo perché sulla sua riva c’é una grande città
Assaporo il cielo perché lo vedo da un quarto piano della Baixa
Non c’é niente... che sia pari alla maestà irregolare della città tranquilla vista dalla Graça o dal belvedere di S. Pedro de Alcântara sotto la luna.
Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole.
      
Fernando Pessoa - Bernardo Soares  Livro do Desassosego

A) Sei fortunato ad andare a Lisboa fuori stagione, non ci saranno troppi turisti che, come esploratori, cercano il vero.

B) Ho poco tempo, tre, o forse quattro giorni, e degli impegni fissi. Sarò per forza un giorno a Belem. Comunque risiederò a Lisbona per tutto il tempo.

A) Per Belem puoi scegliere l’Electrico. Con il biglietto urbano, da Praça do Comercio  in venti minuti sei giù. Ti può capitare un mezzo modernissimo con aria condizionata e interfono con cui l’autista annuncia le fermate o un vecchio electrico di sessanta anni fa.

B) Belem non é il luogo da cui partivano i navigatori del 15° secolo?

A) Sì. Proprio dove ora sorge il Mosteiro dos Jeronimos, costruito da Dom Manuel I° con i soldi rapinati in India da Vasco da Gama, gli equipaggi passavano la notte in preghiera prima di imbarcarsi. Erano comunque uomini del 1400 che andavano incontro all’ignoto e forse fin dentro alla bocca dell’inferno o forse fino al paradiso terrestre.  Di sicuro avrebbero incontrato i demoni e i draghi che vivevano nella loro testa da secoli e secoli. Alla notte si inginocchiavano sull’erba, e più in là, sull’acqua si bagnavano su quel grande fiume che quasi si confonde con l’Atlantico e pregavano.
“Potesse bastare l’acqua di questa notte sui nostri corpi di impauriti viaggiatori soli, o Signore, potesse bastare questa nostra preghiera per farci ritornare a casa. Qui il  rumore delle onde non fa ancora paura, qui il mare é ancora domestico, qui ci sono ancora le nostre donne, i nostri figli che ci abbracciano, le nostre  colline e il vino di Colares. Ancora possiamo tornare alle nostre barche da pesca, alle nostre reti o vigne o botteghe, o forse no: Bartolomeu, Vasco, Afonso ci hanno già rapiti o forse anche loro sono stati presi dal destino che ci spinge tutti verso l’esaltazione dello spazio e del nulla, verso l’effimera gloria, potenza e ricchezza che ci ha stregati”
Sulle acque di Belem, sul Mosteiro dos Jeronimos e sugli altri monumenti, nuovi e vecchi, aleggia l’effimero della gloria, della potenza e della ricchezza che ha stregato e abbandonato il Portogallo. Quella gloria ha abbandonato presto anche Luis Vaz de Camoes che  ha cantato per sempre sulla carta  e nei cuori dei portoghesi il popolo portoghese. Luis non é sepolto nel Mosteiro assieme agli eroi. Dentro l’urna non ci sono le sue ossa. Luis é morto di peste, si é perso nella peste come un normale, esile, insignificante, povero  cittadino di Lisboa.  Nell’urna non ci sono nemmeno le ossa di Sebastiao, il re ragazzino, biondo e già europeo, forse un re troppo giovane, troppo malato e troppo stupido, che morì in battaglia in terra d’Africa, in quel Marocco che doveva diventare già Europa appena cinquant’anni dopo l’ inizio della fortuna del Portogallo. Tornerà forse Sebastiao, dalle brume del mare, e sarà allora  alla testa del nuovo impero. Ma da dove potrà tornare quel giovane idiota, che ancora alla fine del 1500 credeva di essere a capo di una crociata per conquistare la Terra Santa, da dove potranno tornare quelle migliaia di uomini, portoghesi in gran parte, ma anche casigliani, italiani e tedeschi che sono morti inutilmente e stupidamente in quella Africa che ancora amiamo. Come potrà risorgere un regno senza la sua testa: tutti i migliori uomini dello stato, chi sapeva usare la testa e l’intelligenza,  i nobili, i conti, i duchi, i marchesi di quel Portogallo sono morti in Africa. Perché il duca di Viseu non si è ribellato al suo stupido re. Come potrà tornare, la fortuna per questa terra? Come potrà tornare quella fortuna iniziata con Vasco da Gama e il suo viaggio?
Ma nemmeno Vasco é qui con noi, nella chiesa c’é la sua urna ma le sue ossa sono anche loro disperse in quell’oriente che aveva raggiunto per primo e, per primo sottomesso. La storia della fortuna e della sfortuna di questa terra sono in questa chiesa e in questi sepolcri e in quelle ossa disseminate per tutto il Portogallo dentro e fuori il Portogallo: Lisboa, L’Africa, L’Oriente. Lisboa, Africa ed Oriente che continuiamo ad amare ancora ora. Dom Manuel, il Re, il Notaio della vittoria e della fortuna, non si é mosso da Lisboa, magari sarà andato al fresco sulle colline di  Sintra. Re Manuel é qui, dentro questo  gioiello che il Portogallo ha costruito per il suo nome.
    Alla notte si inginocchiavano sull’erba a pregare, all’alba scendevano l’estuario del  Tejo fino all’Oceano e oltre...
Vai a vedere il mosteiro, specie la chiesa e il chiostro, il resto é occupato dalla marina militare con il museo e la biblioteca e dal museo archeologico.

B) Il Museu da Marinha, il museo navale più vasto del mondo! Sarà molto interessante!

A) Solo le prime sale, dove ci sono delle belle, antiche carte. Poi ci sono troppe divise e navi da guerra, e aerei da guerra. I portoghesi sono fissati con gli aerei. Li mettono nei parchi dei bambini, in riva al mare, in mezzo alle piazze. Nel museo c’é l’idrovolante che per primo, all’inizio dell’era del volo,  attraversò il solito mare oceano fino a raggiungere il più grande dei Portogalli fuori del Portogallo, fino a Rio de Janeiro. Ma più avanti, parcheggiato, infilato, caduto nella sabbia c’é un Fiat degli anni sessanta, una nera, argentea macchina da guerra che ora non incute più timore. Ora é nella sabbia,  ma ha volato tanto in altri Portogalli fuori del Portogallo: a Luanda, a Cuito Canavale, a Quelimane, a Lourenço Marques, a Bissau. Ha volato tanto e sparato e bombardato tanto in tanta parte dell’Africa che ancora amiamo.
Devi andare invece alla Torre di Belem, é un po' più in là, a piedi ci vorranno circa 15 minuti, attento ad andare prima delle cinque, in Portogallo i musei e i monumenti aprono presto e chiudono prestissimo. A me rimane solo l’esterno e una grande foto con mio figlio, con l’azzurro del Tejo e del cielo. La torre, se la guardi dall’alto, sembra una nave di calcare bianco, lì piantata nel Tejo stenta a partire per il mare. In quasi 500 anni non ha compiuto un viaggio, ha sempre visto partire e tornare le navi di legno: le galee, le naus, le caracche e le caravelle. Ha sempre visto partire tanti uomini di quelle terre e non li ha visti tornare. Ha visto passare le ricchezze più  impensabili per quel piccolo paese e per quel piccolo popolo. Ricchezze inutili per questo piccolo popolo e per questo piccolo paese. Tra il Mosteiro dos Jeronimos e la torre di Belem non puoi fare a meno di imbatterti nel Padrão dos Descobrimentos.  A me non piace. E’ troppo eroico, troppo bianco e liscio, troppo affilato e militare. Esagerato per questa piccola terra e per questo piccolo popolo, per celebrare una genia, una razza che non c’é. E’ rimasto lì da quando l’ha fatto costruire Salazar.  Di Salazar in questa città rimangono il ponte e il Padrao: ma se il ponte non mi inquieta affatto, anzi mi fa tenerezza nella sua presente funzione di acciaio pitturato di rosso, il Padrao lo vedo lì in quella spianata di lucidi marmi, folgorata dalla luce troppo bianca, irta di bandiere e divise, di canti  popolari sorvegliati dagli occhiali scuri della PIDE, di bambini con i calzoni corti  in divisa, e  proprio lì, sotto i profili di marmo dell’Infante, degli altri i padri dell’impero, sotto a quella immacolata spada o croce, a quella esagerata croce o spada, il palco delle autorità di governo con i profili taglienti e assurdi per questa tranquilla mattina di sole.

B)  Avrò comunque delle mezze giornate o delle giornate intere, libere, da dedicare alla città.

A) Lisboa é decadente, cadente, malinconica, a tratti misteriosa ma é una città che dà sicurezza, é una grande mamma, appena ci arrivi ti sembra di esserci sempre stato, ti sembra di essere a casa tua. Il modo migliore per vivere il centro é vagare a piedi, soli, senza meta,  a cogliere le essenze sensibili. Per questo esercizio ti consiglio Alfama, il vecchio quartiere arabo ed ebraico. Se puoi vacci diverse volte,  in ore diverse del giorno, preferisci i pomeriggi e le lunghe sere dove non si fa mai notte e, quando la luce radente e precisa estrae la storia da quei tetti rossi, dai muri color pastello, dalle buganvillee e dall’acqua del Tejo. Scegli la luce calda della sera che entra nelle case quando la  gente cuoce il pesce sulla soglia e prepara per la cena in compagnia, sulle piazze, minute davanti alle porte. Cammina piano, curioso agli odori, ai rumori ad ogni sfumatura di quella luce. Percorri piano ogni Rua, ogni Bico, sali tutte le Calçadas, appoggiati ai corrimano di ferro delle ripide scalinate, indugia sulle piazzette, siedi senza fare nulla, magari davanti a S. Estevao o in fianco a S. Miguel.
Non portare la macchina fotografica. Rischierai di falsare ogni incontro con i bambini e con la gente. Non sei uno sceriffo con la pistola.
“Ogni volta che punti la camera é come se puntassi un fucile. Ogni  volta che punti la camera é come se la vita si prosciugasse, ogni volta che punti la camera la città si ritrae, svanisce sempre più, come il gatto di Alice.”1
Guarda la città con i tuoi occhi e non attraverso l’occhio di un bue, vedrai la città com’é e non come vorresti che fosse. Osserva con calma le buganvillee del Miradouro di S. Lucia, non aver fretta di affacciarti, non scalzare i vecchi che chiacchierano, giocano a carte o stanno solo seduti. Esercitano la Saudade Oltre i tetti di Alfama: il Tejo, l’anima e il testimone della città.


       Madrugada
       Descobre-me o rio
       que atravesso tanto
       para nada;

       E este encanto,
       prende por um fio,
       é a testemunha do que eu sei dizer.

       E a cidade,
       chamam-lhe Lisboa
       mas é só o rio
       que é verdade,
       só o rio,
       é a casa de água,
       casa da cidade em que vim nascer.

       Tejo, meu doce Tejo, corres assim,
       corres há milénios sem te arrepender,
és a casa da água onda h poucos anos eu escolhi nascer
     
       O Tejo - Pedro Ayres Magalhães (Madredeus)


B) A piedi?

A) Si, anche perché Alfama è praticamente pedonale. Ma, anche per il resto della città non usare il taxi, i taxi li usano i frettolosi, apprezza l’ electrico: costa poco e ti porta ovunque, su e giù per le colline di Lisboa. Non potrai che amare la sua caparbia longevità, i suoi rumori: le rotaie, la campana, le brusche partenze, le sue leve di metallo lucente, i sedili di legno lucidato da decenni d’uso.
“Com’era umano il tintinnio metallico dei tram! Quale paesaggio allegro la semplice pioggia nella strada resuscitata dall’abisso. Oh Lisbona, mio focolare!”2
Attento al 28, la sua fama ha raggiunto tutte le guide stampate, ovunque. Certe volte é sopraffatto da soli turisti/sceriffi.
Il 28  attraversa la città dal Cimitero dos Prazeres a ovest, fino a Martim Moniz. La parte più interessante del viaggio inizia all’Estrela giù in ripida discesa e quindi sale fino al Bairro Alto lambendo Praça Luis de Camões e lo Chiado, ancora giù per vicoli, pertugi e rapide svolte fino a scendere alla Baixa a tagliare la Rua Augusta, quindi sale verso la Sé e Alfama, su ancora traballando sugli scambi per Escolas Gerais, dove attraversa la città in un binario unico a senso alternato, su ancora fino alla Graça per poi giungere in quartieri più anonimi. Alla Graça ti conviene scendere, o  forse alla fermata successiva, fermati al miradouro e guarda i bambini che si arrampicano sulle strutture metalliche piantate sulla sabbia. Proprio lì sotto, sulla cima di un’altra collina vedi il Castelo de São Jorge. Se lo raggiungi da lì, a piedi, in discesa e poi in salita, per l’entrata posteriore, potrai ritardare il bailamme degli autobus, delle guide dei viaggi organizzati, dei souvenirs ecc. ecc. Magari riuscirai a vedere i pellicani che, si dice, vivano nel castello, vedrai sicuramente i pavoni. Aspetta un po' nel parco giochi per i bambini, seduto vicino a quei massicci rotondi tavoli di granito.
Lì la polvere sollevata, l’odore di resina di pino, la luce  e le urla dei bambini sono un tutt’uno. A Lisboa i bambini portoghesi sono tanti, di tutti i colori: bianchi come noi, neri dell’Africa, gialli di Macao, o di Goa o di Timor o di ... .A Lisboa i bambini ti vengono a chiamare per giocare a pallone.  A Lisboa i bambini giocano in bande rumorose, corrono per le piazze e le scalinate con i calzoni corti e le ginocchia sporche, si arrampicano svelti sui muri.
“ Il giorno dopo ritorniamo in piazza de S. Miguel, non mi ricordo l’ora precisa, forse nel primo pomeriggio, fa molto caldo.  Alcuni bambini si divertono a scivolare con una tavola giù per la scalinata. I nostri bimbi muoiono dalla voglia di fare anche loro quel gioco. Daniele mi chiede di andare da loro e chiedergli se lo fanno salire. Lo invito ad andarci lui, da solo, ma musone com’é, perde tempo fino a che gli altri se ne vanno.  Allora prendono la tavola e tentano di trascinarla su per la scalinata. E’ pesante, li aiutiamo, fanno decine e decine di scivolate. Si divertono tanto. Hanno i calzoni corti e le gambe sporche. Una coppia di turisti, forse tedeschi, li vede e li fotografa più volte. Avranno creduto di carpire un momento di “vera vita dei bambini di Lisboa?”

Dall’altra parte del castello c’é  il Miradouro classico di São Jorge, con la vista sulla Baixa, sul Tejo fino al ponte 25 Abril  e fino a Belem dove si intravedono, sotto il ponte, i bianchi calcari del Padrão. Subito lì di fronte, oltre la Baixa abbarbicati al Bairro Alto altri bianchi calcari, bianche arcate gotiche interrotte: il Carmo, inquietante e incompiuto. Lo potrai raggiungere domani, non oggi, con un mezzo di trasporto che é un gioiello di travi di ferro grigio piantato proprio lì, in mezzo alla Baixa: l’Elevador de S. Giusta. Segui con lo sguardo la linea della collina del Bairro verso destra: scorgerai altre buganvillee e altra Saudade: il Miradouro de S. Pedro de Alcântara.

B)  Perché  domani, magari domani dovrò andare via o dovrò andare da un’altra parte, magari ci si può arrivare velocemente con un taxi.

A) Fai come vuoi. Ti consiglio di andarci a piedi, tanto l’Elevador é facilmente riconoscibile e lo trovi sicuramente, scegli una strada che non hai percorso, la discesa é facile, tieni sempre a sinistra il Tejo e la sua aria da Oceano, tieni sempre a destra il rutilante mondo del Rossio e di Praça da Figueira.

“All’ingresso basso dell’elevador un giovanotto, forse di Roma o del Lazio, mi domanda in italiano, “Cosa c’é la sopra?” Gli rispondo “Niente, una passerella di metallo che conduce al quartiere alto della città” Continua a chiedermi “macchè ce vole il biglietto?” “Si. Quello normale dell’autobus” Incalza “Macché c’é un bar o qualche cosa?” Non so perché, ma così all’improvviso, gli dico una bugia, gli rispondo di no. Allora lui si rivolge ai suoi due amici urlando “Ao ecché ce andamo a fa” e insieme se ne tornano indietro, via.”

B) Ma quali sono i posti che devo assolutamente vedere di Lisbona, quelle cose che non posso perdere?

A) Non ci sono i posti con  tre stelle, come quelle delle guide, non ci sono classifiche. Le guide turistiche sono tutte  delle porcherie. Se vuoi leggere una “guida” di Lisboa, anzi, se vai a Lisboa leggi  “Requiem” di Tabucchi. Non é una guida ma il racconto di una giornata trascorsa a Lisboa in attesa di incontrare un Famoso Poeta Morto, e intanto incontra persone e luoghi che possono essere ricercati e ritrovati: Hieronymus Bosch e il Museu de Arte Antiga, il Faro di Cascais, il treno per Cascais, il Cimitero dos Prazeres. alcuni luoghi sono percorsi con meticolosità da geografo. Per contro non andare alla Brasileira, ci vanno già troppe persone e c’é la fila a farsi fotografare sulla porta o seduti vicino alla statua di bronzo di Fernando Pessoa.

“Un pomeriggio di sabato ero già da un bel pezzo seduto davanti alle tentazioni di S. Antao di Bosch, calmo e attento, in una situazione consona all’ambiente austero del più grande museo di arte pittorica del Portogallo, con i guardiani del museo nella loro divisa grigia, in perfetto silenzio quando dal fondo del corridoio un vocio concitato si fa sempre più vicino e forte e fastidioso. Man mano che si avvicina riconosco il tono e la lingua di quel vociare in italiano. Fino a quando arriva una bella ragazza, giovane con il compagno che la segue trafelato e silenzioso. Lei ha dei calzoncini cortissimi e stretti sulle cosce, delle belle gambe e le scarpe da tennis Superga, non ho notato altro di lei. Avanza  verso il trittico di Bosch e grida “ ECCOLO  !!   E’ QUA !!””

Prendi invece il treno per Cascais o per Sintra o per tutti e due i posti. Per Cascais si parte dalla Estação de Cais do Sodré, c’é un treno ogni venti minuti circa, per Sintra si parte dalla Estação do Rossio con un treno ogni mezz’ora circa. Cascais é sull’Oceano, ci sono spiagge e pinete, scogliere  e ville  d’altri tempi dei ricchi d’Europa. Sintra é un idillio in mezzo a colline granitiche. Dal Castelo dos Mouros sulla  cima della montagna puoi vedere il Paço Real giù in paese e il Palacio da Peña e forse, comunque sicuramente “sentire” il Cabo da Roca, che ha il fascino del punto più occidentale d’Europa,  il Finis Terrae.
“Lì  non c’é più terra, non c’é più Europa: solo un potente faro, pochi mulini a vento. Un immane crocefisso taglia il vento atlantico, freddo e perenne: il crocefisso fischia e vibra suonando melodie assurde che al tramonto inquietano un po’ ... Lì un tempo finiva il mondo conosciuto e da lì, ancora oggi, ogni piccolo viaggiatore non può che tornare indietro. A raccontare.3

       E c’é sempre vento in strada ad aspettare
       Noi che siamo qui a vedere e camminare
       E nel nostro viaggiare
       E volare ricordare e toccare e camminare
       in questa smania
       Dimentichiamo posizioni, rotte e nomi
       E siamo piccoli, stupiti viaggiatori soli
       E tutto questo vento intorno invece...
       E’ Lusitania
       E siamo piccoli, mediocri viaggiatori soli
       E tutto questo vento intorno invece...
       E’ Lusitania

       Ivano Fossati, Lusitania
“A Sintra quella domenica mattina pioveva, appena scesi dal treno una fitta pioggia ci ha fermato nei pressi della stazione. Intorno le montagnette circondano il centro del paese, ancora lontano, sono ricoperte da una vegetazione rigogliosa, le nuvole basse mantengono il fresco della mattina e trattengono il riflesso del bagnato sul granito.  Più tardi  arriviamo a piedi in paese. Il Paço é chiuso. Camminiamo fino ai giardini, ci arrampichiamo su per i massi enormi di granito, a volte per un sentiero scivoloso, a volte su pareti di bella roccia. Si vedono anche dei chiodi a pressione  piantati di alcune palestre di arrampicata. Alcuni signori ci avvertono che per i bambini quel percorso é pericoloso, ma noi eravamo alpinisti e crediamo di sapere quello che facciamo. Infine arriviamo fino alla cima dove sorge il castello dei mori. Da lì si ha una vista su tutta la Estremadura. Con il tempo buono si vede anche il Cabo da Roca  ma oggi possiamo solo immaginarlo e cosi l’oceano. Il Castello é formato solo da una cinta muraria che circuisce il cocuzzolo della montagna e da torrioni  e da pertugi e passerelle. Da lì i mori controllavano la regione. Ma a maggior ragione facevano la guardia per evitare le scorrerie dei barbari del nord, dei Visigoti che presero e  tennero quel castello e quei luoghi. Da qui ancora prima della reconquista i barbari partivano per le loro piraterie terroristiche sulla capitale del regno. Anche da qui partirono i mercenari di tutta l’Europa barbara e cristiana per l’assedio di Lisboa del 1147 che privò il Portogallo di una cultura illuminata e illuminante e ancora non ripetuta nella nostra Europa.
Su un cocuzzolo fratello di questo si scorge il Palazzo da Pena, il castello costruito nel 1800 da tedeschi per il marito tedesco  della  regina  del  Portogallo. Non abbiamo tempo per il palazzo da Pena e il Paço giù in paese. Scegliamo di scendere al Paço che promette molto di più per la sua maggiore età e per la sua nascita islamica, che molti re del Portogallo, pur avendoci vissuto a lungo magari con le mogli inglesi, hanno rispettata e lasciata quasi intatta. I suoi camini conici poi, continuano ad esercitare un’attrazione metafisica per la loro forma e per la loro grandezza. Penso che quei camini debbano far scoprire al visitatore la loro funzione, non percepibile dall’esterno. Vera funzione  arcana, superiore a quella per cui appaiono come dei meccanici raccoglitori e convogliatori di fumo delle cucine di palazzo. Li penso come dei cannocchiali astrali, degli osservatori, delle rampe di non so cosa, delle antenne o degli imbuti. Magari hanno la doppia funzione di far ascendere verso il cielo e di far discendere fin dentro la terra non so quali entità o essenza o idee o ...
Scendendo per il sentiero il suonatore di flauto ci riconosce italiani e suona dei nostri motivi del passato. La musica degli anni 60, 70 proposta con quel flauto dritto, di legno, sembra filtrata da una strana macchina magica. Mi sembra, ora,  una musica rinascimentale. Forse la macchina magica é quello strano signore e il suo vecchio flauto o quel bosco così ombroso che circonda il suonatore e il grande masso su cui sta seduto. Ma forse basta solo l’assenza del contesto dove ci aspettiamo che succeda una cosa, che  anche una musica popolare conosciuta da tanti anni venga trasfigurata e trasportata a caso in luoghi e tempi diversi.
Nonostante la corsa con i bimbi sulle spalle, arriviamo tardi giù in paese, non possiamo vedere il palazzo reale. Allora significa che il fato vuole che andiamo al Cabo da Roca. vado al turismo: oggi é domenica e  le corriere per il Cabo ci sono solo al mattino. Ci andremo un’altra volta magari passando da Cascais.
Il ritorno a Lisboa è  calmo e caldo, senza un sussulto, dormo quasi tutto il tempo, il paesaggio intanto passa indenne alla mia curiosità, e passano anche le fermate: Queluz, Amadora, Benfica. Mi accorgo di passare sotto alle arcate dell’acquedotto di Aguas Livres, penso al film di Wim Wenders, Lisbon Story, girato per una buona parte sopra e attorno all’acquedotto, con tanti treni che sono passati dentro quei fotogrammi. Anche questo treno passa dentro ad un racconto o addirittura dentro un film. Cerco di riconoscermi nel treno del film ma è troppo veloce. Penso  ai molteplici,  personali modi di amare questa città. Penso  all’Europa al di fuori di questa città e al di fuori delle nostre città. Entriamo nella lunga galleria sotto le case del centro, presto il convoglio si fermerà nella stazione del Rossio.
Il treno per Cascais partirà tra 10 minuti. Siamo in attesa sul marciapiede, una signora, anziana, vestita di nero con una borsa di plastica della spesa in mano, mi chiede un’informazione sui treni che non capisco. Gli rispondo “nao falo portugues” lei si allontana, sorridendo e quasi mi grida “fala ! fala!”.   La nostra carrozza, non è divisa in scompartimenti, non si è riempita. Il treno si muove verso ovest, passa sotto il ponte sul Tejo e passa sopra l’Alcantara. Dai finestrini di destra, dall’altra parte della carrozza, ora  lampeggiano a tratti i bianchi calcari del Mosteiro dos Jeronimos. Prima sono passati veloci i diversi verdi del giardino coloniale di Belem. Al centro del giardino i padiglioni vetrati di metallo  verniciato di bianco sostengono ancora il tempo e la calda umidità e i pavoni che da sopra occhieggiano  verso i visitatori che, in verità pochi, passano per i vialetti di ghiaino. I visitatori passano tra le jacarande del Brasile e gli intrichi della jungla indiana, tra i giganti ficus e i grandi e delicati giganti equatoriali africani. Il Visitatore passa sotto gli archi della porta di Macau sotto le grotte umide piene di rampicanti all’interno di Goa. Lì al centro del giardino coloniale i padiglioni bianchi mi richiamano ad un tempo più antico e più lento quando le distanze erano più serie di ora e ritrovare in un unico ambiente coperto o fuori di esso delle essenze così diverse era un fatto veramente straordinario. Oggi con soli dieci escudos si possono raggiungere quelle essenze in  tutto il mondo, ma il giardino oggi é deserto e ieri era anche deserto.   Ritorno al nostro treno che corre verso ovest, noi siamo seduti a sinistra con il Tejo sotto gli occhi che penso a poco a poco diventare per magia oceano Atlantico.
Nel treno ci sono studenti che scherzano, qualcuno studia. In Italia in questo periodo ci sono gli esami di fine liceo. Al mio fianco una ragazza ripassa i suoi appunti di letteratura portoghese. Sta leggendo una pagina intitolata “Fernando Pessoa 1888-1935”
E’ tutto molto tranquillo. Il paesaggio ora é segnato da basse dune sabbiose  e dalla rada vegetazione che serpeggia sulla cresta di quelle dune, più in la,  il mare, non più fiume e non ancora oceano. Una ragazza raccoglie una matita  dal pavimento e me la dà. Gli dico che non é nostra. Lei ce la da lo stesso. L’abbiamo portata dietro ed utilizzata per un po’, poi l’abbiamo persa in un treno. E’ tornata da dove era venuta.
Ogni volta che torno a Cascais mi vengono in mente re esiliati e ricchi borghesi europei che hanno costruito ville anonime sul vento dell’oceano. In questo primo pomeriggio invece siamo sulla piazza antistante al municipio, su una panchina verniciata di verde, una panchina di legno addossata al muro della città. Oltre c’è la strada e la spiaggia. Daniele si è addormentato: è steso sulla panchina coperto con la mia giacca dalla quale escono fuori le gambe nude e i sandali blu con gli occhi. Sull’altra panchina ci sono dei vecchi portoghesi che esercitano la saudade. Ci salutiamo, ci sorridono, forse per via dei bimbi piccoli e di Daniele che dorme placido, Siamo tranquilli,  rimaniamo lì molto tempo, noi e loro. Presto si instaura una silente intesa sul nostro modo di passare quel pomeriggio. Ci rendono partecipi e forse anche complici di un loro gioco. Lì vicino c’è un parcheggio riservato alle auto dell’amministrazione comunale, regolarmente segnalato. Arrivano due signori che parcheggiano ma avvertiti del fatto se ne vanno. In seguito arriva una ragazza francese su una Renault 4. Forse non comprende il portoghese, o non dà troppo peso alle parole degli anziani signori, loro non insistono troppo. La ragazza chiude la sua macchina e se ne va.  Poco dopo un furgoncino della polizia si ferma, solleva la Renault 4  e se la porta via. I nostri amici sorridono e ci sorridono divertiti. Sicuramente non è la prima volta che assistono a quell’intervento.
Le corriere che da Cascais vanno a Sintra passano per il Cabo da Roca. la fermata è vicino alla stazione dei treni, proprio dietro a quella costruzione con la torretta rotonda e i tetti aguzzi che sembra il castello delle favole, a ridosso della spiaggia. Ci mettiamo in attesa, stranamente ritarda, ci sono molti turisti:  altri italiani e molti orientali.  I portoghesi non vanno al Cabo, ci sono già stati o sono stufi. Penso che il Cabo é un posto da turisti e che la mania di andare in questi luoghi é un poco da bambini: sono arrivato fino dove era possibile, sono andato più in là di tutti. La corriera arriva, saliamo. Subito dopo la partenza, siamo ancora a Cascais, sono testimone incolpevole di un evento drammatico che mi renderà, per tutto il viaggio fino al Cabo, estraneo e isolato da quella terra. Quell’evento avrà poi degli strascichi negativi in futuri incontri portoghesi. Sono seduto sul lato di sinistra, quello che da sull’oceano. Usciti da Cascais la strada sale alta sul mare con ampie curve, a tratti perde quota. I pini  bordano il percorso, non fanno raggiungere il mare con lo sguardo che in alcuni brevi tratti. La spiaggia di Guincho ora è lì in fondo. Chiusa tra due bassi promontori di granito, la sabbia è tormentata dal vento e dall’acqua in perenne tensione.  La strada prende decisamente verso nord, la luce ora cambia, aumenta, lo spazio si dilata, si apre, da una parte, verso le basse colline dell’interno, dall’altra verso una lingua di terra che si protende a occidente dentro il mare.  Il granito domina il paesaggio, punteggia il terreno verde con la sua presenza, indica il passaggio alla corriera.  Ora la strada è limitata da alti muri a secco costruiti da blocchi di granito, passa in un borgo e raggiunge il Cabo.
In questa giornata invernale mi aspettavo il vento freddo e perenne, già cantato e descritto,  ma il vento oggi non c’é e la temperatura é mite. Non é per questo che l’aura del luogo si dissolve, se ne va verso il faro irraggiungibile alla gente che invece gremisce lo spazio attorno al crocefisso.  Alcuni arrivano con il taxi fino all’orlo, fino al parapetto di pietra, i più si accalcano con le loro piccole fotocamere che irrimediabilmente non conterranno che piccoli uomini e piccole cose e piccoli luoghi. Come può una scatola di plastica contenere l’Oceano, o il cielo o  Portogallo? Torno verso est,
uma gaivota  voa no ceu azul
        Chia, branca,
        no mar azul
até ao fim do mundo.  

Penso a cosa mi rimarrà di quel Cabo da Roca: un uccellino che iniziando il suo volo si specchia in una pozzanghera, i miei bambini che giocano con i sassi sull’orlo, la moglie che in piedi sopra un’estrema roccia guarda oltre,  forse la lunga linea bianca delle onde che si infrangono sulla costa a nord,  forse l’oceano al di là, forse quella frase di Luis de Camoes scolpita sulla croce: “Aqui. Onde a terra se acaba e o mar comeca”
Alle due passa la corriera per Sintra, è tempo di andare. Lascio quel luogo con tristezza, tra alti muri a secco di massi di granito che chiudono la strada, il serio granito indica la via fino a Colares. Qui il sasso si fa sabbia, profonda e sana, qui ancora vive, protetta nella sabbia,  la vite europea non assassinata dai parassiti del nuovo mondo. Il rosso di Colares é ancora quello di un tempo, é ancora quello che avevamo prima dell’inizio dei viaggi e prima che la peronospora venuta dall’America uccidesse tutte le viti dell’Europa.

B) Ma per gite del genere ci vuole tutta una giornata.

A) Sì. Se vuoi qualcosa ancora in centro, la cosa migliore é andare a piedi e come già ti dicevo, curiosare, annusare, ascoltare... Va a Praça do Carmo, c’é il capolinea del 25, aspetta in fila sul marciapiede che arrivi l’Electrico, fai tutto il viaggio per ritornare al Carmo dopo aver percorso la zona del Rato, di Prazeres, dell’Estrela, di Lapa....

“Sono solo in giro per Lisboa, Valeria é in albergo con la febbre e Paola é con lei, Daniele si riposa e legge i giornaletti. Dopo essere salito con l’elevador de S. Giusta a Praca do Carmo decido di prendere il 25 fino al capolinea e tornare indietro: mi interessa il percorso attraverso il Bairro Alto, il quartiere di Rato per poi attraversare zone più nuove, ritornare all’Estrela e quindi per Lapa, giù fino al Tejo scendendo dalle parti di Rua da Janellas verdes e il Museu  per poi  ritornare a praça do Carmo per non so dove. Non ho la macchina fotografica, non ho nemmeno la borsa di tela blu dove tengo la macchina fotografica quando non porto la macchina fotografica. Sono libero di guardare e basta, di guardare e non impicciarmi e infastidire col gesto brusco del rapire l’anima delle persone e di luoghi. Mi metto in fila alla fermata, lungo il marciapiede. Prima di me, un signore molto curato nel vestire e nella persona, legge, in piedi, un quotidiano. Quindi un signore un po' grasso regge una borsa di pelle, forse un impiegato di qualche ufficio del centro che torna a casa. (Bernardo Soares sarebbe andato a piedi e poi abitava giù nella Baixa). Dopo di me si aggiunge una signora che tiene due borse di plastica della spesa. L’elettrico non arriva, arrivano invece due francesi che chiedono delle indicazioni e si mettono in attesa anche loro. Non si mettono in fila sul marciapiede. Lei non è più giovanissima ma molto attraente e sostenuta nel vestire. Parlano tra loro in francese e chiedono ancora informazioni all’uomo che legge il giornale che risponde con un fluente inglese che l’elettrico é in ritardo e che il ritardo é inspiegabile e non usuale. I due francesi se ne vanno a piedi. Intanto l’elettrico non arriva. Se ne va anche l’impiegato con la borsa di pelle. Forse abita qui vicino. L’ elettrico continua a non arrivare, sono le 19.30, e sono 40 minuti che sono lì in piedi sul marciapiede, in fila ad aspettare il 25. Vado via anche io. Al capolinea del 25 in Praca do Carmo rimane solo il signore distinto, con il pizzetto da cavaliere di Castiglia, che legge il giornale in piedi e che conosce bene l’inglese.
Salgo per strade traverse fino al ristorante di Emilia, il Solar dos Gallegos, quindi scendo la scalinata fino a percorrere strade che intersecando la gradinata raggiungono il palazzo delle ferrovie portoghesi e scendendo ancora la stazione del Rossio.”

Oppure, puoi esercitare la saudade al Miradouro de S. Pedro de Alcantara. Da lì puoi vedere tutta la città, da lì si ha la migliore vista, vacci anche di sera, ritroverai: la Graça, Il Castelo de S. Jorge, la Sé e il Tejo e sotto, la Baixa con in primo piano la Estação do Rossio con le piazze “mondane” : Rossio, Figueira e Restauradores. La Saudade al Miradouro de S. Pedro de Alcantara é aiutata da tavolini di metallo piantati per terra, lì i vecchi giocano a carte, parlano o guardano le nuvole.
“Nuvole... Corrono dall’imboccatura del fiume verso il Castello, da occidente a oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se ne vanno stracciate all’avanguardia di chi sa che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, scurano più col movimento che con l’ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati. Nuvole... Esisto senza che io lo sappia  e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo tra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere. Nuvole ... Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole... Continuano a passare . Nuvole...”4
I vecchi guardano le nuvole  o il Tejo o pensano all’Oceano. Tutti i portoghesi hanno l’Oceano in testa e nel cuore. C’é più Portogallo nell’ Oceano che in Europa.

Ó mar salgado, quanto do teu sal
São lágrimas de Portugal!
Por te cruzarmos, quantas mães choraram,
Quantos filhos em vão rezaram!

Fernando Pessoa, Mensagem
      
Il Miradouro a cui sono più affezionato e quello  di S. Pedro de Alcantara.  E’ quello, tra i canonici delle guide, ad essere meno frequentato dagli autobus dei turisti. Credo per questo che sia più portoghese degli altri. Complice la fontana che zampilla malamente al centro.
Con l’Elevador da Gloria si scende a Praça dos Restauradores. Proprio dietro la piazza, in Rua  porta de S. Antão é la Sociedade de Geografia. Se prosegui verso il Rossio, la strada é pedonale, troverai dalle due parti della strada un muro ininterrotto di ristoranti con ementa  esposta, stampata  in tutte le lingue, con i galoppini che chiamano, con gli acquari con le aragoste da scegliere in bella vista, con gli americani e i tedeschi che siedono a bere l’aperitivo. Non ti fermare a mangiare. E’ tutto troppo facile, troppo scontato, troppo sfacciato. Quei ristoranti, il loro bottegare, mi ricordano una vecchia canzone di Guccini, “Venezia” e la città in vendita, come una puttana, a chi si presenta con la valuta. Prosegui, di ristoranti in centro ne trovi a decine, uno ogni trenta passi. Non avere paura di entrare, normalmente sono angusti e con la minuscola cucina, in mezzo al locale, confinata entro una struttura di legno e vetro, dalla quale escono i cibi e gli odori e i rumori e le fiamme dei fornelli.
O ancora se vuoi vivere Lisboa come la vivevano i suoi naviganti che la lasciavano o che vi tornavano e che hanno fatto questa città grande e ricca, se vuoi seguire Bartolomeu Diaz, Vasco da Gama, Cabral... che hanno fatto Lisboa una città bianca tutta di marmo come la descrive Baudelaire, e vuoi vedere Lisboa dall’acqua del Tejo prendi il traghetto che da Praça do Comercio  attraversa l’estuario fino a Cacilas. Dalla “nave” dietro, vedrai la Praça e la città, bianca, estendersi lentamente verso l’alto dei suoi colli scoprendo le torri della Sé, le merlature del castello, la cupola dell’Egratia,  São Vincente de Fora, vedrai la città, bianca, estendersi verso ovest, verso l’Oceano passando per il Carmo e la cupola della Estrela fino alla lontana, bianca Belem, fino al marmo della torre, del Padrão e del Mosteiro. Ma forse mi sono fatto prendere troppo da Baudelaire. Lisboa non é solamente di marmo e non solamente bianca, anzi possiede un raro cromatismo che le deriva dalla sua luce singolare. Ciò che più ti colpisce all’arrivo in quella città é la sua luce, e i colori che quella luce riesce ad estrarre dalla città.
Il colore dominante é l’azzurro: quello tremulo del Tejo, e quello luminoso dell’aria e quello degli Azulejos   che puoi incontrare ovunque. Lisboa é rossa dei suoi tetti irregolari che, appoggiati si incastrano gli uni sugli altri in Alfama, é rossa del suo ponte di ferro gettato sopra il Tejo. Lisboa é dei tenui colori pastello delle sue case popolari. Nei giorni d’estate, soleggiata e ventilata, Lisboa sfavilla.
Se vuoi puoi crearti un percorso attraverso le isole di marmo della città, attraverso i suoi sogni di pietra,  le sue chiese. Dalla nave, ritorna con lo sguardo a est, fissa la grande cupola della chiesa dell’Egratia che sorge così repentina e verticale dalla sua base e dalla collina. Non é ancora finita, dal 1600 che é in costruzione.  Lì vicino troverai i due campanili della grande chiesa di Sao Vicente ma più ancora ti colpirà l’ingente presenza della parete bianca, verso il fiume, del monastero di Sao Vicente. Troppo bianco, spigoloso e massiccio. Subito sotto alla grande parete del monastero quasi nascosta, a torto, la Sé: con le due torri merlate, quasi da castello, ma slanciate nei loro spigoli e nei loro archi e nelle loro nicchie che le rendono meno bianche e più accettabili alla vista e rendono la cattedrale un luogo caldo e raccolto dove il pensiero può indugiare silente e rifugiarsi dopo aver sostato con lieve disagio negli edifici precedenti. Tuffa il tuo sguardo al centro di quel triangolo di chiese, ti sarà difficile riconoscere il bianco della calce di  S. Miguel e S. Estevao che  amalgamate in Alfama non sono presenti come entità singole. Poi il loro bianco non é quello cerimoniale e tronfio del calcare o del marmo, é quello modesto, popolare, domestico della calce che viene rinnovato di tempo in tempo, ingentilito dai tetti di terracotta dalle varie sfumature rosse. Il loro non é un bianco eterno e incorruttibile delle grandi idee ma un bianco precario e per questo più aperto alla mutevolezza del pensiero dell’uomo che lo guarda o che lo vive di giorno in giorno. Queste chiese, a differenza delle altre,  cambiano al mutare di te stesso,  ti sono più vicine. Verso ovest, oltre la Baixa e oltre il Bairro Alto e il Carmo, sulla collina dell’Estrela la Basilca...

“Piove molto sul chiostro di Sao Vicente Il rumore dell’acqua è acuito dagli scrosci degli scarichi delle grondaie che percuotono il liscio pavimento di marmo. L’acqua defluisce dallo scarico centrale nella cisterna ricavata sotto il pavimento. Le colonne  squadrate, spigolose, solamente grigie non riescono a nascondere gli azulejos che coprono le pareti perimetrali del chiostro. I miei pensieri sono contrastati. Provo repulsione per quelle colonne troppo ordinarie nella loro forma, troppo povere per il loro materiale, avvolte da un clima umido dai vapori freddi e untuosi. I loro calcare poroso saturo d’acqua rende  ancora più fastidioso il senso di umido e di freddo che provoca il contatto dei miei vestiti ormai bagnati. Avverto interesse per quelle calme  scene azzurre che mi richiamano nel loro ambulacro asciutto e non irrimediabilmente corrotto dalla pioggia. Dalle pareti mi chiamano gentiluomini con ampi cappelli piumati, marinai dai pennoni delle loro navi, contadini intenti ai loro   lavori dei campi,  carrozze  che transitano in perfette strade immerse nel bosco.  Sono immagini tenui, delicate, gentili  e certe nella loro storicità e nella loro statica. Sono immagini  su cui ci si può soffermare.
Oltre la grata di ferro battuto, alta che chiude il corridoio fino al soffitto, un grande spazio con sarcofagi di marmo allineati ai lati. Quelle scatole di marmo lucido racchiudono i re e le regine che hanno regnato il Portogallo dal 1600 fino alla repubblica. In questa stanza silenziosa e opaca ci sono i regnanti della casa di Bragança. Joao IV che dopo la guerra con la Spagna nel 1640, acclamato dai portoghesi,  si ritrovò re senza volerlo. L’Infante Francisco che dalla finestra del palazzo reale si esercitava sparando ai marinai arrampicati sulle vele delle navi che manovravano nel Tejo, era pur sempre meglio essere feriti o ammazzati a Lisboa che non in mezzo al mare o in terre lontane dai pirati francesi. La regina austriaca, moglie di Joao V,  che non sopportava il clima di Lisboa e proteggeva le sue notti con un grande piumino d’oca che purtroppo la faceva sudare e puzzare come un animale selvaggio.  Pedro II che per rubare la bellissima moglie francese al suo fratello il re Alfonso VI, lo fece dichiarare pazzo e lo destituì  rubandogli anche il regno. Alfonso visse per otto anni fino alla morte rinchiuso in una piccola stanza del Palazzo reale di Sintra. Qui ci sono i Braganza che hanno permesso l’inquisizione, che hanno permesso agli inglesi, con il trattato dell’esportazione del Vino di Porto,  di impadronirsi di tutta l’economia del Portogallo, che con la firma del trattato di Badajoz hanno ceduto Olivença alla Castiglia e , all’arrivo dei primi soldati francesi, sono fuggiti in Brasile e non sono tornati nemmeno da morti.
Ai portoghesi non é mai piaciuta la dinastia dei Braganza così poco convinta del proprio compito, inadeguata anche per l’etica di quei tempi, inetta nelle decisioni e sprecona di quei tesori che il popolo aveva guadagnato  a quel piccolo paese con sani sforzi ed eroismi. Ai portoghesi non sono  mai piaciuti quella chiesa e quel convento che i Braganza avevano scelto per pantheon. Sono troppo grandi e fredde quelle costruzioni.  Gli ombrelli appoggiati a decine aperti in fila ad asciugarsi lungo il grande corridoio del convento gli danno un lieve tocco di ironia e rendono, forse, questo posto più vicino. Di sicuro Filippo II re di Spagna e , imperatore, re del Portogallo con il nome di Filippo I, non avrebbe permesso l’ironia degli ombrelli bagnati. Filippo fece costruire S. Vicente per farsi perdonare dai portoghesi  l’occupazione del trono del loro paese. La dinastia degli Aviz terminò con la morte senza eredi di Sebastiao in Africa. La lotta per la  successione fu vinta da un nipote straniero di Dom Manuel.  Quelle costruzioni sono invece diventate il ricordo della perdita della libertà del Portogallo dal 1580 al 1640” 
 
“E’ notte, la Se ora é chiusa, davanti, la piazza triangolare é guarnita da radi alberelli che lasciano esigue isole quadrate di terra sul mosaico bianco e nero del pavimento. La piazza della Se è limitata in basso dalla curva della strada che sale. Il sole di giorno, e le luci di notte fanno sfavillare le quattro rotaie dell’electrico affondate li in mezzo all’asfalto. La notte é la situazione più degna per abitare questo luogo solo: la luce artificiale illumina la facciata e le due torri della cattedrale,  proietta  le discrete e coriacee ombre degli alberelli sulla  bianca scalinata che separa la piazza dalla chiesa, le poche automobili lasciano il tempo al passaggio del ventotto, ai suoi rumori, ai suoi lampi di luce sulle rotaie e sui fili.  Ogni lampo, come un fotogramma, ferma la tua mente su una immagine diversa, concentra il tuo interesse su un particolare, ogni lampo frena la tua percezione delle immagini e ti fa riaffiorare di volta in volta una musica, un odore, un viso, un ricordo.”

“ Piove ancora all’Estrela. Fuori la basilica é quella che si vede, grigia e con il calcare cariato dal tempo e dall’acqua, dentro il suo barocco é stranamente troppo fluido e troppo bianco. Il guardiano ci apre la porta e accende la luce ad un ambiente del transetto di destra. Ma non voglio vedere il presepio di Machado de Castro. Sono intrigato in un doloroso conflitto di scelta tra condizionali ormai passati  e condizionali futuri, tra i tempi dei congiuntivi passati e futuri che in portoghese si dilatano fino all’estremo,  consapevole della perfetta impossibilità ad accettare le scelte passate e quelle future.  Dall’altra parte i giardini dell’Estrela, i suoi prati bagnati, le pozzanghere e la pioggia insistente sul viso rendono una reale, presente  giustizia a questo luogo, sanzionano i tempi del condizionale, i congiuntivi indicandomi la realtà delle cose.”

B)  E la sera? Ci sono locali per la sera? E il Fado?

I locali per la sera non so indicarli. Il Fado è come la Saudade, in tanti ne parliamo ma io non so cosa sia. Fado significa: fortuna, destino, sorte, prostituzione, malavita. Il fadista é il cantante, il suonatore, colui che tiene il bordello, il protettore delle puttane, il malavitoso. La fadista é la cantante ma anche una puttana. Il Fado é una cosa da Portoghesi e credo che noi si sia ancora poco portoghesi. Col tempo ho avuto più dimestichezza coi nomi: so che la chitarra portoghese ha dodici corde è che quella di Lisboa è diversa da quella di Coimbra: per la grandezza, per il legno di cui è costruita, per la tonalità, per la parte terminale a forma di “caracol” o a forma di “lagrima”. E così  il fado di Coimbra è diverso da quello di Lisboa.. Ho molti dischi di Amalia ma anche di altre fadiste moderne. Mi piacciono di più le voci femminili che non le maschili. Da Dulce Pontes che ora è abbastanza conosciuta anche in Italia, a interpreti più ortodosse come: Misia, Katia Guerreiro, Cristina Branco, Maria Ana Bobone, Mafalda Arnauth, Mariza... Particolare, Misia che invece di utilizzare i testi classici del fado con i temi della lontananza e del viaggio utilizza testi di letteratura portoghese molto recente come l’immancabile Fernando Pessoa, Augustina Bessa Luis, Carlos Drummond de Andrade. Molto interessante, anche se non proprio interprete del fado classico, Bevinda che emigrata in Francia, ha fatto anche la guida turistica in Himalaia, ora  canta una musica franco portoghese comunque molto suggestiva. Recentemente ho rintracciato un chitarrista di fado anche a Recanati. Marco Poeta che suona molto bene la chitarra portoghese, ha avuto come maestro Antonio Tajnho e  ha tenuto concerti anche a Lisboa. Ora suona assieme a Eugenio Finardi, Francesco di Giacomo del vecchio gruppo Banco del Mutuo Soccorso, e una ragazza di Fano che canta con il vestito nero e la mantella da fado. Fanno il repertorio classico di Amalia Rodrigues oltre a pezzi di Antonio Tajnho e Carlos Paredes. Non ho mai sentito il fado in Portogallo.

B) Anche la Saudade é una cosa solo da portoghesi?

A) Credo di sì, credo che noi si sia esagerato con la Saudade, in po’ come con “il mal d’Africa”. La parola Saudade é intraducibile. Tecnicamente significa: nostalgia, rimpianto. Forse più propriamente é una categoria dell’animo in cui ci si gratifica del sentimento di tristezza e di malinconia che sommerge la vita e tutte le cose: “O gosto de ser triste”.  Io so solo che i vecchi che seduti guardano il Tejo e che hanno in testa e nel cuore l’Oceano, esercitano a buon diritto la saudade, ma sono vecchi e portoghesi. Noi, invece, si é irrimediabilmente troppo mediterranei o troppo europei.


INCONTRO DI UNA SERA D’INVERNO

Perché mi segui, italiano, in questa notte piovosa di dicembre fino qui in rua de Santa Marta? Sei forse interessato ai miei sogni o alle mie pene, o sei curioso della mia fine ma non varcherò, ancora, la porta di questo grande ospedale. Perché continui a percorrere la mia strada e miei magoni. Giù nella Baixa non c’é più nessuna insegna di tabaccheria né nessuna tabaccheria che mi possa ricordare, non in rua Dos Douradores né in altro luogo. Non troverai Esteves, uomo senza metafisica e forse, anche i miei versi stanno abbandonando questa città. Ti sei fatto vedere spesso a camminare per l’Avenida da Libertade ma non sai mai quale lato percorrere, quando sali su a destra vorresti essere alla sinistra sapendo che se fossi di là vorresti essere di qua e questo rimbalzare di cattive scelte e di colpe non ha mai fine nella tua mente. Ti hanno visto sulla strada di Sintra indugiare se andare o tornare, se andare al Cabo da Roca o al monte o al Paço, non sai ancora che non c’è luogo qui che ti possa bastare. “So o mar das outras terras é que é belo. Aquele que nos vemos da-nos sempre saudades daquele que nao veremos nunca...”5… Ma quante volte giungendo in un luogo sconosciuto, magari per caso, lo hai scoperto e conosciuto come profondamente tuo e quale dolore hai provato per non averlo conosciuto prima, per non esserci andato già e quale dolore si rinnova ogni volta per l’aumentata consapevolezza che ci saranno sempre luoghi già profondamente tuoi che non potrai mai conoscere e vivere, quale dolore si rinnova per queste vite perse. Non vale forse la pena non andare più, non viaggiare più, non cercare più?
Cosa cerchi nelle strade sotto il Castello o in Alfama. Su e giù per le scale di S. Crispim  non troverai nessun cane affamato che ti sbarra la strada a farti perdere ancora tempo e a ritardare i tuoi appuntamenti e le tue, forse, dolorose scadenze. Nessuna donna percorre per te quelle strade. Cosa aspetti davanti alla moschea, é già caduta la città sotto le armi dei cristiani, è già caduta la testa del muezzin, era cieco, non ha visto chi l’ha ucciso. Perché continui a venire, a saccheggiare la nostra opera e la nostra vita,  non sei portoghese, non conosci la nostra lingua, cosa potrai portare nel tuo paese? Parli di azulejos e di  saudade, del vino di Colares  e del Tejo, credi di parlare con noi ma sei tu che ci vedi e credi di vedere le nostre ombre, credi di ascoltare le nostre parole, le nostre poesie e le nostre canzoni. Percorri come un’ombra questa città, consumi la nostra pioggia, il nostro vento, e questa nostra luce che tanto ti piace ma non riuscirai a trattenerle in te e a portarle via. Non potrai altro che usare la tua pioggia, il tuo vento e la tua luce. Nonostante la tua aria compunta e dimessa quando in fila sul marciapiede aspetti l’Electrico, nonostante il  tuo sguardo velato di tristezza mentre osservi questa città non sei uno di noi. In Portogallo non si usa tenere il posto occupato sulle corriere, non si mette il cappello sul sedile per dire che quel posto é di un qualcuno che dovrà venire. Forse questo si fa in Italia, ma no sulle strade dell’Estremadura dove magari delle signore, forse già inclini alla polemica possono arrabbiarsi e farla lunga sugli stranieri che vengono nel nostro paese a fare i padroni.
Ah per quella volta ! Mi é fin troppo facile discolparmi, ma altrettanto penoso. Non ero io ma c’ero anche io. Me ne vogliano scusare lor signori e quella signora, forse già incline alla polemica.
Tornando a noi poi, non sto seguendo nessuno, qui in rua de Santa Marta ho il mio albergo, la mia stanza é quella al primo piano, proprio sopra l’insegna, dietro quella finestra a quadri bianca stanno dormendo i miei figli e mia moglie. Fino ad ora poi avevo pensato che non potevate arrivare fin a quassù oltre il Rossio e  la Casa do Alentejo, fino ad oggi credevo  che questa fosse la periferia della città. Non sono venuto ad interrompere i vostri sogni e il vostro lavoro. E poi non credo di vedervi o di parlarvi. Vi parlo e vi vedo: Fernando, Alvaro, Ricardo, Bernardo. Non vedo Esteves. Ma vi credevo giù al Terreiro do Paço, in Rua de Alfandega, allo Chiado.
Alvaro ha l’automobile, una Chevrolet bianca che gli hanno prestato, stiamo andando a Sintra o a Cascais, non possiamo rimanere a Lisboa ma appena saremo arrivati a Sintra o a Cascais non potremo rimanerci e allora torneremo indietro per la strada di Sintra o di Cascais fino ai moli di Alcantara o forse fino a Prazeres. E’ li che sta Esteves e la bambina che mangiava i cioccolatini e lo zoppo della lotteria. Ma tu non puoi venire, a te non piace il sarabulho e la dobrada.
Non ho mai detto che non mi piace il sarabulho, non sono mai riuscito a mangiarlo, non lo preparano in tanti posti e bisogna prenotarlo almeno due giorni prima. Ho detto che non mi é piaciuta la papa de sarabulho che ho mangiato a Porto. Amo invece la trippa, non mi piace la trippa fredda. Anche Alvaro e Fernando  non sopportano  la trippa fredda. E non c’é bisogno che fate i gradassi ora per trovare una scusa a non portarmi con voi.
Vi prego solo di non farmi il solito scherzo di lasciarmi qui sul marciapiede la grossa tinca agonizzante per farmi precipitare fino a Rua Das Janellas Verdes a portarla al suo posto nel museo assieme ai suoi bizzarri compagni che la staranno di nuovo cercando. Non è il caso che io vada peregrinando trafelato nella notte piovosa di Lisboa incontrandomi con quelle laide creature, liberate ancora una volta dalla loro segregazione storica e mentale. Come potrei evitare salendo su per la Alexandre Herculano la mandria dei grossi topi con le tuniche rosse, delle brocche di carne, dei veloci cani bipedi e alati. Come potrei sopportare nei recessi oscuri del Largo do Rato le agonie del Bambino senza corpo trafitto dalla spada sulla bocca, di quelle figure ormai non più umane risucchiate da vasi o con la testa trafitta da lame. Come potrei non ascoltare i bisbigli osceni dei vecchi  deformi che si nascondono per l’avenida Alvaro Cabral. Come oltrepasserei indenne i giardini da Estrela occupato dai cento  demoni che non aspettano altro di pisciarmi addosso, trafiggermi, torturarmi, cuocermi in padella o chi sa che altro. E come mi orienterei nelle decine di strade che ci sono per la discesa fino al Tejo, come mi orienterei tra le decine di tentazioni e di allucinazioni e in quelle scene che si vedono oltre il fiume di villaggi in fiamme, di stagni putridi in cui annaspano povere creature ormai non più umane.. E poi una volta arrivato al museo non potrei mai entrare. Il mio biglietto lo ha quell’essere strano che é raffigurato nella tavola di sinistra in basso. E’ forse una figura umana che si muove sul ghiaccio con i pattini. E’  coperto da un mantello rosso, con in testa un cappello conico di metallo   e delle grandi orecchie di cane che gli pendono fino alle ginocchia. Sul grande e lungo becco ricurvo é infilato il mio lasciapassare.
ESTREMADURA

Da rua Serpa Pinto a Tomar, verso nord, in alto si vede per forza il dominante profilo merlato e turrito del convento dell’ordine di Cristo. Non sembra un convento  ma un castello, non dovevano sembrare monaci quelli che abitavano quel convento. Erano soldati, cavalieri armati di spada che non scendevano mai dal loro cavallo, mangiavano sopra il loro cavallo. Andavano alla messa con il cavallo. Raggiungevano la chiesa con il loro palafreno e palafreniere e si disponevano nella Charola in sedici, uno per lato,  in sedici a cavallo attorno all’ottagono dorato fatto costruire come il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Noi poveri viaggiatori soli, seguiamo questi Templari a cavallo dalla chiesa antica del XII secolo a quella manuelina del 1500. Finalmente scendono da cavallo per oltrepassare l’angusto corridoio fino al chiostro del cimitero e al chiostro del  lavatoio. Lasciano il loro cavallo per salire le scale a chiocciola fino ai piani superiori del chiostro grande fino ad arrivare  di lato alla finestra più fotografata del Portogallo.  In vero la finestra è troppo piena di sé, con i fregi che la circondano addirittura più spessi dell’apertura sul muro della chiesa che dovrebbe illuminare. L’apertura  poi risulta chiusa da una pesante e  fitta grata a rombi di ferro. I libri dicono che è una originale preinterpretazione del Barocco con influenze orientali dell’India portoghese di Goa e degli altri esotici territori asiatici del Portogallo. Io dico  un manuelino a vela turbocompresso con intrichi di grosse gomene e gavitelli ghermiti da alghe marine e coralli, con sartie, scotte e nodi e una vela tesa dal vento della conquista. Campeggiano poi elaborate colonne trionfali, corone imperiali e sfere armillari e una grande croce. L’effetto di insieme non è quello di uno strumento architettonico che illumina una chiesa,  ma di un accidente estetico in cui una generazione ha espresso al mondo esterno il culmine  di una onnipotenza ormai raggiunta e creduta costante nel tempo, una eccessiva sicurezza di sé e una  autogratificazione tronfia, troppo arrogante per un paese piccolo come il Portogallo.  Dalla balaustrata del  parcheggio, sotto si vede invece la città che al contrario dell’ immagine guerriera, sfrontata e presuntuosa del convento ha una immagine gentile, gaia, delicata, tranquilla, con le facciate di azulejos, le porte e le finestre di legno color marrone chiaro e azzurre, con il fiume Nabao che si divide in due bracci per disegnare una verde isola serena.  Dall’altra parte della balaustrata sul parcheggio si sono fermate due corriere di gite di bambini delle scuole materne. I bimbi, tutti con il cappello uguale, stanno facendo pranzo sul prato. Hanno steso delle coperte e hanno tirato fuori i loro piccoli piatti e bicchieri. Sono seduti in terra e con le loro forchettine vanno in cerca delle formiche e di altri insetti tra l’erba. Anche questa immagine non è omologata a quella del castello convento, anzi la trovo una risposta  ironica e provocatoria di un Portogallo bambino e scanzonato verso un Portogallo vecchio, eroico e guerriero. Nemmeno i due autisti delle corriere gialle, con i baffi e pancia che stanno tranquilli lì vicino, e le giovani maestre che vigilano meno tranquille sui bambini   riescono riportarmi alla eccessiva  serietà ufficiale di quel sito.
Non è prima volta che i luoghi  eccessivamente seri, per fatti assolutamente casuali diventino normali.  E’ successo con gli ombrelli aperti in fila nei corridoi freddi del convento de Sao Vicente de Fora a Lisboa, qui a Tomar.  Mi aspetto una compensazione simile al Paço Ducal di Vila Viçosa, a Queluz, A Mafra, a Nazarè, a Monsanto,  in Algarve, a……, posti non ancora visti, appunto  perché troppo seri o perché troppo consapevoli di loro.
A Obidos invece non è successo nulla, nessuna compensazione rispetto alla sua fama di città gioiello, racchiusa nella sua perfetta muraglia

SETUBAL

Saramago dice che Setubal è una grande città, ma ho imparato a criticare, certe volte il mio maestro di viaggio. Setubal è invece  familiare e interessante. La foce del Sado la rende attiva e moderna, laboriosa e protetta dalle intemperanze dell’oceano. La lunga e sottile  penisola sabbiosa  di Troia la regala all’oceano quando vuole darsi all’oceano. Attorno sbadigliano secoli di storia, aure mitiche e vecchie leggende rimangono ancora inchiodate alle singolarità geografiche di quei luoghi. Dietro,  tra l’oceano di acqua e il mare i terra, l’Alentejo, la mitica, irraggiungibile città di Alcacer do Sal, il suo castello sul monte, tra i cipressi, con mura alte e spesse dalle quali cantano e suonano fanciulle bellissime come sirene della storia. Verso nord la  montagna inaccessibile  e la rocca di Palmela:  altre sirene e altri amori. Di qua la serra de Arrabida dove tra le rocce gialle, i vecchi castelli mori, monasteri cristiani e quinte con fantastici azulejos matura il moscatel, secondo me il migliore vino da meditazione del mondo.
Proprio sopra la città il castello di Filippo II o I, a seconda se lo si guardi dalla Spagna o dal Portogallo, il solito nipote, imperatore, re, venuto da fuori. Il Castello è costruito con la roccia gialla della serra d’Arrabida su una ardita costa che divide l’estuario del Sado dai mulini a vento della serra. Ha torrette cilindriche sormontate da piccole cupole semisferiche che culminano con affilate cuspidi, e verdi cespugli che vi attecchiscono volentieri. Lo racchiudono spesse e alte  muraglie a forma di stella. Al centro della stella, quasi piccola, la costruzione bianca della Pousada che si  raggiunge attraverso un’arcigna porta nella muraglia esterna e un lungo corridoio, quasi una galleria in salita con bassi scalini. Appena usciti all’aperto in cima, sulla sinistra si apre una semplice porta di legno che a non essere curiosi si tralascia per andare avanti, magari ad affacciarsi sulla terrazza che da sull’estuario del Sado e sulla città. Ma se si è curiosi e si spingono i due battenti della porta e si scendono i pochi gradini che ci sono oltre ci si trova in un piccolo ambiente, oscuro,  ma ad abituarsi a quella oscurità appare una doppia fila di dieci panche di legno e una volta a botte. E’ la cappella di Sao Felipe con l’interno che è un tripudio di blu e bianco. La cappella, pavimento escluso, e completamente rivestita di azulejos perfettamente barocchi tale da farti credere che sei di fronte ad un affresco del 1736: Un’annunciazione, il battesimo di S. Filippo Neri, e sulla volta la glorificazione delle armi del re Joao V.
  Giù in città le sottili colonne attorcigliate su se stesse di Diogo de Boitac della chiesa del Gesù  sono il primo manuelino del Portogallo e del Mondo, visto che il manuelino è solo in Portogallo. La piazza, nuova del solito moderno marmo chiaro, è ribassata rispetto al piano circostante, al centro il pelourinho  costruito da una breccia giallo-rosa come il nostro Rosso Ammonitici o Rosso Veronese, poggia sopra una corolla fatta con petali della stessa roccia. Da un lato della piazza delle costruzioni gialle, dal lato nobile la chiesa del Gesù.


COIMBRA

Coimbra mi esprime dei ricordi netti e scintillanti come il Portugal de pequenitos caldo e luminoso, il luna park con i suoi lampi precisi di colore e di suoni e con le urla dei bambini e la musica,  il mercato vivo di odori, colori e suoni, la signora di un banco che ci regala un pezzo di  formaggio caprino, l’università alta e altera.
Coimbra mi esprime ancora dei ricordi velati: le ampie aeree e legnose stanze della pensione, le scale alte nella penombra, i tappeti scuri, gli occhi tristi e le mani esili e lunghe e bianche della giovane e gentile signora della colazione, la collina rotonda su cui si è arrampicata la città e il Mondego che la lambisce.  Ricordi velati,  filtrati dal mio occhio destro che già aveva dato segni di problemi. A Coimbra vado quindi all’ospedale dell’Università. E’ appena fuori città, molto alto e moderno, rivestito di mattoncini rossi. La clinica oculistica è ad uno degli ultimi piani. All’accettazione una impiegata compila la mia cartella con i dati anagrafici, quindi un dottore la completa con i dati clinici e la mia storia clinica poi un infermiere mi accompagna in ascensore al reparto.  Mentre sono con la faccia infilata nelle macchine e lei mi guarda gli occhi con il microscopio e con le lenti osservo le sue scarpe basse e  rosse,  i jeans stretti e la camicia rosa, i capelli corti, i suoi occhi giovani e scuri, le sue mani senza anelli. E’ una bella dottoressa. Fatico a spiegare i sintomi  a tratti in italiano, a tratti nel mio laconico portoghese. Sorride quando riesco a dirle nella sua lingua che le fonti luminose puntiformi si trasformano nel mio occhio destro in tante stelline che emettono raggi in tutte le direzioni, ed è come se queste stelline fossero nel cielo che io guardo attraverso un vetro appena unto. Fatica anche lei a spiegarmi le cose parlando lentamente e ripetendo le frasi. Sono rassicurato sui miei occhi, sollevato la ringrazio, le stringo la mano calorosamente, mi verrebbe voglia di baciarla. Ringrazio l’infermiera con il camice verde che mi ha messo l’atropina.


I PONTI  DI  PORTO

Siamo sul ponte di ferro di Porto di sera. E’ molto tardi, io e Daniele lo attraversiamo da soli, a piedi. Ad ogni passaggio di corriera o di camion il ponte vibra tutto  e non è una sensazione rassicurante. Andiamo avanti fino alla metà del ponte per raggiungere la parte centrale del fiume. Sotto scorre il Douro lontano, scuro, lucido. Stringo Daniele forte a me, lo tengo stretto forse a proteggerlo. Siamo li soli, sospesi sopra il fiume in un esile, tecnico, artificio di ferro di cento anni fa.  Paola e Valeria ci aspettano la sulla collina di Porto. Corriamo per andare da loro. Forse ho in po’ di paura.

Sono ancora una volta sul ponte di ferro di Dom Luis. Questa volta sulla parte bassa, lo sto attraversando da Vila Nova de Gaia a Porto, sono solo, su un taxi silenzioso, il fiume scorre poco sotto chiaro e fangoso, fuori piove, la radio manda canzoni popolari dell’Alentejo. Parlano di terra arsa dal sole e abbandonata, di terra arida e incolta, di latifondi e di sud. In quella mattina di pioggia copiosa e costante, sopra il Douro, sento quell’Alentejo molto lontano da me e da quel luogo..
Alla stazione dei treni di Campanha la ragazza dell’autonoleggio dice che hanno avuto un febbraio splendido di buon tempo ma in marzo ha piovuto molto e crede che pioverà ancora per parecchio tempo.
Ancora da solo, attraverso  il ponte di cemento di Arrabida. Questa volta  verso sud. Piove tanto che i tergicristalli alla massima velocità non riescono a togliere l’acqua dal vetro. Sulla sinistra la vista solita della città è oscurata dalle nuvole basse e dalla pioggia: risaltano appena il riflesso del Douro, il biancore esile di alcune costruzioni sul ferrigno granito della Ribeira e il grigio ponte di ferro, oltre più nulla. Dall’altra parte l’oceano è vicinissimo. Le grandi onde si rifrangono senza rumore ma con alti strepiti di schiuma bianca e di vento. Illuminano lo scuro mare oceano con lenti lampi. Io, dentro la Renault gialla, solo, ascolto per caso una canzone di Misia, una lenta ballata d’amore stranamente accompagnata dal violino, forse un fado con i testi di Carlos Drummond de Andrade “Ainda que”.  Saranno  questa musica e questa letteratura che mi terranno ossessiva compagnia per tutto questo nuovo piovoso viaggio nel Minho e fino a “la Fora” in Galizia.
Avevo iniziato con la pioggia di Porto e la canzone di Misia. Ma questo viaggio doveva essere  il viaggio del romanico e del granito. Sarà il viaggio del romanico e del granito ma anche della pioggia. La ricerca inizia già a Rio Mau  la nostra guida non riesce a farci trovare la chiesa che cerchiamo nel paese, andiamo avanti fino ad un cartello “tempio romanico”. La nostra guida è Jose Saramago, mi piace molto il suo libro “Viagem a Portugal” è molto preciso, meticoloso e tanto portoghese, solo portoghese, e ti racconta dei posti anche insignificanti per il turismo ma con collegamenti sotterranei che possono apprezzare gli affezionati al luogo lusitano. Lo apprezzo anche perché è brontolone contro i giovani che fanno chiasso e spruzzano acqua quando fanno il bagno al fiume, quando si arrabbia per quell’Algarve che non vorrebbe più parlare portoghese ma solo inglese o tedesco o francese. Dopo un po’ di strada lo troviamo il tempio romanico ma è quello di Rates.  Piove molto su Rates la chiesa è li: granitica, scura umida al centro della piazza. Davanti un arco provvisorio con la scritta “Eu so a porta”. L’interno e scuro  e spoglio ha lo stesso odore della cantina di San Donnino: roccia umida e questo odore da ricordare. Non avevo mai notato il Portogallo romanico, e da allora rimarrà un romanico serio e veramente antico, vecchio fino alla muffa. Anche le altre chiese di questo Minho avranno tutte questo carattere: da Caminha, a Barcelos, a Ponte de Lima.  Fino ad ora il  Portogallo era barocco delle chiese di Lisboa, di Coimbra, manuelino a Belem, Batalha,  forse era medievale delle cattedrali di Lisboa, Porto, Evora ma mai romanico. Solo questo Minho dischiude le sue piccole chiese raccolte e solitarie nella verde bagnata campagna del nord. Forse la spiegazione è che qui al nord ci sono stati sempre i cristiani mentre al centro e al sud gli islamici.
          Rates è memorabile per la sua piazza, per il portale della chiesa con scolpiti uomini prostrati al cospetto del Signore o, come dice Daniele, con tartarughe.  Barcelos è memorabile  per il pollo dalle cosce lunghe che corre a gambe levate per il mercato dietro la sua vecchia o nuova padrona.
Il Mercato di Barcelos è famoso in tutte le guide turistiche che sollecitano i lettori ad andarci al giovedì. Noi siamo arrivati ieri sera a Porto era mercoledì e tra Rates e Vila Nova de Cerveira non possiamo passare che a Barcelos.  Oggi piove a Barcelos e il mercato non è molto affollato. Ci sono comunque le bancarelle dei budelli per le salsicce e i salami che emana una puzza poco sostenibile. Il mercato occupa tutta la grossa piazza ed è  diviso in “quartieri”:
Il quartiere degli animali con i polli che non sono fuggiti, i conigli e le anatre e i pulcini dentro le ceste di vimini rovesciate, le caprette bianche e nere legate con sottili funi di canapa agli alberi della piazza.  Il quartiere delle verdure e della frutta non brulicante di vita animale ma con un vivo odore di cipolla sovrastante un concerto di altri odori dell’orto e della campagna, dalle olive all’aglio al cavolo.  Il quartiere tecnologico con gli strumenti agricoli e per la casa, con una serie interminabile di matafrangos, letteralmente ammazzapolli,  attrezzi di latta di forma e dimensioni variabili ma sempre riconducibili ad uno strano imbuto. Non sono riuscito a capire se Matafrango è il nome dell’attrezzo o la marca del costruttore. Infine il quartiere dei vestiti dove mi sono affrettato a comprare calze e scarpe più adeguate a quel clima atlantico visto che le mie Clarcks da deserto  erano completamente bagnate.
A Ponte de Lima la sabbia della spiaggia sul fiume, sembra d’oro e non è il tramonto a regalargli quei riflessi. Diciamo che forse il fiume Lima attraversa a monte dei filoni di oro pegmatitico e in questa tranquillità bucolica e tersa lo abbandona a sedimentarsi sotto il ponte romano che attraversa l’acqua a placide e rotonde arcate. Di la dal ponte, oltre la chiesa che si specchia sulla riva nord del fiume, cani di varie dimensioni  stanno seduti, a mo di leoni, sulle colonne delle recinzioni delle case, cani di vari colori stanno sdraiati, in fila sul marciapiede, al sole basso di questo pomeriggio di aprile.
Il nome  fiume Lima suona come limes latino:  confine. A sud, la terra conosciuta e già romana, a nord, oltre quel bordo si estendevano  brumose lande sconosciute, il nuovo, territori da conquistare. I legionari, comunque lontanissimi da casa, non volevano andare oltre, erano stanchi di conquiste e battaglie contro i Celti. Avevano paura di andare nella terra dei Galli, in Gallecia, delle storie paventavano la perdita della memoria a tutti quelli che superavano il Lima/limes. Non avrebbero più ricordato la casa, la moglie, i figli e i campi che aspettavano da troppi anni, avrebbero vagato per sempre in quella terra straniera. Il centurione superò da solo quel bordo, andò da solo fino alla riva nord del Lima/limes, in piedi sulla sabbia d’oro si rivolse verso i suoi legionari e li chiamò uno per uno con il proprio nome. Non si era scordato di loro. Roma poteva conquistare la Galizia.


TRENI DEL MINHO

La stazione di S. Bento accoglie azulejos meravigliosi e molta gente che parte: donne con le gonne lunghe e grigie, molti soldati con la divisa caki e la bustina di traverso sulla testa. Il treno che da Porto va a Viana do Castelo non ha la trazione elettrica. Il macchinista suona sempre. Non solo per necessità ma anche per fare confusione infatti intona anche dei motivetti e dei ritmi noti. Noi siamo sistemati in due sedili, uno di fronte all’altro. Oltre il corridoio, sulla destra c’é un uomo molto vecchio, veste con una buona giacca blu, ogni tanto tira fuori dalla tasca degli orologi, ne ha 3,  li guarda e li carica continuamente. Di fronte al vecchio un ragazzotto con una Nikon sulle ginocchia,  ad un tratto lo fotografa. Per fortuna é sceso presto. E’ un momento, mi trovo solo: Daniele é sprofondato nel sedile nella lettura del giornaletto, Valeria dorme sulle braccia di Paola che dorme, a sua volta, appoggiata all’indietro sulla spalliera, con la bocca aperta. Le fotografo, sono circa le 11.30 del mattino.
Da Viana do Castelo a Braga bisogna cambiare a Nine. I treni del Minho non hanno la trazione elettrica. Anche per questo sono più familiari. Sembra di essere nella propria macchina e si partecipa alle accelerazione e ai cambi di marcia. Ognuno é macchinista di quel corto convoglio che corre per la verde e (umida) campagna del Minho. Il paesaggio é definito dai poligoni regolari delle vigne a pergolato. All’interno delle linee poligonali il mais ancora verde in questa estate. Le viti sono tenute in file di quattro o cinque e fatte crescere a pergola alta così che per la vendemmia gli si passa sotto con il carro e i grappoli si vendemmiano con le braccia alzate. I poligoni, solitamente pentagonali, hanno i lati che superano i crinali delle basse colline, che serbano sotto il verde l’antico granito, attraversano le valli come linee che viste da lontano o dall’altro, forse hanno un significato.
  Partiamo in perfetto orario, come sempre. Salgono dei ragazzi con gli zaini, una coppia di signori quasi anziani, lui ha la giacca e il panciotto grigi, e il cappello con la larga falda calzato in testa. Sta seduto, diritto e preciso sul bordo del sedile, non appoggiato allo schienale. Più in la una donna, grossa, con un sottanone nero da zingara e con i lineamenti da zingara, da il latte ad un piccolo bambino. Lo fa attaccare ai suoi grandi e cadenti seni tenendo le ciavatte sul sedile davanti a lei. Assieme c’é un ragazzetto con gli stivaletti neri di pelle e con l’aria strafottente. Di qua ci siamo noi quattro, io vicino al finestrino con la fronte nella direzione di marcia. Bevo il paesaggio verso l’interno attento alle curve della ferrovia, alle linee sinuose delle colline, ai profili convessi delle montagne lontane dell’interno, alle linee spezzate delle coltivazioni e a quelle continue e morbide dei fiumi, alle macchie bianche dei casolari lungo il percorso del treno e dei villaggi più lontani. Il granito si intuisce sotto il manto verde intenso, lo si vede ancora innervato dai muschi e dalle erbe nelle trincee della linea ferroviaria. Sulla destra colline più basse e in fondo penso al mare e a quell’oceano non visibile  ma così presente in questi luoghi, nei colori e negli odori di questa terra.
Daniele legge il giornaletto che porta sempre con se nel suo zainetto di Re Leone, Valeria fa degli esercizi sul suo quaderno con Paola. Il cielo fuori é coperto, l’umidità é visibile nell’aria, é freddo, abbiamo tutti la giacca. Presto entreremo in una galleria che varca una costiera di colline che attraversa il territorio in direzione est ovest. Credo che il paesaggio oltre il crinale e oltre  i radi alberi ad alto fusto  che lo coronano sia lo stesso di qui.
Il treno viaggia con le porte aperte, nessuno, nemmeno i ferrovieri si preoccupano di chiuderle, anzi tutti si impegnano a tenere aperte. Si fa prima a scendere e a sapere in quale stazione si sta per arrivare. In qualche stazione, quando il treno finalmente dopo aver finito la sua frenata, si ferma, non c’é più nessuno che deve ancora scendere. Sono tutti scesi per i fatti loro.
A Nine  l’altro treno, fatto di due soli vagoni, ci sta aspettando. Parte subito appena siamo saliti.


BRAGA

Braga veniva descritta come la seconda città del nord, industriale e centro economico del Minho. Non vogliamo fermarci per questo. Dobbiamo solo prendere la corriera per Guimaraes. vado da solo all’ufficio del “turismo”, in centro. Oggi é domenica,  ma in Portogallo, gli uffici del turismo sono o sempre aperti. Oltrepassato un arco sono n un centro pedonale, ben messo, elegante. Oltre, sulla sinistra una complessa struttura nasconde vecchie punte di archi gotici, medievali, quasi isolati in mezzo ad espressioni più recenti e più ricche. Era la dimora dell’arcivescovo Primate dei Portogallo, ora é la sede dell’Università del Minho. Sulla destra della strada principale un altro complesso di edifici dalle linee semplici e lineari all’esterno. Sono chiese che celano i loro sontuosi interni barocchi ai passanti frettolosi ed essenziali con delle grandi mura a conci di granito.  Oltre il corso continua tra la torre del Menagem e negozi fino alla grande e nuova Praça da Republica con una monumentale fontana e la pavimentazione di granito chiaro e lucido e ridondante di luce bianca.
La stazione delle corriere é in centro, a pochi minuti dalla Praca da repubblica, c’è una partenza ogni mezz’ora, anche alla domenica.
Assieme visitiamo il barocco della Se, invero un buon barocco, mitigato dalle vetrate policrome sui vivi e splendenti  toni gialli e rossi. Sono recenti. degli anni 70, ma danno quel necessario freno, medievale, a quell’esagerato turbinio di curve dorate del coro e dell’organo che sembra, guardando verso l’alto, la grande bocca del demonio. Un baratro infernale, che sale verso l’alto, un baratro infernale d’oro e d’argento. E un buco vuoto, una tromba di ascensore gigantesca che ascende alla dannazione tra figure contorte, sinuose di ori, di stucchi e di smalti dorati, tra le trombe d’oro del giudizio e le canne d’organo foriere di sentenze inappellabili. Tutto il cilindro, vuoto, é tappezzato ai suoi lati da questo bailamme di figure, su fino agli affreschi del soffitto, dominati dai toni dorati anche loro. Lo sguardo orizzontale, verso l’altare é più semplice, non ridondante di significati e moniti. Le colonne e i muri dell’ubiquitario, grigio e rugoso granito, le luci radenti delle vetrate colorate, e dei rosoni, e una musica d’organo registrata  (credo Bach) purificano la mente dalle paure e dalle dannazioni del precedente sguardo verso l’alto, di un viaggio verticale come quello del coro.
“ Rimani sulla terra, peccatore, lavora i tuoi giorni, rispetta i tuoi signori, non alzare la testa sopra i tuoi signori, sopra i tuoi campi e ferri e legni. Non cercare di salire o ti troverai a combattere il demonio, con il demonio della ricchezza e con la tua vita. Inginocchiati e guarda in terra, non sollevare lo sguardo su ciò che non capisci e che ti fa paura, no guardare ciò che ti deve fare paura. Inginocchiati e guarda in terra, non sollevare la tua testa”.

SULLE STRADE PER VIANA DO CASTELO

E’ la terza volta  che stiamo per entrare a Viana do Castelo.  Potremo essere in macchina e costeggiare l’oceano basso e sabbioso verso sud da Caminha a Viana dentro una pioggia tenue, o potremo attraversare  da sud il lungo ponte di ferro sul fiume Lima  su un trenino a gasolio partito dalla stazione di S. Bento a Porto.
Siamo invece sull’autostrada, scavalchiamo velocemente il confine tra Galizia e Portogallo. Il nuovo ponte  passa alto sul fiume, il Mihno scorre largo e placido in fondo alla valle. A sinistra, in alto sopra il fiume, i risalti  chiari e veloci delle bianche case e delle munite mura di Valença do Minho,  sullo sfondo del verde intenso dei prati e sotto il cielo variamente grigio e gravido di nuvole, sono una visione idilliaca e la città di Valença sembra la più bella del mondo. Solo qualche giorno fa la stessa Valença mi era risultata repulsiva tanto da farci scappare in fretta. Era stato difficile parcheggiare la macchina, era stato difficile pagare strani, contorti e brutti personaggi che vestivano i panni di parcheggiatori abusivi, era stato faticoso incanalarsi dentro la scia dei molti, molti visitatori  fino a varcare una porta pedonale sulla muraglia, era stato doloroso accorgersi che nel piccolo paese c’era una sterminata folla di persone chiassose che ruotava continuamente, incessantemente attorno all’unico isolato che lo compone, davanti a una teoria continua di negozi e bancarelle di paccottiglia, di spacci di patatine e altro veloce  cibo fritto e puzzolente. E per fortuna e per caso che abbiamo alloggiato a Villa Nova de Cerveira e non a Valença come un primo tempo avevamo deciso. Mi aspettavo di arrivare  nella città quando ancora si chiamava Contrasta, di scrutare da dietro i possenti bastioni i soliti nemici di sempre, gli Spagnoli di Tuy appena al di la del Minho e invece sono stato costretto a scappare, a rifugiarmi a Tuy per sfuggire alle moderne orde di spagnoli che ruotano chiassosi attorno alla piazza di Valença do Minho.


ALENTEJO

Perché non vieni con me in Alentejo. Ti porterei a vedere i gabbiani che prendono il vento di Cabo Espicel e si fanno portare fino ad Alcacer do Sal ed oltre. Ti porterei a viaggiare nel caro Alentejo. Il Portogallo è la barca di Alentejo. Alentejo, anche se terrigno, è la vela del Portogallo, che terrigno non è. La puoi vedere già sollevata e gonfia nel vento  e di gabbiani dell’ovest. E’ una vela triangolare: i vertici in alto sono occupati da Monsaraz e da Marvao, il vertice basso, quasi sul mare, è Alcacer do Sal.  Qui Alentejo defluisce lento nell’estuario del Sado e nell’Oceano. Verso il Sado e l’Oceano scendono l’acqua, il vento il sughero, l’olio, il vino, la stessa terrà, l’anima dura di questa terra: la sua spina dorsale di marmo e di roccia. La gente di Alentejo scende verso il sale della laguna, verso il sale dell’Oceano e verso il sale delle loro lacrime antiche. Antiche come questa terra, che ora, sollevati i bordi orientali come una vela, sta andando via, verso l’Oceano, tutta intera. Sta partendo per chissà quale nuovo viaggio. Sarebbe bello che anche noi potessimo imbarcarci in questo Portogallo nave, con questo Alentejo vela, per andare chissà dove.
Per ora non ci resta che seguire i gabbiani che su per i fiumi arrivano fino ai laghi dell’interno e alle colline ondulate di sugheri e di olivi, di prati dai fiori gialli e viola. Per ora non ci resta che tuffarci dal cielo in quei piccoli villaggi dalle case bordate di giallo e di blu (ma anche di verde e di rosso e di marrone), e ancora correre assieme a quelle veloci, mobili, belle nuvole che percorrono il paesaggio fino all’orizzonte. Per ora potremo appollaiarci su quegli enormi camini bassi e larghi che escono dalle case, o sulle torri bianche dei castelli che svettano ovunque: dalle colline isolate, dai paesi, dalle città, castelli che il re Dinis (O lavrador) nel 1200 fece costruire a decine qui in questa terra di confine a guardar la Spagna.
Ma i gabbiani non arrivano mai a Monsaraz, è troppo lontana e troppo secca per quei uccelli di mare. Non troveremo i gabbiani a Monsaraz. Troveremo tanta gente, spagnoli forse, comunque turisti in cerca delle foto delle riviste, tanta gente intorno a quella via di case bianche, tanta gente attorno a quelle case bianche. Sopra i tetti non ci sono i gabbiani e non ci sono le cicogne, non ci sono nemmeno le antenne della televisione. Monsaraz,  per questo, è un luogo troppo in regola con i tempi moderni. Monsaraz è una città “cablata” così le antenne non danno fastidio per le fotografie. Questo aspetto rende il luogo finto, di carta, irreale, fatto solo per copiare le foto delle riviste. La mancanza delle antenne e dei gabbiani, dei fili che entrano nelle finestre, dei muri rovinati, sbrecciati dal tempo e dall’umidità rende questo posto simile ad un campo di golf.  Un luogo aperto per un periodo limitato di tempo per farci giocare la gente, poi chiude, si spegne. La gente se ne va e ritorna alle sue abitudini. Alle attività di sempre. Qui uscendo dalla pensione, dalla propria camera non si trovano persone che svolgono attività normali (anche a Safranbolu la gente faceva la propria vita), a Monsaraz non c’è mercato, non ci sono negozi, quasi tutte le case sono occupate da pensioni, alberghi e ristoranti, gli unici abitanti sono diventati i turisti. A Monsaraz non rimane nessuno tra lo stare effimero di un turista e lo stare effimero di un altro turista. Non rimane nessuno a raccontare, ad ascoltare a mediare tra uno stare e l’altro. A Lisboa c’è Martinho che media tra noi e gli altri suoi clienti, tra me e il professore che sembra un Hidalgo, tra noi e la vecchia con la pila in mano che si addormenta alla sera nel suo ristorante, tra me e i suoi avventori abituali e tra me e gli altri turisti che passano per il suo ristorante. A Monsaraz non rimane nessuno, nulla. Io mi sono portato via la mia storia, non ho lasciato la mia storia a nessuno e nessuno la racconterà ad un altro come me. A Monsaraz nessun testimone umano vivo ha avuto la mia esperienza:  forse le mucche della vacada di pasqua nella piccola arena del castello, il cavallino di ferro battuto simbolo del Correjo, il bianco delle case.
Marvao è l’altro vertice della vela. Paese di granito sulla montagna imprendibile, irraggiungibile sia dalla Spagna che dal resto del Portogallo. Marvao ha le antenne, gente che lavora nei giardini e lungo le strade, nell’ufficio postale. A Marvao puoi parlare con qualcuno: con la donna alla finestra, con i bambini che entrano nelle case, (a Marvao ci sono donne e bambini) ed ecco che la tua presenza la tua storia acquistano significato.  Il panorama di Marvao è singolare in Portogallo. Puoi vedere la neve della Serra de Estrela, puoi vedere tanta di quella Spagna che un tempo qui temevano, puoi vedere tanto di quel Portogallo che da qui proteggevano. La montagna di granito è spoglia di vegetazione, solo i giardini sotto l’entrata del castello sono verdi e curati, ma dall’alto di quel cocuzzolo deserto puoi vedere, verso ovest, la verde terra del Portogallo verde di erba e alberi, punteggiata da tanti laghetti, percorsa da torrenti e fiumi e la puoi vedere o immaginare così fino alla costa dell’Oceano. Da Marvao non riconosci l’Alentejo che siamo abituati a leggere sui libri: secco e caldo, stepposo e arido, pianeggiante e deserto. Qui siamo nella Serra de Sao Mamede dove dominano la bella vegetazione e la buona acqua. Se ci passi ad ottobre a volte la nebbia  bianca, avvolge dal basso il villaggio, scavalca silenziosa la muraglia che lo cinge, lambisce dal basso le case bianche, arriva a coprire e a rendere traslucidi  appena i grandi camini e il campanile della chiesa.
Castelo de Vide è la più bella città dell’Alentejo  e del Portogallo  ( è qui che vorrei comprare una casa se non avessi già quella di Portinho de Arrabida). La città è bianca, precisa attorno alle sue vie lastricate in rapida salita, strette e piene di piante addossate ai muri delle case, che curate e coccolate escono dai vasi, circondano le porte, raggiungono i piani alti. Sono fucsie, buganvillee, gelsomini che, qui con visibile amore, diventano alberi. L’acqua termale e storica, sgorga ancora li in fondo alla città  dalla Fonte da Vila, ancora intatta giù in basso in fondo alla Judaria, tempietto di roccia che contiene quei quattro zampilli sotto il tetto e in mezzo a sei esili colonne di calcare. Attorno alla mina da agua  una piazza forse triangolare in pendenza, nel lato più basso risaltano le più belle porte di Alentejo, quelle che, come dice Saramago, sono lasciate in amorevole eredità dai vecchi ai giovani che le dovranno curare come tesori inestimabili della loro storia, della loro famiglia e del loro Portogallo. Castelo de Vide risalta per l’amore dei suoi abitanti per l’esterno delle case per i luoghi degli altri, per i luoghi di tutti, per i soli luoghi che da turista mi posso appropriare, per me è toccante questo loro interesse per i miei desideri e le mie  necessità nel loro Portogallo.
La piazza verso l’esterno è chiusa da un arco. Sotto l’arco incontro tre signore anziane, le saluto con il mio boa tarde. Una mi risponde e continua il discorso, ma io non lo capisco. Sono costretto a dire che non parlo portoghese. Lei di rimando, stupita: “non sei portoghese?”. “Non sono portoghese, sono italiano”. “ Strano, sembri proprio portoghese !”.  Le tre signore se ne vanno dentro la piazza, la percorrono in salita fino ad una via e quindi scompaiono dentro la città.
L’incontro è emblematico della mia situazione di lusofilo che a poco a poco acquista di ciò che ama.  Castelo de Vide è diventato il luogo dove la percezione di questo fatto è diventata sensibile. Forse è per questo che sono rimasto così attaccato a Castelo de Vide o forse perché ci sono stato così poco tempo tanto da permettere di creare in me il ricordo o le sensazioni di quello che non ho visto e sentito e vissuto, Tanto da permettere di creare quelle relazioni indissolubili ormai con quel luogo. Tutto questo la chiamo “sindrome del marinaio di Pessoa”: Luoghi visti o non visti che creano aspettativa e amore per altri luoghi non visti o non vissuti come si deve. Sono stato alcune ore in un luogo che meriterebbe di essere vissuto per sempre.
O magari  potrei considerare l’incontro e quella dichiarazione “come non sei portoghese, sembri proprio portoghese”, in parte vera.  Risalendo la linea della mia famiglia di origine veneta, nel 1700 ci si perde tra la terra ferma e la laguna, forse a Venezia… Venezia è città di mare di navigatori. Anche il Portogallo è terra di mare e di navigatori e magari chissà …
Dentro Alentejo le due città: Beja ed Evora.  Tutte e due sovrastano la terra da una collina rotonda, tutte e due si vedono già da molto lontano quando si tenta di raggiungerle, ma non sono così raggiungibili come la geografia vorrebbe far crescere e non tutte due nella stessa misura. Tutte due, aristocratiche e urbane, danno la sensazione di dominio della terra che gli sta attorno. Per un mio gioco, forse inutile e innocuo a volte le contrappongo, le osservo e le misuro, l’una dall’altra. A quella distanza di ottanta chilometri non risaltano i particolari che devono rivivere solo fuori dalla memoria. Escono tutti da un doppio arcobaleno che identifica la città già lungo l’autostrada appena passato Montemor o Novo. Ecco Evora sul colle, contro il cielo la sua potente cattedrale, attorno altre colline e sugheri e olivi, nuvole veloci le adombrano ogni tanto. Ecco Beja sul colle, contro il cielo le sue torri scure e le sue case bianche, attorno digrada la pianura di grano, il cielo della sera la circonda, la comprende, la racchiude.
E’ forse Beja la sorella povera delle due, è forse Evora la bella, la altezzosa così splendidamente bianca. Beja non è splendidamente bianca come Evora, in fondo ai muri la vernice è scrostata e affiorano grosse macchie qua e la. Ma Beja questa mattina è bella, forse meno finta di Evora. Le vie fredde e chiare, il mercato chiassoso e ventoso con le signore basse e tarchiate vestite di nero, gli zingari che chiedono l’elemosina, gli uomini in piazza con il basco, le basette a punta, i baffi e il panciotto di velluto.
La stanza sopra il pelourinho è fredda, la notte è stata fredda, forse è stato freddo l’arrivo in questa città, un arrivo non voluto, un percorso nella notte di ottanta chilometri. Ieri sera lasciavo Evora la bella e viaggiavo nella notte verso Beja, ieri sera Evora la bella mi aveva rifiutato, Non ho scelto di svegliarmi a Beja. Per questa forzatura Beja ora mi sembra un luogo nuovo, vergine, nemmeno pensato prima, non già visto, non letto. Un tonfo al cuore e al cervello, il luogo si apre a poco a poco ai miei occhi e al mio pensiero. Dalla finestra della camera scorgo la piazza sottostante, la Praça da Republica. Sotto, sul pavimento, le mattonelle bianche e nere disegnano lo stemma del Portogallo con  i sette castelli tolti ai Mori durante la riconquista  e   i cinque  scudi e le cinque palle per ogni scudo: le cinque piaghe di Cristo crocifisso i primi, e contando due volte le palle dello scudo al centro, i trenta denari pagati a Giuda. Oltre lo stemma le colonne di metallo rosso e azzurro del Correjo, oltre ancora le case dai tenui colori pastello, scrostate sotto gli azulejos, annerite dall’umidità la in basso, oltre il sole ancora basso di questa mattina di primavera. Sulla mia destra le case continuano con lavorati bordi di azulejos, si interrompono in una grande chiesa, dall’altra parte, forse un palazzo del governo, con le bandiere del Portogallo e della Comudidade. Oltre la piazza stradine e vicoli acciottolati, case bianche, semmai bordate di giallo, solo di giallo. Oltre la piazza stretti terrazzi ed esili balaustrate di ferro battuto si susseguono fino al convento delle suore della regina Leonor. Oltre la piazza le targhe gialle, ovali con i nomi delle vie e delle altre pazze e più in fondo la torre del Menagem,  scura, forse di granito. Anche questo Portogallo è un Portogallo di granito.
Prima di questa mattina di Pasqua Beja era solo per caso, il luogo dove, per caso, uno scrittore francese aveva fatto vivere una suora che scriveva lettere d’amore ad un soldato francese, Mariana Alcoforado. Mariana forse visse a Beja ma non scrisse le Lettere Portoghesi.
Ritorno ad Evora la bella, è la seconda volta, questa volta non mi respinge. La ricordo da ieri notte, con i palazzi e le chiese illuminati dal basso da una radente luce gialla. Ora è bianca, fulgida in questo sole di mezzogiorno. Forse Evora è la città più bella del Portogallo, così precisa e linda nel suo bianco rifinito dal giallo della cornice delle porte, dei balconi e delle finestre, così racchiusa, splendente dentro le sue antiche mura. Forse ad Evora c’è troppa gente che non dovrebbe stare ne in Alentejo ne in tanta parte del Portogallo:  Spagnoli e Italiani.  Debora è toscana di Firenze, deve andare domani in Algarve, a Lagos, si ferma ad Evora solo questa notte, non gli piace la stanza, la 121, mi chiede di svegliarla alle 8,30 della mattina dopo se no dorme fino a tardi e perde il giorno intero. Alle 8,30 la sveglio, mi risponde una ragazza portoghese. Debora, la toscana di Firenze, se ne era già andata ieri sera, in Algarve o chissà dove senza dirmi di non passare più a svegliarla.
Evora è difficile da abitare: non c’è poso alla Pousada, non si può salire al tempio di Diana, non si può parcheggiare al Rossio quando c’è il mercato, non si sta bene alla cappella dos ossos, orrendo luogo, buio e polveroso,  fatto da mediocri impiegati di una religione invidiosa, forse troppo occupata a sapere la verità e a decidere il da fare degli altri. “Nos ossos que aqui estamos pelos vossos esperamos”  hanno scritto dentro questa cripta e hanno tappezzato le pareti e il soffitto di tibie, femori, con teschi che disegnano linee geometriche e seguono la volta del soffitto. Hanno fatto parlare le ossa di migliaia di scheletri: "noi ossa che qui stiamo, vi aspettiamo” Ma le persone a cui appartenevano quelle ossa sarebbero state così impazienti di veder morire altre persone? Sarebbero state così tecnicamente carogne? Perché poi questi mediocri impiegati, burocrati del giusto non hanno firmato in proprio il loro monito. Hanno invece dissotterrato migliaia di anime e gli hanno messo in bocca i loro sputi. E a quelle migliaia di anime è stata fatta giustizia? Sono state contente di aver abbandonato il loro riposo, quale che avrebbero raggiunto, e di rimanere li come in un grigio, doloroso cartellone pubblicitario al bordo di una strada, o come uno  spot televisivo stantio, a enunciare in maniera inutile la verità assoluta.
Questo posto è assurdo, assurdo come la televisione che dice la verità assoluta.  Esco fuori all’aria della sagrestia, finalmente ampie, chiare finestre e tutte le pareti finalmente tappezzate da sole piastrelle azzurre e bianche.
Ad Evora non si trova facilmente da dormire, e nemmeno il parcheggio per la macchina, all’ufficio del turismo hanno più fretta che negli altri posti, ma da  Evora si può guardare tutto Alentejo.
Evora ha dei tetti seducenti, e camini seducenti e banderuole segnavento a forma di cavalieri a cavallo, di San Giorgio che uccide il drago che sventolano sopra i tetti attorno al disco giallo della luna che sale dai tetti nel cielo di Alentejo, lenta, dai tetti verso i campi di Alentejo.  Dai tetti di Evora, solo la sera e alla mattina presto si vede il mare di Alentejo. Solo alla mattina presto e alla sera, quando sale la luna, laggiù in fondo la pianura diventa mare. Solo da Evora si può vedere quel mare, da nessun posto e da nessun altro luogo, finora.
Si abita nella chiesa di Sao Francisco con la luce colorata che fende l’ampia e scura navata, al mercato comunque vivo e chiassoso della domenica di Pasqua, nelle strade della parte occidentale, solitarie di porte e finestre con la vernice scrostata, nei giardini dove si corre con gli svizzeri che parlano italiano e si sta seduti con i vecchi che ascoltano la radio.
I giardini finiscono con le mura della città che limitano il mare di Alentejo. Quel mare lunatico della sera e della mattina presto, che fanno diventare quei giardini l’oceano  e la città come un forte  in riva all’Atlantico.
In quell’Atlantico che vive, raggiungibile solo ai gabbiani, la ormai mitica città di Alcacer do Sal che ho lambito alcune volte e mai visto. Poco oltre, il paese blu, come dice Valeria.  Ad  Arralojos in quella  mattina di ottobre piove e la vecchina,  fuori della porta di casa sua, sulla via lastricata che sale al castello,  mi chiede cosa faccio li sotto la pioggia di autunno del loro Alentejo, solo, con due bambini che sembrano tanto piccoli sotto quei grandi ombrelli neri. “Mia moglie è rimasta a casa, non può lasciare il lavoro e allora sono venuto da solo con i figli,  eu gosto muito do Portugal, gosto muito do Alentejo”.  Lei mi dice: “Italiano, oggi ho visto il Papa in televisione, alla messa a Roma, oggi a Roma c’era un bel sole, non pioveva”. Arralojos: paese azzurro dice Valeria.
Qui in questo Portogallo ci sono due tipi di città, per via del colore con cui contornano le finestre e le porte: quelle azzurre e quelle gialle. Arralojos è azzurra. Pavia è gialla, con le strade di marmo chiaro e la cappella ricavata richiudendo con una porta di legno un grande dolmen.   Aviz sta sul cocuzzolo della collina, Alter do Chao e Crato corrono via tra i cavalli dell’esercito portoghese e il monastero fortezza, a Portalegre di domenica alle tre del pomeriggio non si trova già più da mangiare. Le più bella strada di Alentejo  è quella che da Santiago de Cacem va a Grandola sale e scende, curva improvvisa sopra i dossi di antica roccia, a destra e  avanti i sugheri e gli eucalipti, a sinistra i sugheri gli eucalipti e oltre l’oceano. Questi automobilisti portoghesi vanno piano, si fermano se vuoi attraversare le strisce pedonali, sembrano disciplinati e non accontentano le statistiche che vedono il Portogallo come il paese dell’Unione Europea più rischioso per gli incidenti stradali.
Elvas è una grande città a forma di stella, una città bianca dentro le sue mura in fronte alla Spagna, dove non riesci a prendere la multa per il divieto di sosta anche se te la meriti.   Fino alla Spagna solo il castello di Juromenga e, la oltre il confine di adesso, Olivença, da sempre portoghese,  ma da quasi duecento anni  rubata dai casigliani. Torniamo su Redondo e attraverso le montagne delle  Orse ad Estremoz: aristocratica e bianca, scintillante di marmo. Non siamo andati alla Capela da Nossa Senhora da Boa Nova a Terena, non mi sono dimenticato dei quella storia del 1300 ma i bimbi vorrebbero tornare in albergo.  L’Alentejo con i bambini è ancora più lento e arcaico, più lento di quanto scritto nei libri ed è ancora più consono alla nostra indole: stiamo lunghi pomeriggi in riva al mare o sulla riva del lago, o alla Pousada, a giocare a scacchi in fronte al camino acceso quando fuori già sale la nebbia dalla pianura. Non vediamo, non cerchiamo molti monumenti, forse parlo più di prima con le signore vestite di nero.
E si che la Capela da Nossa Senhora da Boa Nova meritava una deviazione in quanto simbolo  di un momento di pacificazione tra il Portogallo e La Castiglia:
Dom Dinis di Portogallo, il re lavoratore, ha costruito centinaia di castelli, ha istituito l’università a Lisboa, ha fatto piantare la pineta di Leira per il legno delle navi delle future scoperte, ha fatto numerose guerre con la Castiglia. Il 7 gennaio 1325 muore, gli succede a 34 anni Dom Afonso IV, che  instaurerà con il re di Castiglia Afonso XI (questi re si chiamano tutti con lo stesso nome) un rapporto di buon vicinato. Il 17 dicembre 1327 a Coimbra si firma un trattato di pace e addirittura di alleanza tra i due regni e con il regno di Aragona.  Quando il re di Castiglia, di appena 16 anni, ripudia Costança Manuel si creano le condizioni per un matrimonio con la figlia del re del Portogallo, Maria, e nel 1328 si celebrarono le nozze ad Alfaiates e si preparano nuovi contratti matrimoniali per intrecciare con più vigore la pace e l’alleanza. Ma già  nel 1333 iniziarono nuove crisi. Si complicò la buona riuscita del contratto di matrimonio tra Costança Manuel e Pedro il figlio del re del Portogallo. Afoso XI di Castiglia cambia idea non manda Costança oltre confine. Per alleviare la pesante carestia, la città di Lisboa organizzò la spedizione di una flotta fino in Sicilia per rifornirsi di grano, ma la flotta fu attaccata e  fatta prigioniera dai catalani, da sempre alleati della Castiglia. La misura fu colma quando Afonso IV di Portogallo seppe che il genero Afonso XI di Castiglia trattava male sua figlia Maria.
Un esercito portoghese comandato da Pedro,  fratello del re, (lo stesso nome del figlio del re)  entrò dunque in Galizia. Il re stesso, Afonso IV, assediò la città spagnola di Badajoz e la flotta portoghese, forte di venti galee e con una guarnigione di 2.000 uomini, devastò l’Andalusia.  I casigliani contrattaccarono e la guerra duro fino al 1338 fino a che non ci intromise il Papa Benedetto XIII.
Il nuovo trattato di pace fu siglato a Siviglia nel 1339: il re di Castiglia avrebbe trattato sua moglie Maria come doveva essere, avrebbe fatto condurre Costança Manuel in Portogallo per il matrimonio.  I portoghesi avrebbero aiutato i castigliani nella guerra contro Abul-Hacane sovrano del regno del Marocco e avrebbero permesso la vittoria sui mori nella battaglia di Salado del 28 ottobre 1340.
La chiesetta della Boa Nova di Terena non entra in questa storia fatta di re e figli e fratelli di re con lo stesso nome, fatta di contratti matrimoniali e di date ma entra nelle leggende che ancora si raccontano in Alentejo, costruite su un voto fatto alla Madonna sul bordo di un fiume e alla notizia di un avvenimento eccezionale giunta quando sul bordo di quel fiume si faceva la luce del giorno.
Maria, figlia di Dom Afonso IV re del  Portogallo e moglie di Afonso XI re di Castiglia va a chiedere al padre aiuto per il marito che è impegnato nella guerra contro i mori. Il re di Portogallo risiede a Evora e nel viaggio verso di lui, Maria si accampa sulla riva del fiume Lucefecit e manda dei messaggeri a chiedere un esercito in aiuto della Castiglia. Il re del Portogallo non ama il genero e nega l’aiuto richiesto. Ma in  un secondo  momento ci ripensa e manda  un suo vassallo, il Marchese di Redondo, ad annunciare la notizia alla figlia.
Il Marchese di Redondo cavalca tutta la notte e arriva sulle acque del fiume  che si stanno facendo le prime luci del giorno.
“Chi siete?
“ Sono il Marchese di Redondo, messaggero del signore Vostro padre re del Portogallo”
“E che siete venuto  a fare”
“Porto la buona notizia “a boa nova” che Vostro  padre ha ceduto alla Vostra richiesta e sta muovendo con l’esercito portoghese contro i Mori”.
Maria cosi fece costruire la Cappella li vicino a quel fiume che da quella mattina si chiama Lucefecit.
Tornando alla storia vera, quando Costança Manuel venne in Portogallo per sposare Pedro portò con se una dama di compagnia Ines de Castro. Ines divenne l’amante di Pedro contro il volere del padre,  ma questa è un’altra storia che ci porterà di sicuro nel Tras-os-Montes a Bragança e forse nell’ Estremadura ad Alcobaça.


A MOURA ENCANTADA

Cosa cerchi in Alentejo, è molte volte che ritorni in quella terra,  piccola e culturalmente costante, dal paesaggio abbastanza peculiare ma comunque piuttosto omogeneo. Per quanto tu la divida in nord, centro e sud è comunque come una piccola regione italiana e non ci sono che villaggi,  paesi, al massimo due piccole cittadine.
Sto inseguendo un sogno che è poi una metafora, una storia antica che vive in tanta parte del Portogallo del centro ma specialmente in quello del sud, una storia nata nella storia di questo paese, nato lui stesso dalla lotta di due culture, di tre culture, nato dalla lotta di tre religioni,  dalla vittoria di una sulle altre ma anche dall’ assimilazione, dalla compenetrazione e dalla rimanenza dei vinti nei vincitori. Sto inseguendo una leggenda che canta l’amore tra un cavaliere, un soldato, un nobile cristiano e una ragazza, una poetessa, una cantante, una musicista, una nobile allevata cristiana, ma con anima mora,
Sto cercando una ragazza dai capelli neri come la notte, come un manto di velluto, dagli occhi neri, caldi, profondi, incantati nel passato. Ha nel suo sguardo una tristezza assente fatta di saudade, di assenza di cose di cui non ricorda. La sua tristezza assente fa sì che il suo corpo sia come una spiga dorata, che il suo corpo sia  un desiderio doloroso per tutti quelli che la vedono e che la sentono suonare il liuto e cantare le sue canzoni. Chi incontra i suoi   occhi vede il suo passato e il passato della sua terra, si innamora della sua bellezza. Chi sente la sua voce si innamora della sua voce, a distanza di anni la ricorda vivida e pulsante nel cervello Si rimane permeati, si affoga in una sensazione calda, melodiosa e sensuale, in un caldo e languido abbraccio d’amore.
Per me in quella terra esiste una sirena che mi chiama e alla quale non so rinunciare. Non so a questo punto se é solo sulla carta, se è solo letteratura o se questa letteratura è diventata realtà e quindi bisogno di fissare su una ragazza vera il prototipo letterario della “Moura encantada”. Per questo raggiungo i villaggi più reconditi dell’Alentejo,  percorro gli spalti di tutti i castelli del Portogallo, quelli che guardano la Spagna e quelli che guardano l’oceano,  affino i sensi e ascolto il canto, il suono del liuto, un fremito nell’aria, una vibrazione di calore, un odore,  lei sarà lì.  Muitos cavaleiros por ali passassem, ela deixava-os ir e vir. continuava sentada no seu trono invísivel, sorrindo um sorriso longínquo, intocável, sempre.
“E anche se la trovassi, cosa le dici? La sposi, la rapisci?”
Non lo so la guardo e basta. Non credo di cercarla per me stesso ma per entrare in sintonia con lei e con quello che credo che rappresenti.
Sapere finalmente che ho trovato quello che cerco mi permetterà di chiudere un percorso circolare aperto magari  centinaia di anni fa al tempo della riconquista di queste terre da parte dei cristiani del nord contro i mori del sud, o magari un altro percorso iniziato nel 1700 con la partenza di persone da questi luoghi che potrebbe essere l’inizio della mia storia personale e che potrebbe essere interessante per la storia  di ciascuno di noi.   Lo sai che sono fissato con il completamento dei percorsi circolari, necessari e dovuti. Non vado per me, non è l’amore che cerco, non il lavoro,  il divertimento, o la vacanza, non è il denaro o la fortuna che cerco. Non vedo nitido il mio obiettivo, ma credo sia quello di ricollegare, addirittura collegare delle tracce dimenticate dalla storia, cancellate in questi graniti antichi o coperte di terra o di sabbia. Scovare,  magari solo percepire una discontinuità,  nella circolarità del normale, dell’abitudine, del solito. Nel punto dove il cerchio si completa, dove inizia o finisce, in cui possano abitare gli opposti, qualsiasi coppia di opposti, c’è sempre una discontinuità, e in queste discontinuità, a volte, si trova conservata, celata,  una via di uscita, una via di fuga, una porta.  Da dove, per dove non lo so ma ….
L’anticlinale di Estremoz è secondo me la più grande singolarità che riesco a conoscere in quella parte di Terra. Una singolarità geologica evidente che esce dalla terra come fosse la schiena ossuta di un simbionte di quella Terra che sta li quiescente. La stessa schiena ossuta di altri esseri che disposta sul fondo dell’oceano genera isole e vulcani. E’ detta Anticlinale di Estremoz ma taglia l’alto Alentejo dagli oliveti di Alandroal verso nord-ovest fino a Sousel, portando a giorno un filone di marmo del paleozoico molto puro, saccaroide, normalmente bianco o rosa chiaro  
Sul marmo di Estremoz esiste una storia molto particolare di un fossile strano che dovrebbe esserci lì dentro.  Uno stravagante geologo di Elvas, quando negli anni cinquanta era studente a Coimbra, girando per le cave di marmo del filone tra Borba e Vila Viçosa, in luoghi diversi, aveva trovato non so cosa dentro il marmo di Estremoz. Lui lo aveva chiamato “o peixe azul”.  Ma siccome erano  troppo strani sia il fossile che il geologo e lui stesso non conservò il fossile né seppe indicare il punto esatto dove lo aveva trovato, la notizia fece scalpore solo nelle cronache locali e non ebbe risalto negli ambienti della scienza ufficiale.
I pesci non si fossilizzano nel marmo, il marmo è una roccia metamorfica, se ci fosse stata una qualche materia organica  sarebbe stata cancellata da quell’evento. Il calore e la pressione che per lunghissimi tempi interessano le rocce metamorfiche, fugano da loro le tracce di vita, fanno sparire i pesci, le alghe, gli organismi monocellulari.
Ma nel gergo tecnico i “pesci” sono inclusioni di diversa composizione e genesi rispetto al calcare del marmo. Il pesce azzurro potrebbe essere uno scisto a glaucofane. Il glaucofane può essere azzurro, blu addirittura violetto. Ma questi pesci azzurri sarebbero stati formati da originarie lave basaltiche, sottoposte a un metamorfismo di altissima pressione e bassa termalità, lo stesso che forma le eclogiti. Un evento che si genera quando scompaiono vecchi oceani, si inabissano nella crosta terrestre stritolati dall’urto di due continenti.  Ecco che ricompare quello Alentejo già visto e pensato, quel mare, quell’oceano lunatico che prima si poteva vedere solo alla sera e alla mattina presto e qui appare attraverso la sua litica sembianza di arcaici pesci azzurri che guizzano stritolati tra lave a corde, cuscini beanti di basalto fuso, coltri di ceneri esplose da coni vulcanici gorgoglianti nell’acqua salata.
Il geologo pubblicò a sue spese un libricino in cui fantasticava una strana teoria che aveva più del romanzo che dello scientifico ma che aveva tutta l’aria di essere una singolarità al cubo. Il pesce, i pesci azzurri sono dei segni, disposti non casualmente nella regione, ma secondo un arco di cerchio, ad indicare una direzione, un flusso che avrebbe determinato la giacitura di questi segni. Non il flusso del campo elettromagnetico terrestre, o il flusso di correnti profonde o il flusso di deposizione delle torbiditi sul fondo dell’oceano, ma un flusso concentrato ed estremamente energetico, per le nostre odierne misure, di particelle subatomiche. Questo flusso, ristagnando, risuonando, accumulando energia spaventosa in minuti spazi avrebbe generato una modificazione nella materia formando i pesci azzurri.  Una storia che finirebbe per far pensare a una sorta di acceleratore di particelle del raggio di centinaia di chilometri, funzionante nel paleozoico iberico e all’avvenuta sintesi di elementi sconosciuti in un’aggregazione della materia diversa da quello che crediamo sia possibile.
Ma come svelare di nuovo questa storia che vola oltre la fisica, questa teoria? Le poche copie del libricino saranno  sedimentate chissà dove, a casa di gente interessata del tempo, ma il tempo è  passato sul loro interesse e su loro stessi, dove saranno ora? L’università ad Evora a quel tempo non funzionava, magari saranno in scuole tecniche, tecniche minerarie, nelle biblioteche dei paesi attorno  o magari ancora in alcune librerie di paese.
Magari troverò una piccola libreria in un paese isolato tra queste colline. E’ raro trovare aperte queste librerie, non si sa che orari abbiano. Sono sempre su strade con il pavimento sconnesso e in perenne ricostruzione, dietro vetrine dalle cornici di legno e porte di legno e vetro trasparente. Rovistando tra le pile di libretti pubblicati localmente magari troverei un’altra discontinuità tra fisica e metafisica. Magari il libraio, piccolino, con il basco in testa e gli occhialini tondi, proveniente dall’altra stanza, soffia via una folata di polvere da su un libricino grigio, sottile e inarcato dal tempo e ti viene incontro dicendo: “Senhor, o seu livrinho sobre a Carga de Cavalaria do Marques de Montemor-o-Novo” o  “Senhor o seu livrinho sobre o peixe azul no marmore de Estremoz”
Magari, altrove, per la campagna, troverò un sasso da portare a casa, solo un quarzo eroso dal tempo, lavorato dall’acqua, senza segni azzurri, da portare in tasca come un’antenna del metafisico.
Magari fermandoti al bar di Alandroal, mentre mangi da una ciotolina “polvo” condito con pezzettini di aglio e fili di cipolla, il padrone ti versa un vino bianco freddo, e filtrato dalla condensa che si forma sul bicchiere, vedrai malamente riflessa l’aura di quello che stai cercando. Il viso della ragazza e i suoi occhi neri, profondi sul passato, malinconici quasi dolorosi per l’assenza. Ti giri veloce e non la vedi più. Oltre lo specchio della porta, solo il cielo azzurro e le nuvole, solo la tua lunga assenza.
Magari dal parafulmine della Pousada castello di Flor de Rosa, la civetta, di notte, di fronte alla terra sconfinata e senza segni, ti indicherà un percorso probabile e plausibile.
Magari, solamente, ritroverò il bournuss di mio nonno che scappò da casa tanti anni fa.  Egli non portò nulla con sé, solo il suo bournuss marrone e null’altro. Non ha detto a nessuno dove perché andasse né dove andasse.  Magari,  ritroverò soltanto la cornamusa di mio nonno che scappò da casa tanti anni fa e anche lui non portò null’altro con sé che non fosse la cornamusa e il suo solido silenzio.
Magari troverò la kippà di mio nonno, fuggito dalla sua casa per andare nel vasto mondo, moltissimi anni fa, senza una parola, portando solo la sua chitarra e il suo canto malinconico.
Magari ritroverò le mie origini che siano luso-visigote, luso-more o luso-sefardite poco importa.


SCAPPO A  BRAGANZA

La Castiglia è molto interessante, seria, solitaria, ha dei colori arditi e  città sontuose, castelli e grandiose cattedrali gotiche, alberghi grandi e lussuosi,  magari in conventi del 500,  ma  il Portogallo è un’altra cosa. Madrid è tranquilla, tersa, con più quadri che amo di qualsiasi altra città al mondo, Avila è piena di cicogne, Segovia è una nave ferma al centro del mondo, il mudejar è una favola di ricami e di storia e di musica,  ma il Portogallo è un’altra cosa.
Scappiamo nel Tras os Montes, oltre Zamora una strada secondaria attraversa il planalto di scisti lucenti, costeggia il Tago lo attraversa una volta, un’altra volta e siamo nella terra de Miranda,  Miranda do Douro.  Siamo in un Portogallo di periferia, lontano da Lisboa, dall’oceano e dal fado, siamo in un Portogallo rurale, arcaico, quasi selvaggio, forse duro. Donne vestite di nero e ragazzi con il motorino con vecchi caschi che non coprono le orecchie e le cinghie di pelle. A Miranda do Douro anche la lingua è diversa il Mirandes è una via di mezzo tra il vecchio portoghese ed il vecchio leonese. Ma questa commistione di lingue non inganni.  La Spagna è sempre la prima nemica tanto che per vincere una battaglia anche il Meninho Deus (Gesù Bambino) si schiera dalla parte dei mirandesi e armato di spada e con il cilindro in testa li guida alla riscossa, sbaraglia gli assedianti e li ricaccia oltre il Douro.  Ora il Meninho Deus è dentro una teca di vetro nella cattedrale.  Oggi è vestito di giallo con la spada alla cintura e con il cilindro in testa (la cartolinha).  Ma domani forse avrà la camicia bianca e i pantaloni diversi e altre scarpe e un altro cappello: Gesù Bambino ha attorno a Lui  un guardaroba  di molti vestiti e scarpe e cappelli.  Vicino alla sua teca poi, un grande armadio di legno conterrà altri vestitini, cappelli e scarpe.
 
La cittadella di Bragança, dicono i libri,  è rimasta lì così com’era dal medioevo, e, dicono i libri,  il governo non fa toccare un mattone ai proprietari. Non so se è vero, non mi interessa, ma vista da fuori, da un punto che la puoi vedere tutta, le mura scure che circuiscono quelle poche case, il castello con la torre massiccia, la chiesa bianca asimmetrica con il campanile sul davanti, la domus municipalis e il grande  solitario albero sulla piazza, trasmettono una tale tenerezza che è perfino doloroso abbandonare quel luogo. Il ristorante Dom Fernando è nella cittadella, in una casa minuta: la sala da pranzo è al piano superiore sopra il bar, alle sette di sera qui si può già mangiare,  ci sono gli azulejos alle pareti e le finestre aperte da cui penetra l’aria e gli odori del mio Portogallo. Il padrone che è anche il cameriere ci parla lento, con musica e le vocali chiuse,  con una lingua dolce,  senza asprezze e spigoli, ci chiede se vogliamo un moscatel o un portinho da aperitivo, quasi mi viene da piangere.  Valeria è seduta vicino a me alla mia sinistra e mi dice piano. - Babbo qui mi trovo più a mio agio.- La cena è semplice: presunto a tocchetti intanto che aspettiamo. Arriva poi il piatto unico di lombo de porco con contorno di insalata e patate fritte. Il vino rosso non è colares chita ma non increspa affatto la mia serenità .  Fuori il sole è appena sceso sotto lo spessore delle colline. Questo sarebbe stato il momento migliore per vederci qui nella cittadella, essere ora la  e non qui, a volte la sindrome del marinaio di Pessoa ritorna, ora mi lambisce assieme all’aria e agli odori del mio Portogallo, entra dalle finestre aperte e rimbalza sugli azulejos

Scendendo dalla piazza della Sé, prima di risalire verso il la cittadella, si incontra la chiesa di S. Vicente.  Si racconta che in questa chiesa, forse nella costruzione precedente, quella presente oggi è del 1500,  si è celebrato in segreto il matrimonio tra Pedro  e Ines De Castro: si entra così in una storia singolare e macabra del Portogallo del XIV secolo.
Pedro è il figlio del re del Portogallo Afonso IV. Ha per amante, Ines de Castro, la dama di compagnia della moglie. La moglie era Costança Manuel, la donna che il re di Castiglia, Afonso XI aveva dato in moglie all’erede del trono portoghese in segno di pace tra i due paesi dopo lunga belligeranza.  Ma il padre di Pedro, ostacola la relazione del figlio con la nobildonna “straniera”, che era pur sempre una che veniva dall’altra parte. Non gli permette di sposarla nemmeno dopo la morte della moglie, anzi ordina di ucciderla. I sicari raggiungono Ines a Coimbra e la uccidono davanti ai suoi figli. Pedro, comunque, secondo la tradizione, l’aveva già sposata segretamente a Bragança, e quando, due anni dopo, alla morte del padre, diventa re, fa riesumare il cadavere di Ines, lo fa mettere sul trono della regina e costringe la nobiltà a rendere onore al cadavere.
Ora hanno la loro dimora definitiva nella chiesa di Alcobaça in Estremadura.  Giacciono, vicini,  entro due sepolcri di marmo.
Nel primo pomeriggio siamo di nuovo in viaggio verso la Spagna, la strada secondaria verso nord attraversa il confine: un nulla, solo una scritta al centro di dodici stelle gialle in un  cartello blu. La fuga a Bragança è durata  solo ventitré ore, torno ancora una volta via dal Portogallo senza delusione, con la mia idea rafforzata che il Portogallo è un’altra cosa,  Paola mi dice che le Pousadas portoghesi  sono più eleganti dei Paradores spagnoli, mi dice che il  Portogallo è un’altra cosa.


NOTTURNO URBANO

La notte modifica il paesaggio della città. Il minuto cromatismo reso dalla luce occidentale e atlantica non è più presente,  non si vedono più i tetti rossi e  le ampie terrazze degli alberghi cosmopoliti sul mare, non gli alberi e il loro verde, non quasi le strade e le case bianche che le delineano. I toni azzurri del Tejo e del cielo si stemperano nella notte antichissima e identica.

Vem noite antiquissima e identica,
Noite Rhaina nascita destronata,
Noite igual por dentro ao silenzio, Noite
Com as estrellas lantejoulas rapidas
No teu vestido franjado do infinito

Vem, vagamente,
Vem , lievemente
……..
Fernando Pesooa  -  Alvaro de Campos


Ma se la notte copre tutto e tutti e porta la tranquillità,  amplifica le ombre. Le ombre delle luci artificiali, dei lampioni stradali, dei fari delle auto che passano,  ma anche le ombre della mente e le ombre della memoria che possono trasalire come mai avrebbero fatto di giorno. Quindi se passi di giorno per le scale di  San Crispin non ci sarà nessun cane infuriato,  se ci passi di notte il cane è lì, magari mansueto ma presente. E’ di notte che incontri i fantasmi della tua storia o di quella che vorresti fosse la tua storia. In quelle ombre forse si coaguleranno quei circoli  di idee che ti rimangono dolorosamente in corpo senza posarsi nei luoghi dove passi di giorno. Quelle ombre sono forse il deposito necessario di parte di te. Quelle ombre sono il deposito necessario di parte di tutti. Nella notte, non rimanendo poi molto da vedere, si amplificano i rapporti tra le persone e magari ci si guarda di meno ma ci si parla di più, magari ci si parla addosso, con foga e tristezza, forse anche con cattiveria e violenza.  E’ necessario cercare questa Lisboa ? Magari poi ti accorgi che l’idillio che si era formato tra te la città e tra te e il Portogallo debba essere incrinato per un brutto incontro che ti sei cercato. D’altra parte non sarebbe credibile continuare sull’idea di una Lisboa e un Portogallo, sempre pittoreschi, gentili, civili, perfetti, come dentro i programmi televisivi. Dov’ è quindi il Portogallo delle statistiche del paese più sfigato della comunità europea, dov’é la città europea con il maggior numero di neri,  i “Pretogueses”, dove sono i venditori di “fumo” che tutti si ostinano a dire di avere incontrato a frotte per la rua Augusta e io non ho mai visto né sentito, dov’è il Portogallo con il maggior numero di incidenti stradali e sul lavoro dell’Europa? Quindi anche per perseguire una sorta di vaccinazione al peggio, che da sempre, dopo  che i miei sono andati a letto, esco per interminabili camminate a piedi.
Dovevamo starci solo una notte in quella pensione di Rua da Vitoria. Dall’altra volta è molto peggiorata e abbiamo deciso di non tornarci più. Sono rimaste tutte le bandiere che sventolano per la Rua Augusta, ma gli ambienti sono molto deteriorati e anche il servizio è scaduto. Sembra addirittura che i proprietari abbandonino la pensione a esaurirsi nel tempo senza investimenti, senza fare nulla. I prezzo è diminuito di molto rispetto a quello degli anni precedenti. E’ un peccato che vada in rovina un posto così, nel cuore della Baixa, cuore di Lisboa. Dalla camera che dà sulla Rua Augusta si può vedere e sentire la vita di tutta una giornata di quel pezzo di Lisboa: dall’arco di trionfo della Praça do Commercio sulla sinistra fino al Rossio a destra. Dall’alto della nostra finestra una folla di persone silenziose e vestite per la maggior parte in maniera dimessa, percorre incessantemente il lastricato bianco e nero della via. La folla silenziosa lambisce il suono costante e ripetitivo delle trombette dei molti venditori di biglietti della lotteria. La folla silenziosa passa rasentando il suono degli organetti dei vecchi addossati ai muri. Scavalca  i lustrascarpe con i loro banchetti di legno pieni di creme, stracci e spazzole. Supera i ciechi con le bende agli occhi e storpi, con le stampelle, senza una gamba, o senza un braccio che chiedono ad alta voce l’elemosina. Su questi suoni, il rumore del carriolo con le ruote metalliche fatte con cuscinetti a sfera, tratteggia il bianco e il nero del marmo e del basalto dei pietrini. Un uomo senza gambe gli è sopra e si spinge con le braccia, va verso l’arco e verso Praça do Comercio. Sopra il piano stradale, sopra le vetrine, si riflettono i bagliori delle finestre, chiuse dietro i condizionatori giapponesi, chiuse su uffici commerciali invisibili e insondabili, sopra ancora, abbaini e mansarde dai tetti spioventi e panni stesi, ancora improbabilmente stesi.
Da dove esce questa aspra presenza di zoppi e storpi di ogni genere, di ciechi e deformi, di bende sporche sfilacciate? Sembra quasi che le guerre coloniali siano lì ancora lì, non in Angola o Mozambico, ma lì, oltre l’aeroporto di Portela de Sacavem, che le mine antiuomo scoppino ancora sotto le scalette degli aerei della TAP.
Chi è questa umanità dimessa nel vestire e nello sguardo, questa umanità, che vista dall’alto, sembra schiacciata dal tempo, rassegnata al suo perenne fluire verso delle occupazioni, forse inutili e sempre lontane. Che impressione questa capitale europea  e questo centro di capitale europea vestito dai panni di una provincia lontana e lisa, una provincia che non ha cura di sé in questo passaggio di millennio,  altrove, sempre epocale.
E’ ora notte fonda, percorro solo la rua Augusta verso il Tejo, non c’è quasi più nessuno, non i rumori del giorno e del crepuscolo: le sedie e i tavoli dei bar all’aperto sono tutti ammucchiati e addossati ai muri, le serrande degli orafi chiuse, chiusi i negozi e le banche, solo davanti agli sportelli bancomat mucchi di tagliandi di carta abbandonati, all’incrocio con una strada laterale addossato ad un palco per le varie rappresentazioni estive un uomo logoro sta pisciando. Penso  comunque senza invidia alle città spagnole dei  sabati sera, dove queste scene sono ordinarissime, penso a Bordeaux, a Monpellier, a  Genova che è il regno delle pisciate notturne. Nei carrugi si radunano torme senza forma e colore di giovani direttamente sulle strade, bevono quantità impensabili di birra che tracima a bicchieri di plastica da finestre e pertugi illuminati, improbabili bar o antri che le torme chiamano pub. Addossati ai muri lasciano a decine e decine la loro orina e migliaia di bicchieri di plastica calpestati e rotti e bottiglie di vetro rotte per tutta la restante notte.
Raggiungo quasi l’incrocio con Rua da Conceiçao, l’immancabile squadra di operai sta riparando non so cosa con il rumore diesel del motore Kubota di un miniescavatore Bobcat. Alla fermata del 28 non c’è nessuno, non la solita quantità di turisti. Sull’electrico è già in atto una lite accesa: una signora nera, giovane, truccata troppo e in malo modo,  sta in piedi con le gambe aperte sul ballatoio dell’entrata, dalla sua minigonna di pelle strepita concitata con una  voce acuta, sgradevole e piena di odio verso un vecchio, seduto, avvolto in una larga giacca frusta e imbacuccato dentro un cappello a maglia di larga lana marrone. Il vecchio sta muto,  non fa nulla, guarda forse verso l’autista, forse si aspetta da lui un conforto. O forse quella canea non gli interessa, guarda vuoto avanti, forse oltre. Alla fine la nera si azzittisce, passa oltre il vecchio e si siede avanti. Io scendo al Largo das portas do So, vorrei raggiungere le scalinate sopra la chiesa di S. Miguel, trovare magari un posto da dove vedere il Tejo. Percorro verso il basso la rua de Araujo, mi introduco verso sinistra in un vicolo, e all’improvviso, scendendo dei rapidi gradini, voltato uno stretto andito, il percorso mi é quasi precluso da un archetto bianco tirato a calce,  rotondo, sormontato da coppi rossi. Sotto quel piccolo arco il riflesso della luna si sfrangia piano sulla  superficie densa e scura dell’acqua. Tra la linea verticale del campanile di San Miguel e una alta, esile palma, il suo lucore tremola tiepido sul Tejo. Sopra quel piccolo arco il circolo bianco della  luna, quella  vera,  sembra invece immobile sul cielo di Alfama.
Finalmente un momento idilliaco di pregnante contenuto estetico e ad alto valore aggiunto dopo una serata non proprio esteticamente centrata. E quello che è più singolare è che lo abbia raggiunto in Alfama, di notte, dove secondo le guide scritte non si dovrebbe andare. La serata era cominciata con il tassinaro che ci ha portato dall’aeroporto alla pensione in Rua da Vitoria. Andando via in fretta si è “sbagliato” a darci il resto.

Dalla pensione di Rua de Santa Marta di giorno si vede l’ospedale di fronte, la facciata moderna nasconde all’interno splendidi azulejos fatti costruire dalla regina affinché gli orfani e i trovatelli del XVII secolo li ammirassero. Dalle finestre della nostra stanza si vedono le aule della Universidade Luis de Camoes e la gente che ci sta dentro. Si sentono i rumori delle rotaie dell’elettrico che gira metallicamente stridendo entro la curva della strada laggiù a sinistra. Per questa notte seguirò lo stridore delle rotaie dell’elettrico su per la salita da rua do Conde do Redondo e per la Rua Lucano Cordeiro. Più in  alto il rumore familiare non ti fa più compagnia, l’electrico se ne va per altre strade e ti lascia solo con i tuoi passi elastici e le tue scarpe gialle. Le strade diventano anonime, i palazzi  risultano ora molto alti e senza azulejos. La via si allarga ogni tanto in esigue e spente piazze con sporadici e magri alberelli: parcheggi di automobili  e di troppo evidenti bionde che lampeggiano nella notte attraverso i loro immensi e bianchissimi seni e dalle loro infinite e arditissime  gambe. Più in alto compatti muri dividono  i vasti e silenti  ospedali cittadini da altrettanto laconiche e solitarie vie, deserte e interminabili fino a Campo Martires da Patria dove il traffico delle automobili e di alcune persone, l’erba e gli alberi rendono più vivo quel luogo. Attraverso senza storia e senza memoria altre vie e altri ospedali, quasi mi perdo attorno alla Gomes Freire. Raggiungo il conosciuto Martin Moniz., senza tutti gli zampilli che la rallegrano di giorno,  bolino in lenta risalita per i vecchi e familiari luoghi: Figueira, il Rossio, Rua de Porta de S. Antao e Avenida da Libertadade fino alla rua de santa Marta
Evora è quieta sotto l’acquedotto che gli entra sopra le case e in piazza del teatro con i parcheggi di biciclette la percorro strada per strada, dal centro verso la cinta muraria: seguo l’acquedotto che protegge, quasi nasconde dai curiosi le casette sotto le sue arcate, in piazza del teatro il parcheggio delle biciclette sembra dissonante.
A Bragança, dalle parti della Sé due giovani mi stanno dietro, sono abbastanza poco eleganti nel vestire e nei movimenti, si distinguono anche per la poca eleganza nel parlare, mi sono dietro, mi raggiungono, si rivolgono a me con tono tra il concitato e lo scherzo, con voce strascicata e impastata di saliva :
“Fumo ,  hascish??”
Dico: “Non capisco quello che mi state dicendo, non parlo portoghese”
“Perché non capisci quello che diciamo, perché non parli portoghese”
“Non sono portoghese sono italiano”
“Ha italiano?!!!  Ragazza. Bella puttana!!!
E se ne vanno via, senza alcuna eleganza, come erano venuti.

ISOLE

Non siamo isole, non siamo soli nel mondo ma la solitudine mi interessa. Le isole mi affascinano. Appartengono ad uno spazio aperto, l’oceano, e lo rendono vivibile, lo rendono visibile, osservabile. Le isole sono il completamento dell’oceano che sennò sarebbe il nulla, il deserto. Sono discontinuità sensibili e competenti. Luoghi eletti dove si focalizzano singolarità geografiche, geologiche, biologiche, storiche e culturali.  I coni vulcanici delle dorsali medio oceaniche o degli Hot Spot sono luoghi simbolo di una percezione metaortodossa della realtà: i loro coni di basalto, la loro lava luminosa e viva, i loro fremiti intermittenti li rendono degli esseri viventi.  Le loro caldere circolari, chiuse da laghi variamente azzurri e verdi, sono degli occhi attenti al lontano, al metafisico, antenne  circolari, ponti tra il dentro e il fuori, tra  passato e il futuro.
Mi hanno sempre interessato le isole dell’Atlantico aperto: serie, quasi arcigne e inospitali e per questo più selettive verso i loro ospiti. Sanno di mare senza sapere di crema solare, non sono intrappolate da inutili barriere coralline e dal sole sempre splendente e costante.  Le loro storie sono interessanti, meno ripetibili di qualsiasi altro luogo.
Tristan da Cunha con la sua stravagante comunità derivante dall’esercito inglese,  da pirati, da ragazzine bianche del Sudafrica e da marinai italiani.
Ghough di cui parlava spesso il mio professore di vulcanologia all’università, non mi ricordo a che proposito, ma l’idea di Ghough mi è rimasta nella mente appunto come un’isola, lontana, quasi irraggiungibile .
Le isole di S. Pedro e S. Pablo e le isole da Trinidade e Martim Vaz, qualcuno le chiama scogli:  infinitesime rocce affogate nelle calure equatoriali e tropicali  tra il Brasile e l’Africa, tra mare e cielo, irraggiungibili alla gente normale
La Georgia del sud e le Sandwich Australi, addossate dai venti così appresso all’Antartide che sono accessibili solo alle balene e a qualche soldato della marina inglese.
L’isola Bouvet, alla deriva verso sud-est che è ormai in odore di Oceano Indiano.
S. Elena e la casa di Napoleone. L’isola dell’Ascensione e le Isole di Cabo Verde: brandelli di vita europea ritrovatisi per caso su frammenti di roccia lontani su cui sono attecchite delle genie e culture originali.
L’Islanda dove la nostra Terra,  mostra le sue interora beanti.
Madeira, scheggia impazzita di armonia tropicale lanciata sul nero oceano; disco traslucido e barocco di roccia aspra, immatura alla deriva sui morbidi, umorali e antichi verdi.
Le Azzorre, come dice Daniele,
     Nove isole,
     nove angoli di paradiso,
     in una distesa di liquido  azzurro;
     nove balene emerse dal mare.

Geppo era un “Guardatore  di Oceani. Nessuno lo pagava per quel lavoro che faceva con molto scrupolo.  Si metteva davanti all’Oceano in piedi e rimaneva fisso  per ore, per giorni e giorni. Guardavo ogni singolo movimento dell’Oceano: le onde, la marea, le correnti; ma anche gli esseri dell’Oceano: i pesci, le balene, i delfini e i gabbiani. Rimaneva lì come un pezzo di basalto o di granito.
A volte sembrava che volasse come un gabbiano, fino a sopra le isole e i vulcani, a volte sembrava che guizzasse fuori dall’acqua come un delfino, a volte ancora, sembrava che si muovesse placido come una balena su e giù per l’Oceano dal Polo Sud al Polo Nord.
Non era vero. Rimaneva sempre lì, fermo sulla lava come un pezzo di basalto o di granito. Per il suo lavoro era stato spesso in riva dell’Oceano Atlantico. Sulle scogliere del Munster in Irlanda, sopra i graniti dei fiordi norvegesi, a  Point du Raz e sulla punta a sud-ovest dalla penisola di Quiberon in Bretagna, a Cabo Finisterre in Galizia, a Cabo da Rocha, a Cabo de Sao Vicente in Portogallo. Preferiva comunque le isole, perché intorno alle isole c’è più Oceano da guardare. Lo vedevano, magari nello stesso tempo, chi su un’isola chi su un’altra, tra Tristan da Cunha e Flores e addirittura in un’isola, ora scomparsa, tra le Azzorre e l’Islanda.
Ora, da molto, molto tempo  il Guardatore di Oceani, non si vede più. Ma una leggenda dell’isola di Pico racconta che sui punti più remoti delle isole, sui promontori impervi che si prolungano nell’Oceano ci sono a volte delle grandi rocce misteriose. Ebbene quelle non sono delle rocce misteriose ma il Guardatore di Oceani che continua a fare il suo lavoro per sempre.


MADEIRA

Il primo Portogallo fuori del Portogallo é Madeira. Primo nello spazio, che é solo 900 chilometri a sud-ovest di Lisboa nell’Oceano Atlantico. Primo nel tempo, che  Zarco ci arrivò fin dal 1419, con la sua caravella da Belem. Anche per me l’isola del legno é il primo Portogallo fuori del Portogallo, la prima terra della saudade oltre l’Estremadura e il Cabo da Roca. Oltre ci saranno i vulcani fioriti di ortensie blu,  popolati da laghi rotondi e dagli astori, oltre ci saranno le isole dei balenieri e dei poeti. Ancora oltre, al di là dell’Oceano, le terre dei neri d’Africa e la grande terra del legno da brace, il Brazil. Si dice che per poter vivere di agricoltura sull’isola, la fecero bruciare  per sette anni di seguito. Si dice che vi portarono la canna da zucchero dall’oriente e dalla Sicilia, la vite da Creta e Cipro e piantarono queste essenze sul fertile suolo che le piogge tropicali  prepararono  dalle aspre e scoscese trachiti. L’isola é la cima acuminata di un vulcano che si erge dal fondo di basalto dell’oceano per 4000 metri e supera il pelo dell’acqua, senza modificare la sua pendenza,  di altri 1800 metri.  Non ci sono pianure e anche quei pochi metri quadrati in piano dove vengono coltivate le banane ed il resto sono stati costruiti dagli uomini. Ogni parete é stata terrazzata dai caparbi coloni che vi giunsero dalle loro secche terre. Non gli sembrò vero di abitare finalmente in una terra ricca di acqua e con una temperatura costante per tutto l’anno.
Ora non vengono più i coloni e non sono affatto caparbi i turisti delle fredde terre d’Europa. Ora non si viene più con le piccole caravelle ma con gli aerei, con i piccoli aerei simili alle caravelle, che possono atterrare nel piccolo aeroporto di Santa.Cruz. La pista inizia sul mare sorretta da piloni di cemento e finisce nel mare correndo sul bordo del mare. Perfino i piccoli 737 sono costretti a delle frenate estreme per non cadere in acqua.  Ai norvegesi o finlandesi o svedesi o inglesi  non sembra vero di ritrovare uno spazio  privo di ghiaccio, neve, nebbia. Arrivano qui a grappoli. Non sono mai giovani e girano l’isola con le macchine giapponesi a noleggio e i loro assurdi calzoni corti e le scarpe bianche.
Alla sera  la spiaggia nera di Machico si anima della tenue, fluida e leggera musica del sassofono di Kenny G. Ormai ho associato questa musica  all’isola di Madeira. Non hanno alcuna attinenza storica o culturale quel ragazzone riccio nordamericano con il sassofono soprano e questa terra; né la sua musica barocca con la linearità dell’oceano e le asperità vulcaniche delle rocce di qui.  Ma questa musica mi ha accolto la prima sera a Funchal. Questa musica si sente per tutto il giorno in tutte le strade del centro di Funchal.
La spiaggia nera di Machico è l’unica degna di tale nome in tutta l’isola. La sabbia percorre un litorale arcuato e stretto chiuso dai capanni di legno e oltre,  dal forte pitturato di giallo e dalle case bianche. Alla sera l’oceano di fronte a Machico si placa, diventa liscio e le sue onde lunghe fanno da base mobile alle isole Deserta e Selvaggia.  Le bianche case che punteggiano le scoscese pareti, nella luce del tramonto diventano sfolgoranti,  quasi rispecchiano il sole in centinaia di luci che diventano delle altrettante stelline con i loro raggi.

La spiaggia di S. Madalena do mar è stretta, irta di massi arrotondati delle onde. L’oceano la percuote con violenza, la schiuma vortica attorno ai massi quando ritorna nel mare, a volte onde ancora più grandi ci raggiungono con i loro spruzzi, tutta la costa è immersa in una nebbia di sale. Lì sotto i bimbi saltano da un masso all’altro, evitano gli spruzzi quasi sempre:  attendono l’onda scrutando attenti il mare, all’arrivo dell’acqua scappano dal mare, corrono verso la terra. Ritornano seguendo la risacca a scrutare attenti il mare. Chissà se vedono la terra oltre l’oceano? Penso che la prima terra oltre questo oceano è il Brasile. Ma il Brasile è laggiù, molto lontano e il loro punto di osservazione è anche più in basso del mio.

Porto Moniz non ha la spiaggia. La lava precipita sul mare con un salto verticale. Sembra che la costa si sia formata ieri, che la lava ancora fluida si sia raffreddata nel mare e si sia solidificata con queste forme bizzarre e aguzze, con questi migliaia di pertugi e anfratti che volentieri diventano delle grandi vasche dove l’acqua del mare si riscalda al sole. L’acqua arriva quando le onde riescono a superare la falesia, bloccata dalle rocce non riesce a tornare in mare ed accoglie il calore del sole. L’acqua di queste piscine naturali è ad una temperatura più elevata di quella del mare che oggi strepita e schiuma dieci metri più in basso e più in là. Oggi è il tre di gennaio. Preferisco pensare che il calore di queste piscine sia ancora quello del nero basalto che si sta raffreddando,  nuoto con gli occhi chiusi e mi muovo lento all’indietro, dentro la storia della roccia e di quella terra e della nostra Terra. Mi muovo con gli occhi chiusi, dentro quell’acqua.  Sono solo con il basalto e l’acqua, mi ritrovo un essere vivente assoluto: cieco, sordo, antico, arcaico, sensibile solo a quest’acqua calda e alla roccia calda e ruvida.
Anche i bimbi vogliono fare il bagno nell’acqua dell’oceano.  Per ritornare a Porto Moniz, questa volta percorriamo la strada interna. Dalla carta sembrava che quella zona interna della parte occidentale dell’isola fosse un altopiano e un colore diverso sembrava marcare un bordo a questo altopiano. Con il mio pensiero arcaico ho pensato che quella parte fosse occupata dalla caldera del vulcano che  aveva costruito tutta l’isola appena ieri mattina. Credevo che sulla sommità  ci  fossero ancora laghi di lava liquida e colonne di fumo e  torrenti di fuoco e vapori acri gialli e azzurri e guizzi elettrici di luce. Invece la realtà presenta solo l’altopiano.  Non c’è nessuna caldera. Non laghi di lava né guizzi di fuoco e rocce contorte, ma solo esili laghetti di acqua azzurra e fredda, una vegetazione bassa e caparbia che abbarbica il suo stentato  verde al terreno ghiaioso per non sentirsi strappata e trasportata da quel vento freddo, non forte ma costante e caparbio, perenne.  Il  paesaggio è comunque singolare: piatto, rotondo e traslucido, reso opaco dal vento. Sospeso sul mare che brilla tutt’attorno, un disco di piatta terra densa,  straniera sopra quel mare  azzurro, cristallino  e luminoso.  Visto da quassù il nostro furgoncino giapponese bianco che lo attraversa per quell’unica strada proprio nel mezzo, da est a ovest, sembra assurdo, una scheggia di quello stesso paesaggio che casualmente lo percorre in linea retta e raggiunto il bordo con quella velocità costante, precipiterà di sotto, forse fino dentro il mare. Visti da quassù, noi stessi dentro quella macchina risultiamo, inutili particelle di quel paesaggio che casualmente verranno perse.  Da dentro il furgoncino intanto scorrono altri particolari che esaltano quella situazione inverosimile. La strada, per evitare una debole salita,  ha tagliato nel terreno una recente trincea beante di una roccia rossa e lucida, come sangue non più liquido. Sopra un ampio dosso, slanciati e argentei, dei mulini a vento fanno vorticare le loro eliche sottili e lucide. Sono quelle strutture di metallo il motore del disco di paesaggio. Le eliche spingono nello spazio, sopra il mare, tutto quello strano, rotondo, assurdo paesaggio, quella zattera di roccia . Noi sopra,  viaggiamo inutili e inconsapevoli.

Non volevamo fermarci a quel miradouro, sarebbe stato un’ennesima sosta sopra un colle dal quale avremmo visto il mare sotto. Ma quel luogo sembrava diverso, non eravamo vicini al mare ma bene incassati in una valle che scende dal pico Arreiro verso nord e giunta nei pressi della costa si divide in due rami lasciando al centro, proprio di fronte all’oceano, una montagna a forma di panettone di roccia ed erba. A metà strada della sua corsa la valle presenta un esile rilievo, un colle erboso sul quale stiamo ora salendo. In cima al colle, un muretto contiene il cimitero deserto e fiorito e un'unica piccola casa circondata da viti e un solo grande albero di Stelle di Natale. Non entro nel cimitero, non mi sembra gentile andare a curiosare nella storia personale di questo paese, non conosco nessuno di questa gente. La casa è semplice, quasi disegnata da un bambino, ad un unico piano, con una porta al centro e due finestre ai lati di essa, il tetto aguzzo  a due spioventi e da una parte il camino.  E’ bianca, pitturata a calce, solo attorno alla porta e alle finestre una cornice di roccia vulcanica scura attenua la sua luce viva, il rosso forte e sfavillante delle tegole riaccende la forza del colore. Le viti crescono tutt’attorno, escono dalla terra  accostate al muro e salgono segnando appena il bianco vivo delle pareti e raggiunto il tetto si saldano quasi a trattenere quella piccola costruzione come un piccolo uccello in un nido. Oltre il muretto il paesaggio fluisce con decisione attraverso i sensi. Non esplode, invade con la sua presenza costante e morbida. Non ci sono discontinuità nelle linee sinuose delle colline. Verso la montagna il verde intenso e smeraldino ricopre tutto lo spazio possibile. Le esili presenze delle strade collegano teorie di case bianche  e villaggi bianchi. In ognuno di essi risaltano solo gli aguzzi campanili delle chiese, bianchi, bordati appena dalla scura roccia vulcanica. Scendono, appena percettibili nel loro debole e micrico sfavillio azzurro, due torrenti. Percorrono  le due valli fino sotto questo colle ed oltre fino al mare.  Il loro sfavillio attrae lo sguardo e l’attenzione dall’altra parte del mondo.  Qui lo spazio possibile è diviso dalla linea varia della costa:  in basso, per la maggior parte,  continua a vivere il verde  della terra, sopra si espandono gli azzurri del cielo e del mare.

Funchal di notte è più interessante. Di notte cessa il traffico di auto e persone, non ci sono più i turisti e anche i loro grandi alberghi scompaiono dietro le fronde delle immense palme e diventano dello stesso colore del monte. A notte fonda si spengono anche le luci del capodanno. Risaltano allora solo due castelli: Quello bianco, massiccio e barocco costruito sopra le case del centro e il forte giallo, sulla riva del mare in fondo alla Rua S. Maria. La via si interrompe con una grande catena di acciaio in una piazza sconnessa:  in fronte il portone del forte e le merlature e la bandiera portoghese verde e rossa che sventola sfilacciata in una debole bava di aria, sulla destra una scalinata e le barche arenate sulla spiaggia sassosa. Si può percorrere lo stretto andito tra il forte e il mare. Da questa parte il muro fa risaltare delle garitte e delle torrette rotonde che si protendono verso l’esterno. Il colore del muro di in giallo sabbia del deserto africano, la sua consistenza tenera e granulare e scrostata, la solitudine di quella situazione mi trasporta nei tanti forti portoghesi, uguali a questo, sparsi nelle coste d’Africa: Ohuidha, Mombasa e oltre a Goa, Malacca, Ceylon  in Oriente, in America.  Dentro le torrette i soldati con la loro divisa troppo pesante per quei climi: di stoffa blu con  le cinture portagiberne bianche incrociate sul petto, il cappello alto con la visiera nera lucida,  e il pesante fucile e la baionetta.

INCONTRI ALLE AZZORRE

A chi ti domanda dove sei stato o dove andrai o dove vorresti andare, non dire alle Azzorre. Sembrerebbero dei luoghi come le Maldive o le Seychelles. Sembrerebbero delle isole con le palme inclinate su spiagge di sabbia bianca, con noci di cocco che galleggiano sul mare, con ragazze dalle gonne corte di foglie e fiori sui capelli. Forse penseranno alla barriera corallina e ai pesci colorati che nuotano nell’acqua calda e cristallina.
Alle Azzorre invece la sabbia è nera e le donne hanno i vestiti neri e lunghi. Ci sono le balene, le ortensie blu e le vigne aspre e selvatiche, i vulcani, i poeti tristi e chi fugge dall’Europa e dall’America. A chi ti domanda dove sei stato o dove andrai o dove vorresti andare, rispondi in Portogallo perché nelle Azzorre la gente, tranquilla, parla portoghese. Le Azzorre sono isole portoghesi che stanno nel “mar salgado”.
La stesse isole potrebbero essere pensate come un mostro acciambellato, che dorme nel fondo dell’oceano e che fa risaltare solo nove vertebre ossute del suo scheletro. Il vulcano e la lava, antichi costruttori di tutte queste isole non sono ancora sopiti nel nulla ma mandano i loro arcaici segnali. Il mostro di basalto si sveglia a volte e soffia ancora il suo fuoco e i suoi gas con sbuffi e pennacchi bianchi e sulfurei, riscalda i laghi dei crateri vulcanici, fa scaturire l’acqua aspra, acida e gassata. A volte si scrolla di dosso l’oceano, scuote la terra e distrugge le case dei paesi e i fari sulle coste, costruisce nuove isole e montagne, riempie di cenere grigia intere pianure. Il mostro di basalto è lì sul fondo a proteggere chi sa quale porta segreta, per chissà quale regno e ancora è pronto a serbare i suoi segreti dai curiosi che si avventurano fin  là.
Queste isole sono incontri con il passato, incontri con oggetti e con personaggi che sembrano di oggi ma sono del passato, in queste isole vivono ancora le attività, le storie di  uomini di ieri che si trasfigurano in attività, storie e uomini di oggi.
A Horta non ci sono più le sedi delle grandi compagnie  telefoniche che stendevano i cavi dall’Europa all’America, non ci sono più i tecnici tedeschi o americani, ma quelle sedi rivivono come accoglienti alberghi e ospitano gli americani e i tedeschi.
A Faial non fanno più tappa i clipper che attraversano l’oceano, non atterrano più gli idrovolanti sulla linea transatlantica, ma il  porto di Horta è pieno di barche a vela che vengono dall’America  e vanno in Francia o in Inghilterra o in Norvegia. I marinai di ieri si fermavano alle taverne di Porto Pim, i marinai  di oggi si fermano “al cafè sport di Peter”: vanno per bere un copo de gin, o per informarsi del tempo e del mare, lasciano i messaggi ad altri marinai che passeranno forse di lì su esili foglietti attaccati alla colonna del bar. Da Peter si ha l’impressione che questi marinai non abbiano l’internet per informarsi sul tempo, o non abbiano i telefoni satellitari o le altre tecniche moderne. Al Cafè Sport di Peter, se guardi trasognato le vecchie bandiere attaccate alle pareti, i mobili di vecchio legno, se solo ti sforzi un poco: vedi spuntare ai marinai folte barbe bianche e pipe arcaiche da nostromo, magari li vedi ad incidere con i loro stridenti  Laguiole o Opinel i denti delle balene, se fai caso alle voci oltre il brusio di fondo senti lente cantilene provenienti dal passato dei porti di S. Malo, da La Rochelle, da Nantucket.   Il fumo denso delle pipe si mescola all’odore  del grasso di grandi e rugginosi verricelli idraulici piuttosto che ai cromati e inossidabili winch americani, Il borbottio rauco e il fiato dei marinai si assimila agli spessi umori delle sanguinolente sentine piuttosto che all’odore fresco del cotone di Murphy & Nye.
Se solo ti fai prendere un poco  dal letterario, da Peter hai l’impressione di tornare indietro nel tempo per anni e anni, e allora vedi sui rugginosi ponti di ferro omacci barbuti che con grandi stivali ed enormi zagaglie sono immersi nella carne e nel sangue delle balene, vedi  sui  puzzolenti e scivolosi ponti di legno caldaie a carbone che sciolgono il grasso. E ancora più indietro, vedi su sottili e agili barche di legno uomini che remano veloci e silenziosi che rincorrono la balena, e uomini con il cappello di lana che dalla prua, scrutano l’orizzonte d’acqua con in mano ben bilanciato l’arpione della morte.
Da Faial e Pico ora non si va più alle balene per ucciderle ma da Faial e da Pico tutti i giorni, quando passano le balene, partono i battelli per andare alle balene.
Cha Preto

Cha Preto è un personaggio di Tabucchi, un corpulento e barbuto baleniere di Faial, uno dei più bravi dell’isola ad usare l’arpione, ancora attivo nel 1982. A Faial i balenieri non fanno solo i balenieri, quando non ci sono le balene sono contadini, pastori, muratori, carrettieri, preti. Quando la vedetta avvista la balena avverte la città con la campana e tutti i balenieri impegnati nelle altre attività si precipitano al porto e con le loro lunghe e strette lance a remi raggiungono l’animale, lo arpionano, lo uccidono e lo trascinano fino a terra. Ora la caccia alle balene non è più. Noi, comunque andiamo alle balene, non con la lancia a remi ma con un catamarano di plastica con due motori Yanmar. Il nostro Cha Preto non ha la barba e nemmeno è tanto grande. Lavora per Peter e porta i turisti a vedere le balene, quasi tutte le mattine alle otto e quasi tutti i pomeriggi alle quattro. Alle otto di mattina le balene vanno a mangiare in una zona al largo, verso occidente, tra le isole di Faial e Pico. Cha Preto è il comandante del “barco”,  Felipe sta al timone. Partiamo alle otto col tempo brutto e una leggera pioggia ma questo non è un problema di balenieri. Partiamo con un motore solo e con un motore solo raggiungiamo un punto tra Faial e Pico. Felipe accende anche il secondo motore per filare via veloci fino al punto di incontro con le balene, ma il motore non si accende. Prova di nuovo, Cha Preto apre il gavone del motore, salta di qua e di là, armeggia con un cacciavite, smonta dei pezzi, pulisce con la carta i tubicini di adduzione del gasolio ma il motore non parte. Dopo molti tentativi anche la batteria sta andando a  picco. Cha Preto si rivolge a tutti i passegeri,  Saremo stati una decina:  noi quattro ,  francesi e chissà chi altro. Annuncia, in inglese,  delle cose che io non capisco.  Mi guarda, sorride alla mia faccia ebete e mi dice in portoghese che il gasolio era probabilmente sporco, ha intasato irrimediabilmente il filtro e il motore non si accenderà più, siamo costretti a tornare in porto a Horta. Da Peter Cha Preto ci dice che si ripartirà nel pomeriggio. Ma nel pomeriggio non ripartiamo... Partiremo il giorno dopo, stavolta tutto funziona perfettamente. Raggiungiamo il luogo ma nessuna balena si fa trovare, giriamo per ore e ore di qua e di là ma riusciamo a vedere solo tanti delfini di almeno tre specie, secondo quello che ci dice Cha Preto: quelli con la banda gialla sul muso, quelli con il muso rincagnato e quelli che non mi ricordo più. Alla fine Daniele si sente male e la coppia di danesi gli dà una compressa per il mal di mare. Non c’erano ieri quei due ragazzi danesi giovani, marito e moglie, in cambio non c’erano più i francesi, di ieri rimanevano due signore portoghesi un poco grasse e con i pantaloni corti. I Danesi li avremmo incontrati di lì a qualche giorno a Lajes di Pico, sarebbero usciti col gommone da Lajes do Pico col gommone dei francesi e avrebbero visto, oltre agli stessi branchi di delfini,  un capodoglio maschio di 17-18 metri.
Noi invece avemmo incontrato le balene due estati più tardi. Questa volta Cha Preto sarebbe stato solo, avrebbe guidato un velocissimo gommone grigio che avrebbe battuto la superficie nera dell’oceano tanto da non lasciare nè il tempo né la voglia  di staccarsi dalla cima nemmeno per fare una unica foto o almeno riposarsi le braccia tese dallo sforzo.  Le balene sarebbero state tre: Baleie Sardinheire, una specie carnivora che mangia pesce, specialmente sardine. Queste balene normalmente stanno sul fondo, salgono  raramente in superficie e sono difficili da vedere. Due  grandi,  lunghe dai 15 ai 20 metri, una molto più piccola sarebbe stata sempre vicina alla stessa grande, forse una mamma con il suo piccolo. Daniele avrebbe udito  il soffio  e avvistato per primo la ricaduta dello sbuffo: una cascata di tre metri di acqua bianca e schiuma sull’acqua nera del mare.  Ci saremmo avvicinati col piccolo gommone fino ad alcuni metri dal loro dorso grigio ferro che scivolava sulla faccia dell’oceano, per tutta la lunghezza dal foro polmonare alla pinna lombare  tranquillo, maestosamente silenzioso e in assoluta pace con il luogo e anche con gli ospiti umani.  Le balene si accorgono degli uomini,  ma non si curano di loro. Viaggiano  su un’altra dimensione,  sono superiori, lente e silenziose, senza gli affanni degli umani, senza i loro piccoli problemi o bisogni o interessi, senza i loro piccoli tempi scanditi sulla terra. Le balene vengono lontane dal  tempo arcaico e senza tempo vanno nel nero mare fino a che il tempo ci sarà. Sono loro il tempo.  Sono loro che, senza tempo, insensibili agli stimoli dello spazio, vanno nel nero mare e mantengono il nostro tempo e permettono le nostre esistenze. Tornando indietro i delfini avrebbero rincorso il gommone, lo avrebbero superato, lo avrebbero quindi aspettato, gli  avrebbero inscenato avventate piroette davanti. Avrebbero giocato con il gommone e  con gli umani che lo abitavano. I delfini viaggiano sulle nostre stesse dimensioni, con i nostri tempi e le nostre casualità. Potrebbero essere uomini loro stessi, uomini di mare,  e anche loro come noi uomini di terra devono il loro tempo e la loro esistenza a quegli esseri superiori.
Penso con tristezza a chi non ha visto questo mare nero e non ha sentito  questa essenza primordiale del tempo e della vita di tutti, a chi magari per abitudine o storia personale o nazionale, ancora cerca di annullare il metronomo del proprio tempo. Penso con crescente tristezza a chi ancora uccide questi esseri superiori annullando così se stesso e gli altri.

A criança nao paga  (le corriere di Faial)

Nell’isola di Fayal le corriere, da Horta  ti portano dappertutto e i bambini non pagano. E’ anche per sentircelo dire di nuovo che per un po’ ci ostiniamo a chiedere quattro biglietti: due normali e “dos crianças”.
Alle 11.45 dalla  parte la corsa per la parte occidentale fino a percorrere meta del  periplo di tutta l’isola fino a Praia do Norte passando per Feteira, Castelo Branco, Ribeira Funda, Pedro Miguel. Passando vicino alla landa ancora desolata del vulcano Capelinho. Da Ribeira Funda a Cedros si può andare a piedi sull’asfalto deserto e appena bagnato dalla pioggia, oltre la strada muri di ortensie blu, mucche che ti guardano tranquille, mulini a vento di legno distrutti dal tempo. Da Ribeira Funda a Cedros, a piedi , incontri un sacco di gente. Il vecchio ci chiede da dove veniamo e si meraviglia perché se andiamo avanti di questo passo arriveremo alla Cidade che è già notte e ci recita come un rosario tutti i villaggi della costa che abbiamo attraversato prima in corriera poi a piedi e quelli che attraverseremo. Lo tranquillizziamo e gli diciamo che a Cedros prenderemo di nuovo la corriera fino ad Horta. Gli abitanti di qui chiamano Horta “A Cidade” la Città, non ha bisogno di nomi aggiunti, non ci si può sbagliare.  Un altro vecchietto ci incrocia mentre sta trottando a cavallo di un asinello con piante di mais, non si ferma ma rallenta e ci saluta, “boa tarde”.  E come se fosse tenuto a farlo ci dice che sta portando il “milho” alla sua mucca
Sempre alle 11,45 parte la corsa per la parte orientale dell’isola, fino a Cedros. Vogliamo andare a Cedros a salutare Maria Luisa che abita alla casa do Capitao. Non la troviamo, torniamo indietro a piedi per un tratto, raggiungiamo il mare, rimaniamo lì per un bel po’di tempo a guardare le onde che si muovono tre le rocce, tanto dobbiamo aspettare l’ultima corsa per tornare.
Le corriere per Flamengos sono più numerose ed alcune tornando fermano al giardino botanico. Noi andiamo a piedi  fino al giardino botanico a  “Falar portugues devaghinho” con il personale che sembrava aspettasse solo noi.
Alle 12,30 parte la corriera per la Praia Do Almoxarife, sale per strade di campagna fino a villaggi quasi perduti, viaggia piano, con le porte aperte. La musica della radio aleggia costante e calda sui pochi passeggeri, il mormorio del motore e il lento rollio ci cullano. Quasi lontani, assopiti crediamo di avvertire folate di odore da selva tropicale, siamo investiti da brandelli di vario verde, ad ogni nuova curva, da lontano ci raggiunge il blu del mare, senza sussulti come se lo sapessimo già. Ai villaggi l’autista suona, avverte del suo arrivo, ma è un suono familiare anche per noi, conosciuto da tanto. La gente sale, gente conosciuta: uomini con il cappello, donne con bambini piccoli, e ragazze. Vanno tutti alla Cidade, alla città. Horta non ha nome, non ha bisogno di avere un nome,  è già conosciuta. Finiti i villaggi precipitiamo per una ripida discesa tra il verde dei prati fino ad una piazzetta bordata da due bar-ristoranti, oltre il muretto dove sventolano le bandire blu, (come non ci potrebbero essere!), ecco la spiaggia di sabbia nera di Almoxarife. Il luogo è solitario, silenzioso,  in fondo si vede la chiesa bianca con i contorni delle finestre di lava nera e oltre, quasi sotto il promontorio di Espalmança, il campeggio. C’è poca gente sulla spiaggia e ancora meno nell’acqua freddissima, veramente tonificante dice Mario. Tengo i bimbi per mano, l’onda lunga e la risacca creano qualche problema a noi bagnanti mediterranei, addirittura adriatici. Arriva una piccola corriera, scendono una ventina di persone, tutti anziani, dalla chiarezza della pelle, dai capelli e dai loro portamenti sembrano norvegesi o svedesi, comunque più chiassosi dei portoghesi. Sulla spiaggia si spogliano nudi, “orrendu visu”, si gettano in acqua e  tra lazzi e schiamazzi sembrano strane papere in uno stagno troppo grande per loro. Escono, si vestono, salgono nella piccola corriera, saranno passati 30-35 minuti, se ne vanno. Gente sconosciuta, nessuno li ha visti. Chi erano? Cosa erano? Un rumore repentino e fastidioso, degli insetti, un errore di spazio e di tempo? Alla fine della giornata ritorniamo a piedi alla Cidade, su per l’erta salita un signore che accudisce i suoi maiali ci chiama, li lava con il tubo dell’acqua e gli dà mangiare. Dice ai bimbi che deve lavorare molto per tenerli puliti e sani e alla fine pronuncia le parole che saranno emblema di quella parte di giornata e di Faial: “O porco come muito”.
Una gita in barca a Corvo

Dal porto nuovo di Santa Cruz da Flores tutte le mattine parte la barca del Signor Antonio Menezes per l’isola di Corvo. Porta tutto quello che serve dagli elettrodomestici ai quaderni di scuola, ai gelati Algida che qui si chiamano “Ola” La barca del signor Antonio Menezes porta anche turisti: ci siamo noi quattro, un’anziana coppia di portoghesi che si riparano dal sole sotto un ombrello, una signora molto anziana dall’aspetto di un’europea non del sud, forse inglese, un uomo che accompagna sette signore, sembrano essere un gruppo organizzato, forse tedeschi o olandesi, un signore dall’età indefinibile più giovane che vecchio, con un’aria da “ragazzo matto” che ascolta una piccola radio colorata di giallo accostandosela all’orecchio.
La barca ci lascia tutti al molo dell’isola, si ritornerà indietro alle sedici. Corvo è piccolina, tutti andiamo alla caldera e tutti andiamo all’unico ristorante, per forza di cose ci conosciamo un po’. Corvo è veramente piccola e sola. E’ un luogo dove le cose sono cose uniche. Ha un solo paese con 396 abitanti,  una sola strada, un solo poliziotto, una solo bancomat inaugurato poi recentemente dal Presidente della Repubblica Jorge Sampaio.
E’ un sasso lanciato in mezzo all’oceano
Il “ragazzo matto” è canadese del Manitoba, è emigrato via dalle Azzorre tanti anni fa e ora è ritornato a fare il turista e a ritrovare gli amici
Maria Luisa non è inglese, è Suiça “svizzera di Damasco”. E molto espansiva e simpatica. Ora che il marito è morto passa molto del suo tempo a viaggiare e a volte torna a casa a Damasco, non nel cantone di Zurigo perché gli Svizzeri sono “troppo Svizzeri”. Parla molte lingue: il tedesco e il francese li ha imparati da piccola,  l’arabo dal marito, l’inglese, e poi lo spagnolo e l’italiano. A volte fa fatica e al posto di vocaboli italiani ci rifila sinonimi francesi o spagnoli, a volte si impunta e cerca la parola e poi te la dice. Ci chiede di quale Italia siamo.
“Siamo dell’Italia centrale, delle Marche”.
“Conosco quei posti, sono stata a  Pesaro al Rossini Opera Festival e a Iesi al Teatro Pergolesi”.
Cristoph è tedesco è fa la guida turistica e accompagna veramente sette zitelle tedesche alle Azzorre a fare trekking. Infatti loro tornano a piedi dalla caldera, la salita,  però,  l’hanno fatta con noi con il camioncino del tassinaro.
L’anziana coppia portoghese risulta essere di Porto, lui era professore di latino al liceo. Mi parla molto delle affinità tra le varie lingue neolatine specialmente tra il portoghese e l’italiano e tra queste due ed il Latino
Per l’autista del furgoncino siamo una ben strana associazione tra portoghesi, tedeschi, svizzeri, canadesi e italiani.


Estou falando com estos italianos

Siamo all’aerodromo di Graciosa un signore si avvicina e mi chiede “O Senhor fala portugues” io gli rispondo “parlo poco portoghese, sono Italiano”. Dice che lo sa, si era già accorto di noi. Mi chiede incuriosito perché una famiglia italiana, giovane come la nostra, con due bambini, va in vacanza alle Azzorre, che è un posto da vecchi e da Portoghesi. Gli dico che amo molto le Azzorre, che è la seconda volta che ci veniamo e che amiamo molto il Portogallo e ci siamo stati spesso. Lui mi racconta che è originario dell’Algarve, è uno del sud, chiacchierone, è venuto alle Azzorre per lavoro e si è  casado (sposato) con una  di Terceira molto più taciturna di lui. “Estou falando com estos italianos” urla per giustificarsi  alla moglie che lo guarda  dall’altra parte della stanza e gli fa fretta.  Jorge Fernando Leal Gonçalves  continua a parlare. Una figlia abita  a Graciosa, un’altra figlia è arrivata lì per le vacanze, loro sono venuti da Terceira per stare una settimana tutti insieme. Ha un fratello prete che è stato molto tempo a  Roma.  Il fratello gli ha insegnato anche un po’ di Italiano, ogni tanto legge anche Il Corriere della Sera e l’Osservatore Romano. E’ stato a Como, Verona, Roma, Firenze, Assisi e Venezia, gli piace molto l’Italia.

Manuela Cabral

Sono seduto molto avanti sull’aereo della SATA Società Azoreana Trasporto Aereo. L’elica nera gira minacciosamente e rumorosamente lì alla mia destra., troppo vicino alla mia faccia;  prendiamo spesso questo piccolo aereo ad elica.
Manuela Cabral è l’ssistente di volo capo, in verità sono solo in due, lei e una ragazza più giovane, Sandra, tiratissima, decisamente attraente, dai capelli che ondeggiano in sintonia con il passo veloce, preciso ed efficiente delle sue seducenti gambe. Manuela. é bionda con i capelli lisci, molto alta, gli occhi chiari molto grandi, un parlare caldo e suadente, dei modi gentili e con un’eleganza d’altri tempi. Riconosce Valeria le fa le feste, vuole sapere come è stata a Graciosa e alla fine dà a lei e a Daniele una cartolina con l’aereo con una dedica, la sua firma, quella di Sandra e dei due piloti di cui non so i nomi ma mi ricordo i baffi.

Jaime

E’ ora di partire, dobbiamo tornare a Lisboa. Siamo a Ponta Delgada nell’isola di S. Miguel ma non abbiamo il volo diretto, dobbiamo passare per Faial. Il viaggio pianificato è diventato un po’ complesso: prima in aereo da S. Miguel a Pico, quindi con il taxi dall’aeroporto a Madalena, il battello fino a Horta, ancora il taxi fino all’aeroporto di Faial e quindi a Lisboa. Gli orari sono abbastanza giusti, dovremmo riuscire perfino, a Horta, a fermarci per pranzo al Restaurante O Barao. Ma le Azzorre sono un posto più tranquillo e semplice e più lento di quanto era quel  programma pianificato di viaggio. All’aerodromo di Pico, non all’aeroporto di Pico,  non ci sono i taxi ad aspettare i passeggeri. Ognuno lo trova o perché s’era già messo d’accordo o perché lo ha cercato per telefono. Jaime sta portando due signori a Madalena e ci vede. Dice di aspettare lui che ritornerà presto. Non ci dobbiamo muovere di lì. Lui ritornerà presto.Siamo gli ultimi a lasciare l’aerodromo. Abbiamo perso il battello, ma è ancora molto presto per il prossimo e Jaime si offre di farci vedere l’isola. Ci porta a Cais e ci spiega con un fare da maestro tutte le cose, anche le più normali, nei dettagli: la fabbrica delle balene è chiusa, qui arrivano le navi da Lisboa, portano la farina, lo zucchero, là sulla collina il convento di frati ora è vuoto, non ci sono più frati, presto ci faranno un ospizio per anziani. Su per la salita verso l’altopiano sulla sinistra, la centrale termoelettrica che serve tutta l’isola, va a nafta, costa meno; da lì partono tre linee a tre fasi una per Cais, una per Lajes e una per Madalena.
Jaime è di Praia do Norte ma lì non ci sono tanti clienti e quindi va tutte le mattine all’aerodromo, ma anche lì non ci sono tanti clienti, solo quelli che arrivano con l’aereo da Ponta Delgada e devono andare  a Faial. Non è un taxita ricco come quelli di Horta o di Madalena. Ha quattro figli. Due figlie lavorano all’ospedale di Horta, una infermiera e l’altra inserviente, un  figlio fa il camionista in una ditta edile a Cais do Pico. Un nipote lavora dal francese a Lajes e porta i turisti a vedere le balene con il gommone. Dalla sommità dell’altopiano ci vorrebbe far vedere S. Jorge ma il tempo non è buono, è tutto coperto e non si vede nulla: “tappado”. Jaime è simpatico ma un po’ suonato continua a sbattermi la mano sulla coscia per richiamare la mia attenzione su qualcosa, e c’è sempre qualcosa a cui devo stare attento: agli eucalipti che servono per fare le case, alle mucche, alla strada dell’altopiano  che è nuova,  retta, perfettamente diritta  per 14 chilometri e blocca il volante con la mano e ride e guarda in giro, tanto la strada è diritta e non deve stare attento. Ride e a volte pare che si strozzi e questo ai bimbi fa molto ridere. Jaime si volta verso di loro, dietro nella macchina e ride, chiama Paola  e le fa notare ancora la strada retta sia dietro che avanti, talvolta sbaglia marcia e il povero motore sussulta, annaspa, talvolta tortura i pneumatici sulle buche e sui ciottoli di basalto, attraversa un incrocio contromano sotto lo strombazzamento di un altro tassista, lui non se ne cura,  gruccia le spalle e ride. Si allontana dalla strada asfaltata per un viottolo tormentato fino ad un laghetto rotondo, si ferma. Ci fa scendere e chiama con grande strepito le papere e le oche che nuotano nell’acqua. Ritorniamo nella strada asfaltata e retta, incontriamo delle mucche che non si degnano di spostarsi per far passare la macchina, allora Jaime abbassa il finestrino e le incita a spostarsi parlandone bonariamente e dando loro grandi pacche sulle cosce delle mucche. Jaime ci indica i misterios , le colate laviche, che a volta raggiungono il mare sia dalla parte di Lajes che dalla parte di Cais. Sono chiamate così perché per primi coloni che arrivarono su quest’isola erano misteriose queste lingue di territorio roccioso informe e senza vegetazione: forse emanazioni dell’inferno o del demonio.  Filiamo via veloci vicino al vulcano e al punto di partenza per andare a piedi fino alla cima. Muito peligroso ci avverte. La strada finalmente interrompe la sua rettitudine e inizia a scendere con curve verso il mare di Madalena, da questa parte di Pico ci sono le poche ortensie, poche ma di un viola acceso e strano. Chiedo il nome dei due scogli di fronte a Madalena a Jaime  ma con il mio portoghese  approssimato lui capisce che gli ho domandato il nome dell’isola grande e mi guarda stupito e con una voce in falsetto mi prende in giro. Ma quella è Faial o tonto! Gli scogli invece  non hanno nome sono scogli e basta, o come dice Tabucchi piccole balene azzurre che passeggiano alle Azzorre.

Maria Otilia Morais Evora

A Horta, sulla Rua Consul D’Habney, quasi in cima alla salita, a sinistra dopo la strada che conduce all’hotel Faial c’è la casa di Maria Otilia. La casa è piccola, bianca con le persiane verdi alle finestre le porte verdi bottiglia. Una porta di legno, sempre verde bottiglia conduce ad un giardinetto rinchiuso dentro un muro bianco.  Maria Otilia è anziana, minuta e gentile. Tiene i capelli raccolti dietro la testa con uno spillone di legno. Parla anche un po’ di francese, sembra una nostra vecchina di qualche anno fa. Al piano superiore ci ha preparato la camera che abiteremo per i prossimi dieci giorni. Nei letti aggiunti per i bambini ha messo la coperta celeste per Daniele e quella rosa nel lettino più piccolo per Valeria.


Donne Luso-visigote

“O voo esta atrasado”. Dovevamo partire da Flores  per Fayal alle 10.50 con l’aereo che arrivava direttamente da Ponta Delgada, sull’isola di San Miguel. L’aereo è arrivato in orario  ma  Il tempo su Fayal non è buono, pioggia e vento non permettono un atterraggio sicuro, l’aereo è quindi ripartito per Ponta Delgada. Sono le tre del pomeriggio e non si sa se si potrà partire, e quando, attendiamo sempre lo stesso aereo, per il secondo giro, se questa volta a Fayal c’è il tempo buono partiremo se no si rimanda tutto a domani. Le isole del gruppo occidentale delle Azzorre: Flores e Corvo rimangono spesso isolate per giorni per questo motivo, si aspetta il tempo buono per viaggiare, si rimane a Flores in attesa del tempo propizio per la traversata, ti sembra di ritornare un po’ ai navigatori oceanici del 1400. In inverno gli aerei non arrivano per intere settimane, l’aeroporto di Flores diviene, temporaneamente la tua casa,  i compagni di viaggio, il personale che lavora li, il poliziotto  dei conoscenti  con cui scambiare parole.  E poi si legge molto nell’aeroporto di Flores.
Isabel Gloria Pereira Nunes è di Aveiro,  ha i capelli scuri e gli occhi verdi, legge un libro italiano, in edizione italiana. E da un po’ che la osservo, mi incuriosisce il suo libro che non conosco. Mi interessa il suo volto: ha i capelli scuri, lisci, abbastanza corti e tirati all’indietro che gli  lasciano una alta  e chiara fronte e le orecchie scoperte con i lobi guarniti da una semplice perla incastonata. Le sottili sopracciglia nere, gli zigomi appena pronunciati e il naso lineare e sottile fino alla punta segnano i suoi occhi stranamente verdi propensi allo stupore. Rimanevano infine le labbra chiare e poco pronunciate a completare quel viso in cui credevo di aver scoperto la tipicità della donna luso-visigota. Il canone sarebbe stato completato dal collo sottile, dal corpo snello e dai seni, non generosi ma presenti e ben rotondi,  evidenziati dalla maglia nera , aderente che le lasciava scoperte tutte le braccia non abbronzate. La teoria avrebbe funzionato così:  nel nord del Portogallo ci sarebbero le donne Luso-visigote, nel sud il tipo “Moura encantada”.  Il confine lo pongo nel fiume Mondego quindi Isabel conforta la teoria.
Io ho in mano il Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares – Fernando Pessoa, anche lui in edizione italiana. Isabel si meraviglia che un italiano legga letteratura portoghese, e poi mi dice che Fernando Pessoa è abbastanza difficile anche per i portoghesi. Ha significati, reconditi, nascosti, difficili da districare tra i bagliori della sua personalissima filosofia e nella sua strana, assoluta solitudine. Anche la sua amica bionda con cui viaggia legge un libro italiano. La sua amica bionda non ha i tratti visigoti ne quelli lusitani. E’ polacca, viaggiano insieme e sono accomunate dall’interesse per la lingua italiana.
Isabel mi chiede qual’è il significato della parola italiana  “falegname”. Gli rispondo che è l’equivalente del termine portoghese “carpenteiro”. E lei di rimando, quasi illuminata in viso “come il padre di Gesù”. “Si, falegname, come il padre di Gesù”.  Anche questa volta, sto perdendo un’occasione per parlare il portoghese e per parlare di letteratura portoghese.
Mi tocca me parlare l’italiano come lo scorso anno alla Pousada di Catelo de Bode, dove ho dovuto accontentare la gentilissima e simpatica cameriera che amava molto la musicalità e la dolcezza della mia lingua italiana. Non  ricordo bene se avesse il classico viso luso-visigoto: le labbra erano più colorite, le sopraciglia, gli zigomi e il naso più presenti di quelli di Isabel. Tanto da rendergli una interessante bellezza, appena misteriosa e fatale. Maria Helena da Silva Antunes aveva gli occhi scuri, furbetti  e guizzanti e sicuramente, anche lei, i capelli neri, lisci e un ricciolo sbarazzino e giocoso sull’orecchio che la rendeva particolarmente frizzante e allegra in quella serata di ottobre. Eravamo i soli ospiti della Pousada quella sera. Ci sentivamo ospiti come non mai, quasi coccolati in esclusiva dalla compagnia e dalla eleganza di Maria Helena Ci sentivamo grati anche a  quella meravigliosa chanfana serrana, allo splendido vinho do Dao e ai rutilanti riflessi che emanava dal suo immenso bicchiere. Anche Daniele ricorda spesso quella chanfana serrana di Castelo de Bode.  Gli piacque molto “il capretto al vino rosso” come lo chiama lui con il suo fare compunto delle grandi occasioni, anche se il suo aspetto lo aveva dapprima fatto dubitare della sua scelta.
La chanfana è un piatto antico. Alcune leggende la fanno nascere al tempo in cui i mori abitavano la regione delle Beiras. Il trucco di cuocere una capra vecchia  nel vino li avrebbe forse allontanati, oppure, sempre per cacciare li invasori francesi al tempo delle guerre peninsulari, i Portoghesi avvelenarono l’acqua e per cuocere la capra non rimaneva che il vino.  Più tecnicamente il vino poteva essere un buon conservante per la carne da cuocere di li a pochi giorni, per alcune settimane o addirittura fino alla feste di Pascua
In un una terrina di argilla nera si mettano alcuni spicchi di aglio leggermente schiacciati con  cipolla tagliata a quarti, un rametto di prezzemolo, due foglie  di alloro. Si aggiunga la carne a pezzi, prima lavata e sfregata con il limone e quindi  temperata con sale, pepe e un po’ di peperone in polvere. Aggiungere un buon cucchiaio di strutto di maiale e una bocconata di olio di oliva. Coprire il tutto con un buon vino rosso e lasciare riposare. Il riposo è variabile ma comunque deve essere minimo di un giorno. La cottura sarà molto lenta in un forno a legna.
Alla fine della cena Maria Helena arriva con il Moscatel de Setubal senza che lo avessi chiesto, si era ricordata dalla sera precedente. Siamo all’apoteosi della Lusitanità, immerso nelle brume dell’Estremadura, tra i Capri e Castelli e laghi,  tra mori e camini fumanti di forni a legna. La voce di Isabel mi riporta alla nostra presente insularità oceanica. Mi dice “Lui si che è un buon lettore” e indica Daniele che sta quasi finendo di leggere il Circolo Pickwic di C. Dickens, un tomo di oltre mille pagine.  Lui riferirà poi che le ultime cento pagine sono solo di alberi genealogici e di altra lettura poco impegnativa, ma comunque all’aeroporto di Flores si legge molto.
Sono arrivate le cinque del pomeriggio. Maria do Céu Medeiros sta telefonando con il cellulare, parla e guarda verso di noi, sembra che parli di noi con la persona al di la del telefono. Maria do Céu Medeiros ha i capelli neri, non lisci, muove velocemente la testa mentre parla al telefono. Alla fine della conversazione, viene verso di noi e ci spiega che parlando con un suo parente di Horta questi gli aveva detto che stava aspettando, per mezzogiorno, da Flores una famiglia di italiani: padre, madre con due bambini, ma ancora  non era arrivato nessuno. E allora Maria do Céu Medeiros subito ci ha riconosciuto li all’aeroporto e ha tranquillizzato il signor Guilherme che saremmo arrivati prima o poi con il volo della SATA.. Chissà cosa ci fa riconoscere così precisamente come italiani anche se stiamo perfettamente zitti?

Guilherme Silveira de Oliveira

“O meu copo!!! O meu Copinho!!! Qui quebrou o meu copinho??? A menina quebrou o meu copihno???
Avevamo affittato l’appartamento di Guilherme per quei cinque giorni a Horta, Valeria aveva appena rotto un bicchiere. Aveva paura della sua reazione e io stavo mimando Guilherme che urlava e la cercava per tutta la casa col suo passo lento e pesante, su e giù per le scale e nel giardino interno.  Gulherme grande e grosso, con la pancia prominente contenuta nelle larghe bretelle, ha la voce roca e  aspra, e a Valeria non doveva essere sembrato a prima vista molto accessibile.  Invece anche questa volta siamo stati fortunati, nonostante avessi prenotato l’appartamento per telefono, dall’Italia,  senza sapere come fosse e dove fosse.
La casa di Guilherme è grande, in Rua de S. Joao, vicino alla Igreja Matriz, ha un grande portone di legno verde scuro, dall’alta parte della strada, oltre un basso muro bianco non altre case ma i prati che conducono nella parte alta di Horta. All’interno una scala in pietra conduce al piano superiore, ad un patio che da su  un prato interno, circondato da basse costruzioni, verdissimo delle piogge delle Azzorre, con comode sedie, un’altalena e altri giochi per i bambini costruiti in legno, un salice e i fili per stendere la biancheria.  La casa è  bianca, con le finestre di legno bianco a scacchi che si chiudono a ghigliottina come tutte in Portogallo, il tetto è rosso. Guilherme e la moglie sono gentilissimi, Valeria può stare tranquilla. Lui prima faceva l’engenheiro agrairo.  Ora è in pensione, i figli sono andati per conto loro e la casa è rimasta troppo grande per loro due soli e ci ha ricavato dei piccoli appartamenti


Mario

Mia moglie è di Horta, fa la maestra qui, alle scuole elementari. Adesso è con le sue colleghe che devono tornare a Lisboa. Con la fine della scuola le maestre con gli incarichi annuali qui a Faial ritornano alle loro case. Io sono qui con Vasco, mio figlio di 6 anni, quello la che corre con la bicicletta. Vivevo a Milano, facevo il tecnico di scena al teatro dell’Elfo. Sono venuto qui alle Azzorre dieci anni fa, per turismo, come voi.  Non sono più andato via. Non tornerei più in Italia, non tornerei più a Milano, troppa confusione, troppo traffico, la gente ha troppa fretta, e poi tornare a fare che. Abbiamo provato una volta con mia moglie ma ora non ci muoviamo più di qua. All’inizio non è stato facile. Ho fatto il pescatore, ho lavorato al porto, ora sono impiegato in una azienda commerciale, vado a lavorare a piedi,  parlo bene il portoghese, lo scrivo anche bene. Mia moglie ha avuto il posto di ruolo qui vicino a casa, prima certe volte doveva andare fino a S. Miguel. Ora aspettiamo il secondo figlio, sarà una bambina. Non sono fuggito, la non riuscivo a costruire nulla, qui sono riuscito a costruire una famiglia, quest’anno ci verrà a trovare anche mio fratello. Col nostro lavoro stiamo tranquilli, siamo stati persino negli Stati Uniti in vacanza. Non è per tutti così, questa è un isola abbastanza cara e qualcuno deve correre per arrivare alla fine del mese.
Rimanete fino ad agosto, nella prima settimana c’è la festa del mare è meravigliosa. Ci saranno feste, concerti, baracchini per le vie e le piazze dove si prepara il cibo, fuochi artificiali, le regate e tante barche a vela.  Poi verranno l’autunno e l’inverno ma il clima non sarà tanto diverso, dovremmo solo mettere una giacca leggera. D’inverno solo il mare è molto grosso, le onde spazzano tutta la Avenida Marginal e arrivano alle prime case, certe volte rimaniamo isolati che le navi non possono attraccare. Lo scorso inverno ci sono state delle onde di 60 metri che si sono abbattute ad Almoxarife. Horta è protetta dalla punta di Esplananca e dal monte della Guia. L’anno passato c’è stato il terremoto, abbiamo avuto otto morti.

Luìs Alberto Sousa Cardoso

L’oceano entra dalla bassa finestra del secondo piano del ristorante di Louis. L’onda, lenta e lontana si solleva senza rumore, il mare si gonfia ed entra presso di noi, se ne va quindi silenzioso, portando con se solo il rumore della grossa rena della spiaggia. Sono affascinato da questo mare, da questo Oceano Atlantico che si muove sulla costa nord dell’isola di S. Miguel. Penso con grandezza che da Ribeira Grande all’Islanda non c’è che questo mare, blu, quasi nero, che si muove e respira  lento. Siamo qui ad aspettare tra  azulejos di balene e capodogli, siamo venuti diverse volte, sappiamo come funziona e Luis ci riconosce.  Sotto ci sta preparando il suo pesce sulla griglia a carbone.
La prima volta che siamo venuti, due estati fa, dopo tanto peregrinare per trovare il ristorante, salivamo le scale per il secondo piano. Luis ci chiama con un abbastanza brusco “dove andate” e io candidamente “andiamo al ristorante” e lui di rimando “si ma dove andate, prima dovete scegliere il pesce!!! E allora scegliamo il pesce, ma non abbiamo esperienza di quei pesci giganti dell’Atlantico,  riconosco un lungo affusolato Irio ma Luis mi dice che non è buono per la brace, un Pargo grosso come una casa e quello va bene. Luis taglia corto, ci pensa lui a scegliere: prende i vari pesci dal bancone, li soppesa, li palpa, li muove con le mani ce li mostra, ci dice il nome e le singole particolarità:  uno è “bom”,  l’altro “gordo” e non mi ricordo ancora altro. Prepara per quattro, poi indicando con lo sguardo  Valeria e Daniele, ci ripensa  prepara per tre,  che tanto basta lo stesso e ci invita ad andare di sopra.
La prima volta è stata dura trovare il posto: molta gente non sapeva dove fosse il “restaurante Monte Verde”.  Domando ad un signore anziano seduto davanti alla porta della sua casa vicino al distributore di benzina ma è quasi muto, chiedo ad una signora giovane in piazza della chiesa che mi spiega tutto con dovizia di particolari e precise indicazioni che alla fine non me la sento di dirle che non avevo capito nulla. Alla faccia che mi picco di sapere il portoghese. Chiedo ad una coppia anziana che sul marciapiede di fronte al porticciolo armeggiano con una rete da pesca ma non lo sanno. Incomincio a disperare di trovarlo, i bimbi vorrebbero andare da un’altra parte perché hanno molta fame, inizia a fare scuro. Chiedo a dei ragazzi ad un incrocio fuori paese e uno di loro mi batte sulla spalla “Bom, Bom, peixe fresco, bom” Siamo praticamente arrivati.

Mary Fatima

Sao Miguel è l’isola più grande e la più abitata, la più vicina all’Europa, ha un aeroporto normale che può ospitare anche gli aerei grandi, c’è un volo diretto da Francoforte alla settimana che porta i turisti e voli diretti da  Boston e Toronto che riportano indietro i vecchi emigranti. Li vedi sciamare verso i taxi, o verso le porte di imbarco per le altre isole: sono immancabilmente grassi, le donne sono diventate bionde, gli uomini hanno conservato i baffi e portano una camicia a  scacchi, parlano un portoghese strano con strascinate cadenze e vocali irrimediabilmente aperte. A fare i curiosi si possono vedere le targhette sulle gigantesche valige.  Mary Fatima viene da Fresno-California, con il colore dei capelli ha cambiato il nome da Maria a Mary. Fresno è una parola casigliana: frassino, in portoghese suonerebbe Freixo.   Joana da  Toronto-Ontario, I ragazzi  e le ragazze, quando non sono muti e sordi sotto i loro walkman, trascinano le loro aperte vocali come le loro gigantesche scarpe Nike; hanno sempre le mani occupate da patate fritte.
A Ponta Delgada ci sono molti alberghi e un’aria cosmopolita, ci sono banche, centri commerciali e ristoranti. La piazza aperta sul mare con i portici negli altri lati ed uno strano arco trilobato acquista l’aria di una piccola praça do Commercio de Lisboa. Le ragazze di Ponta Delgada sono belle. Sotto i portici della piazza odorano di semplice sapone, sanno di buono. Sopra la piazza la chiesa Matriz  espone il suo onesto portale cinquecentesco di roccia chiara, le strade dove passa la banda mostrano balconi fioriti e ampie finestre, Sventolano al vento le aquile delle Azzorre, le bandiere blu della Comunità e quelle verdi e rosse  del Portogallo, quella bianca e rossa del consolato canadese.
Appena fuori della città riprendono il sopravvento il  verde dei prati e le mucche che rimangono per tutto il tempo, giorno e notte e per tutto l’anno, li con le ortensie, al bordo dei laghi vulcanici di incredibili colori azzurri e verdi.


Indice

LISBOA         Pag    2

INCONTRO DI UNA SERA D’INVERNO   pag  32

ESTREMADURA       pag   36

SETUBAL        pag  38

COIMBRA         pag   40

I   PONTI   DI   PORTO       pag   41

I   TRENI   DEL  MINHO     pag   45

BRAGA        pag   47

SULLE STRADE PER VIANA   DO  CASTELO  pag  49

ALENTEJO        pag   50

A MOURA ENCANTADA     pag  61

SCAPPO A BRAGANZA     pag  67

NOTTURNO URBANO      pag  70

ISOLE        pag  76

Il guardatore di oceani      pag   78

MADEIRA         pag   79

INCONTRI   ALLE   AZZORRE     pag  85
Cha Preto         pag  87
A criança nao paga  (le corriere di Faial)   pag.  90
Una gita in barca a Corvo     pag.  93
Estou falando com estos italianos    pag.  95
Manuela Cabral       pag.  96
Jaime         pag.  97
Maria Otilia Morais Evora     pag.         100
Donne Luso-visigote      pag.         101
Guilherme Silveira de Oliveira     pag.         105
Mario         pag.         106
Luìs Alberto Sousa Cardoso               pag.           108
Mary Fatima         pag.           110