RACCONTI AMERICANI

15/11/2004

 

 

 

 

 

 

 

 


PROLOGO   


Sento il bisogno di dare una giustificazione, se la loro storia può essere in qualche modo una giustificazione, per questi brevi racconti, a chi si accinge a leggerli.
     Essi nascono prima di tutto da dalla inutile ricerca di una scusa ai miei viaggi. Viaggi che del resto vi hanno introdotto l'ambiente metaforico, in special modo nei primi tre: "Breve storia del viaggio del topolino Sarmiento da Taxonalo a Nalotaxo" - "La triste storia di Alpamayo che un dì volle andare alla ricerca della Salamandra Gigante " - "Storia di Napo e della sua bellissima moglie". Non si creda comunque di trovare dei luoghi reali e delle situazioni culturali verosimili, poiché più che di luoghi veramente visitati si tratta di ambienti sublimati dai vacui vapori dei miei interessi geografici.
     La storiella iniziale del Gatto con gli Stivali e "Santo Do­mingo" sono nate dall'ascolto casuale di conversazioni di certi turisti, occasionali e temporanei, compagni di viaggio.
     I Djinn sono degli Spiritelli che popolano le fiabe e le terre arabe e hanno dato il titolo ad un racconto incompiuto.
"Adak" trae la sua ispirazione dalla sosta in un posto di frontiera degli Stati Uniti d'America e da tutta quella folla di persone che in vario modo, nella legalità e più spesso nella il­legalità, lo varca cercando quella fortuna che non ha nella pro­pria terra.
     In "Eroismo" nato proprio nel luogo dello svolgimento del racconto, oltre Il ricordo di Francois Truffaut, si rivela più che in altri il mio attaccamento al fantastico e al bizzarro e una vena di "magone".


     Come ogni mattina a Taxonalo c'era il mercato ed il Gatto con gli Stivali partì da Senigallia per andarci. Credeva di tro­vare i braccialetti di cotone messicani e chiese alla donna della bancarella che stava seduta in terra se avesse due braccialetti per lui. La signora gli rispose che da anni i braccialetti non potevano essere venduti per un divieto del governo dello Stato in quanto erano dei possibili veicoli di cocaina colombiana verso gli Stati Uniti e verso l'Europa.
     Il Gatto rimase molto deluso e mogio mogio passò tutta la domenica mattina a passeggiare tra gli odori e i colori del mer­cato di Taxonalo a rimuginare nel suo cervello che figura avrebbe fatto con sua sorella e Beatrice se fosse tornato a Senigallia senza i braccialetti.
     Il Gatto non si accorse delle altre signore e degli altri signori che avevano e vendevano o volevano vendere la propria merce. Il Gatto con gli Stivali non si accorse dei bambini che giocavano in terra con degli strani pupazzetti di terracotta, non volle parlare con Juanito, che gli voleva raccontare la storia del topolino Sarmiento che fece molti anni prima un lungo viaggio fino a Nalotaxo, una grossa città che sta al di là della Sierra, lontana giorni e giorni di cammino.
     Il Gatto con gli stivali se ne tornò subito in taxi all'ae­roporto e prese il primo volo per Senigallia appena in tempo per la pizza da Michele che aveva prenotato con Beatrice.
     Chissà che figura ha fatto senza il braccialetto messicano.
     Juanito comunque la storia del topo Sarmiento l'ha racconta­ta a qualcuno e per caso ne sono venuto a conoscenza.       


BREVE STORIA DEL VIAGGIO DEL TOPOLINO SARMIENTO
DA TAXONALO A NALOTAXO


  Taxonalo é una piccola città di montagna, come tante in Mes­sico: con la strada polverosa che conduce fino alle poche piante dello Zocalo. Proprio sotto il porticato di fronte alla cattedra­le si apre il ristorante del topolino Sarmiento. Un ristorante senza pretese ma pulito, con i colorati tavoli all'aperto, diret­tamente sulla piazza. Attorno a questi tavoli si raccoglieva la mattina della festa la gioventù della città a parlare delle ra­gazze, del lavoro e a fare sogni sul futuro. Sarmiento partecipa­va a tutti i discorsi ma amava molto sognare il grande viaggio che avrebbe fatto appena i risparmi del lavoro glielo avrebbero consentito. 
Gli altri lo prendevano in giro per questa smania di viag­giare, per la sua cocciutaggine di mettere da parte il denaro in­vece di spenderlo nei soliti divertimenti e con le ragazze della città. Ma Sarmiento non ascoltava nessuno e continuò a sognare il viaggio e a lavorare per il suo viaggio e continuò anche a parla­re del suo viaggio tanto che nella città tutti conoscevano Sar­miento come il "Viaggiatore" anche se non aveva mai viaggiato.
     Una mattina di luglio finalmente partì. Con il suo bagaglio si avviò di buon'ora verso la stazione delle corriere di seconda classe in fondo alla calle Benito Juarez; fece il biglietto per Mexico e attese la corriera. Nella sala d'aspetto, Sarmiento non smise mai di sognare il suo viaggio che finalmente era iniziato. Pensò a come potevano essere le persone della capitale e le per­sone che avrebbe incontrato durante il suo lungo viaggio in cor­riera. Era contento perché la città era la prima tappa del viag­gio. Dopo sarebbe andato ad est, verso il mare, dove avrebbe in­contrato la gente di là. Avrebbe finalmente visto con i propri occhi il mare.
Stava pensando a queste cose quando gli si avvicinò un bam­bino che gli chiese di accompagnarlo da suo padre che abitava a Nalotaxo, dall'altra parte della Sierra. All'inizio Sarmiento ri­spose di no e  disse che lui doveva portare a termine il suo so­gno, per cui si era sacrificato tanto in quegli anni. Il bambino disse che anche lui aveva avuto lo stesso progetto e che stava ritornando a casa dal suo viaggio e gli raccontò che era stato nella grande città e al mare dell'est dove ci sono le grandi iso­le e la gente nera. Sarmiento si accorse che tutte quelle cose che il bambino gli raccontava le aveva già vissute nelle splendi­de notti d'insonnia nella sua casa, sullo Zocalo della sua città. Si accorse che aveva già parlato con i pescatori e con il capita­no del battello che ogni settimana, al giovedì, parte dalla costa per risalire lento il grande fiume.
Sarmiento in una mattina si accorse di essere stato in tutto il mondo: in quello dei luoghi e delle cose ma anche in quello degli animali e delle persone.
Andò quindi con il bambino verso quella città oltre la Sier­ra dove c'era il padre che lo aspettava. Partirono il pomeriggio stesso, senza bagaglio e senza cibo, senza sapere dove avrebbero trovato da mangiare e da dormire. Nella Sierra di notte fa molto freddo. Nella Sierra di notte fa molto freddo e ci sono i brigan­ti. Il viaggio doveva durare giorni e giorni, e sarebbe stato molto faticoso e anche pericoloso.
Sarmiento e il bambino camminarono molto fino ad arrivare nella zona disabitata della Sierra, nella zona vissuta dal vento, dalle erbe ispide, dalla polvere che gonfia gli occhi e dalla so­litudine degli uomini.
Per giorni e giorni non incontrarono nessuno, per giorni e giorni mangiarono solo delle piante che il bambino trovava in terra, piante dal sapore aspro che seccavano la gola e bevvero dalle fonti che il bambino sapeva scoprire in quel mondo deserto.
Un mattino Sarmiento si svegliò nel giaciglio riparato da dei muretti di sassi che aveva costruito il giorno prima e non vide più il bambino. Non lo cercò. Continuò il viaggio da solo: ormai aveva imparato a conoscere le erbe e a trovare le sorgenti.
Da quel giorno nessuno ebbe più notizie di Sarmiento, a Na­lotaxo non arrivò mai e in quella città nessuno conosceva il bam­bino esperto della Sierra che aveva girato il mondo.
Ma ancora oggi a Taxonalo la gente si ricorda del topolino Sarmiento e del suo viaggio mai concluso sulla Sierra, ancora og­gi la gente si ricorda delle sue idee sul mondo e sui viaggi.

1988

LA TRISTE STORIA DI ALPAMAYO CHE UN DI' VOLLE ANDARE ALLA RICERCA DELLA SALAMANDRA GIGANTE

Alpamayo era un ragazzino come tanti della sua età, egli vi­veva a S. Maria della Mesa, un paese di tremila abitanti situato a metà strada tra la grande laguna del nord del paese e la prima cordigliera al centro, in un altopiano a circa milleseicento me­tri di altezza. Alpamayo aveva tredici anni e come molti suoi a­mici  non era mai andato a scuola. Era solo al mondo, visto che i suoi genitori Naldo e Maria erano morti alcuni anni prima in un incidente accaduto poco lontano dal paese e di cui la gente non seppe mai bene i particolari; si seppe solo che i due caddero in un profondo burrone che solca il territorio  a sud di S. Maria della Mesa, ed è tutto quanto fu dato di sapere dalla polizia e anche da alcuni ispettori che vennero apposta, per quel fatto, dalla capitale della provincia.
Alpamayo dopo la scomparsa del padre e della madre cominciò a vivere di piccoli espedienti, di qualche lavoro saltuario pres­so i negozianti della cittadina e, a dire il vero, anche di pic­cole truffe ai danni dei turisti. Turisti che erano cominciati a venire numerosi a S. Maria della Mesa dopo che si era sparsa la voce che un archeologo danese aveva scoperto a sud della città dei reperti di grande importanza sugli antichi abitanti di quelle terre e anche delle rovine e un grande serbatoio sotterraneo fat­to con grosse pietre squadrate. Alpamayo si offriva come guida ai signori che venivano dagli Stati Uniti ma anche dalla Francia e dall'Europa e certe volte rifilava loro vasi e piccole figure in terra cotta che lui stesso faceva su modello di quelli che aveva visto su un grande libro tutto colorato nella bottega del denti­sta.  Accompagnando questi signori nella zona archeologica della foresta, Alpamayo ebbe modo di conoscere quei suoi strani antena­ti, se erano poi i suoi antenati, che erano scolpiti sulle vec­chie arenarie dei muri. A poco a poco gli furono famigliari quei profili, gli furono famigliari i grossi nasi e le fronti sfuggen­ti, ma ciò che più lo colpiva erano gli animali scolpiti e quelli dipinti sui vasi.
L'animale da cui era più affascinato era uno strano rettile; un lungo serpente con quattro zampe che era scolpito in quattro esemplari sulle quattro pareti della vasca sotterranea. Era uno strano animale con la coda lunga trasparente  e dentro la coda c'erano dei pesci; nella bocca, irta di denti accuminati, teneva un uomo che si divincolava. Alpamayo battezzò questo animale " la Salamandra gigante". Egli andava spesso, anche da solo, nella va­sca sotterranea, si sentiva attratto da quelle figure di salaman­dra e si convinse che quell'essere lo dovesse condurre alla chia­ve per scoprire qualcosa sulla scomparsa dei suoi genitori e che fosse una traccia che lo potesse ricondurre a quegli strani abi­tanti della loro terra, vissuti tanto tempo prima  e di cui non si seppe più nulla.
Alpamayo, raggiunti i diciotto anni, non seppe più resistere al bisogno di andare, di fare un grande viaggio alla ricerca di qualcosa, di qualcosa che lo ponesse sulla strada della conoscen­za. Per questo, negli ultimi anni, aveva imparato a leggere sotto la guida  della maestra di Santa Maria della Mesa che ripagava aiutandola nelle faccende domestiche. La maestra Monica era rima­sta sola, senza figli e marito, da quando la feroce coda vischio­sa deICE         PAG 47lla rivoluzione era passata per Santa Maria della Mesa. Al­pamayo lesse anche i libri di storia della biblioteca della mae­stra, in cui venivano descritti da degli europei o americani del nord, professori di università, la vita e tutto il resto dei loro antichi antenati. Ma presto Alpamayo si accorse che questi insi­gni studiosi non avevano capito nulla e pensò che venivano dalle loro belle università con macchine fotografiche, registratori, metri e quaderni a fotografare tutto a domandare tutto a tutti a misurare teste e braccia per qualche mese e poi se ne tornavano a casa con le stesse idee di quanto erano venuti e sempre molto contenti.
Così alla mattina del quattordici settembre, durante la pre­parazione per la festa dell'anniversario dell'indipendenza del paese che ci sarebbe stata sei giorni dopo, Alpamayo se ne andò senza avvertire i suoi amici, senza avvertire nemmeno la maestra Monica, a cercare la Salamandra gigante,  Gli avrebbe svelato il segreto della sua gente. Si avviò verso il nord, verso la laguna e le grandi paludi che coprivano il paese per centinaia e centi­naia di chilometri prima dell'oceano. Alpamayo non aveva mai vi­sto l'oceano, non aveva mai visto la palude di cui ogni tanto qualche viaggiatore raccontava delle strane storie: come quella del sergente Viasto che con il suo plotone, all'inseguimento di sei evasi, si perse nella palude e vide a poco a poco scomparire i suoi uomini inghiottiti dalle melme, ma lui si salvò, non si sa come, e si trovò con la febbre alta e la divisa strappata, con un nauseante odore di escrementi e di animali morti addosso in riva ad un fiume, che seguì fino alla foce, dopo tre settimane rag­giunse il mare e la città di Tartos, dove si salvò la vita. Du­rante il cammino Alpamayo ricordò anche le storie peggiori in cui la palude evocava sempre una grossa bestia puzzolente che uccide­va, inghiottiva, sbranava, spezzava gli uomini e le donne che per bisogno, errore o diletto vi entrassero. Ripensò con raccapriccio a quella famiglia di saltimbanchi macedoni che girava per tutto il paese con la propria carovana e credendo di risparmiare la strada per andare a Tartos, volle attraversare la palude. Venne ritrovata solo la bambina più piccola, di sei anni, con la testa, le braccia e le gambe staccate dal corpo da una furia bestiale. Alpamayo era un ragazzone, grande e grosso, molto scaltro, ma di notte mentre dormiva nella sua tenda a cupola leggerissima, da solo, certe volte lo assaliva la paura; la paura di quella catti­veria, di quella bestialità e di quel fetore che emanava la ter­ra. Quella parte anomala del loro paese, così ben assortito, di montagne, valli, fiumi, pianure e spiagge ma con quel sozzo bub­bone su a nord che metteva paura perfino agli ingegneri gringos delle banane e della frutta tropicale, da quando vi si perse un loro elicottero alcuni anni indietro.
Perché un bel paese come il loro aveva partorito una terra irrimediabile, maledetta?
La maledizione di quelle lagune era legata a quelle strane popolazioni che avevano abitato il paese, con i loro grossi nasi e le fronti sfuggenti?
La cattiveria di quei luoghi poteva essere quella lasciata in eredità da quella gente o piuttosto poteva essere l’immagine della cattiveria di cui erano stati oggetto. La Salamandra gigante piena di pesci aveva un ruo­lo in tutte questa fantastica e orribile  girandola di morti, di vendette e di rimorsi?
Lo stesso Alpamayo, forse solo in parte discendente dai più sfortunati dei conquistadores viveva nella palude i suoi rimorsi. Viveva i suoi terribili rimorsi, di notte, nella palude. Sentiva i colpi di mazza e le sciabolate dei cavalieri cristiani di Ca­stiglia, sentiva l'odore del sangue provocato dai giovani Hidal­gos delle famiglie di Spagna, sentiva ansimare i bambini nei vi­scidi e scuri budelli dei giganti di argento e stagno delle sier­re, sentiva le giovani madri violentate dai forzati dell'Estrema­dura, e le tuonanti parole, che prospettavano le fiamme eterne dell'inferno, dei frati di Leon e Burgos.
Alpamayo sentiva premere dall'interno della sua testa tutto quel sangue sprizzato dagli uomini in cinquecento anni di glorio­sa storia del suo grande, bel paese. Quei milioni e milioni di litri di sangue non riuscirono a stare dentro la sua testa, la fecero esplodere e fecero esplodere la tenda a cupola e riempiro­no la foresta e i fiumi e la palude maledetta. Alpamayo il matti­no seguente, come svegliatosi da un brutto sogno, raccolse i mil­le pezzi della sua testa, raccolse i mille pezzi del suo cervel­lo; li depose in un telo di cotone bianco e quindi li avvolse in un tessuto impermeabile e leggerissimo, ripose tutto con cura nel suo zaino e se ne andò per la sua strada, avanti, a cercare la Salamandra gigante con un lacerante dubbio in più. Forse anche lui era stato colpito dalla vendetta per le colpe del nonno del nonno di suo nonno, forse anche lui era morto nella stessa orren­da maniera degli zingari macedoni o degli uomini dell'esercito o dei gringos in elicottero. Ma perché allora stava ancora cammi­nando, e pensando, e cercando il perché della sua morte? Perché stava ancora cercando la Salamandra gigante? Forse gli altri mor­ti erano ancora in giro per la palude, forse qualcuno troverà i resti della sua tenda e troverà i mille frammenti del suo cranio e i mille pezzi del suo cervello nel luogo dove aveva dormito la notte precedente?
Alpamayo allora capì che l'evento notturno a cui era stato sottoposto, la sua morte, non era altro che la necessaria dicoto­mia che separava la sua parte indegna, lasciandola in mille pezzi sulla radura, dall'altra parte che era li che camminava e pensava con lui. Alpamayo era sicuro che solamente la parte rimasta era nello stato di purezza necessario per poter essere ammessa al co­spetto della Salamandra gigante, per poter assimilare la verità che finalmente la regina delle palude, delle piante della palude, degli animali, delle acque, delle nuvole, dei venti, delle monta­gne di tutta l'America dall'Arizona alla Terra del Fuoco  gli a­vrebbe rivelato.
Finalmente dopo aver sopportato tutte le angherie prodotte dalla delirante fantasia di quella terra, eccolo: sanguinante, sporco e puzzolente dei suoi stessi escrementi, e inzuppato dalla sua orina e dai viscidi umori dei rettili trasparenti, che lo av­vinghiavano e lo trasportavano come su un tappeto mobile. Quei rettili trasparenti, inesistenti per la scienza, estinti da mi­lioni di anni, lo trasportarono in una caverna dentro una monta­gna di arenaria nera. In alto, sopra la sua testa, in una vasca scolpita in un immenso cristallo di quarzo pegmatitico, sguazzava la Salamandra gigante, la stessa delle sculture delle pareti del­la cisterna sotterranea vicino alla sua città. Tutto intorno, a ridosso della parete della caverna, su una panca di roccia inta­gliata direttamente nella montagna sedevano silenziosi centinaia di uomini, gli stessi uomini misteriosi con le fronti sfuggenti e i grossi nasi che già aveva visto in altre occasioni. Quegli uo­mini erano silenziosi e tristi, tutti con la stessa espressione  rassegnata e umile della gente di montagna, tutti vestiti nella stessa maniera: con dei sandali di cuoio intrecciato, con un sem­plice poncho di lana grezza bianca e rossa che arrivava fino alle ginocchia ed intorno alla testa una corona di piume verde smeral­do lunghe non meno di quaranta centimetri ricavate dalla coda del quetzal.
Alpamayo era pronto all'ultimo decisivo sforzo, egli era tranquillo, consapevole di aver lasciato indietro tutto ciò che non era necessario e avrebbe potuto nuocergli. Finalmente uno dei tanti, senza alzarsi dalla sua posizione parlò: - << Alpamayo, hai sopportato tante prove e torture per arrivare fino a noi, hai abbandonato te stesso, la tua violenza, la tua combattività, la tua baldanza, la tua presunzione, la tua storia, la tua cultura, hai lasciato la tua civiltà e sei venuto umile e sconfitto per conoscere l'essenza di questa nostra terra tanto sfortunata; ma non hai lasciato indietro la cosa più importante. La Salamandra gigante ti condanna definitivamente a morte. Che tu serva da suo pasto>>.
Alpamayo fu così stritolato tra le mandibole della Salaman­dra gigante proprio come nelle sculture che lui aveva visto, e che tanta gente aveva visto sulle rovine a sud di Santa Maria della Mesa.
Juanito non seppe cosa Alpamayo non aveva abbandonato prima di presentarsi dalla Salamandra Gigante e nessuno sa cosa decretò la sua morte. Forse qualcuno andrà alla ricerca del perché, andrà al cospetto della Signora di quelle terre e saprà veramente pri­varsi di tutto il necessario. Forse allora, anche Juanito saprà.

23 gennaio 1989


LA STORIA DI NAPO E DELLA SUA BELLISSIMA MOGLIE


Napo era il figlio del Grande Sacerdote e sommo conoscitore della vita degli astri e del tempo, che risedeva nella città di Mila nel mezzo della foresta alta. Napo conduceva una vita disso­luta e gaudente. La sua condizione di detentore del potere gli permetteva di non avere preoccupazioni e gli procurava molti pri­vilegi. Uno dei privilegi, forse il più proficuo, era quello che in qualità di figlio del Grande Sacerdote aveva libero accesso alle Sacerdotesse del Dio degli alberi. Esse  erano scelte tra le più belle e più colte ragazze di tutti i territori del continen­te. La vita amorosa di Napo scorreva quindi più o meno tumultuosa circondato dalle attenzioni e dalle brame delle sacerdotesse. Tutte le notti erano per lui delle lunghe notti di giochi erotici con le splendide e fantastiche ragazze del convento. Il Grande Sacerdote lasciò correre per diversi anni. Ma la cosa durò per molto; Napo non si decideva a prendere moglie e a fare fronte ai suoi impegni come avrebbe dovuto. Il padre gli vietò dunque di frequentare ancora le giovanissime sacerdotesse. Gli ordinò di andare a cercarsi una moglie affinché iniziasse seriamente a stu­diare una buona volta il cielo per esercitare la sua professione di Grande Sacerdote a sua volta.
Sì, doveva trovarsi una moglie e quindi installarsi con lei nella città cerimoniale a contemplare il cielo e i moti perpetui delle stelle e dei pianeti. Doveva cercare di carpire i loro si­gnificati e i segreti e prima di tutto il segreto del loro rina­scere dopo ogni giorno, dopo ogni mese, dopo ogni anno e forse dopo ogni cinquantadue anni in cui si compiva il grande ciclo u­niversale. Si doveva dedicare, come si erano dedicati invano, suo padre e decine di suoi nonni, a scoprire come la Terra, la loro grande madre, si rinnovasse quasi sempre e permettesse con il suo rinnovamento la vita di migliaia di uomini: dei sacerdoti, delle sacerdotesse e di tutti i guerrieri e i contadini di quel loro vasto Stato. Per fare questo, Napo sarebbe dovuto restare sveglio per gran parte di tutte le notti che avrebbe vissuto, a traffica­re nelle stanze dell'osservatorio astronomico, a collimare lonta­ne luci da strette e lisce feritoie della fredda roccia vulcanica con cui era costruito l'osservatorio. Per fare bene il suo me­stiere avrebbe dovuto, anche di giorno, rimanere chino su conteg­gi lunghissimi di orbite, equinozi, stagioni, passaggi di lune e comete in determinati punti vitali. Napo sarebbe rimasto curvo sulle vecchie pelli dove erano state tracciate dai suoi nonni le vie del cielo e della terra. Avrebbe lui stesso tracciato delle mappe sulle pelli appena strappate alle ragazze del convento tut­te le volte che avesse scoperto un nesso, un aggancio, una novità e avesse fatto un passo avanti nella sua scienza.
Presto dunque Napo avrebbe dato addio alla sua vita di sen­sualità, di erotismo e di amore. A coronamento del suo studio a­vrebbe utilizzato quelle pelli lisce e profumate che tanto aveva accarezzato nelle sue notti, come unico modo per lasciare al suo popolo la sua scienza. Anche la moglie che si sarebbe trovato non avrebbe soddisfatto i suoi desideri di carezze e di godimento e di amore come le sacerdotesse del dio degli alberi. Si sarebbe accoppiato con lei, senza amore, senza gioia, senza piacere, so­lamente con lo scopo di concepire un altro Grande Sacerdote. Si sarebbe accoppiato con lei solamente nei giorni definiti dagli antichi calendari e nei modi e con i riti immutati da migliaia d'anni, da migliaia d'anni privi d'amore ma solamente pregni del senso di dovere. Aveva già vissuto quegli accoppiamenti nelle in­terminabili lezioni di suo padre e degli altri sacerdoti. Aveva già vissuto quelle copulazioni all'atto del suo concepimento e al concepimento di suo padre e dei suoi cinquantadue nonni paterni avvenuti sempre nella stessa stanza. In quella stanza dove lui stesso lo avrebbe fatto con una donna che ora non aveva volto, ma che sarebbe diventata sua moglie e che avrebbe continuato a non avere volto pure in seguito. Non avrebbe avuto labbra calde e turgide, e non avrebbe avuto seni grandi e morbidi e nemmeno un ventre accogliente e non avrebbe avuto quei fremiti sulla pelle e i capelli corvini e lunghi a coprire la nuca. Sua moglie sarebbe stata, non la sua amante, ma la sua fattrice e la sua serva che avrebbe accudito alla preparazione dei pasti puri,  alla pulizia delle sue stanze e all'esecuzione di quei riti semplici e ripeti­tivi che si usano prima e dopo lo studio del pensiero divino e, compito più importante, avrebbe preparato le pelli delle sacerdo­tesse del dio degli alberi. Tutto era definito e deciso dal tem­po.
Arrivò l'ora della partenza per Napo: era il decimo giorno del mese del Tucano e suo padre, ormai vecchio, lo pregò di tor­nare presto, di trovare la moglie in fretta, ché avrebbe avuto tempo per trasmettergli gli ultimi e decisivi segreti. Per la partenza di Napo venne organizzata una festa a cui parteciparono tutti i sacerdoti della  città cerimoniale e gli ufficiali della guardia.
L'indomani mattina, nell'undicesimo giorno del mese del Tu­cano, Napo partì alla volta della foresta per cercare sua moglie. Scese gli alti gradini della piramide che sarebbe stata la sua casa. Man mano che scendeva a balzi, con un po’ di fatica, quei possenti gradini, il sole saliva dall'orizzonte proprio sul suo viso e si rifletteva sul pavimento lucido di ossidiana della piazza sottostante. Era la piazza dove si riunivano, una volta al mese, tutte le sacerdotesse del Dio degli Alberi, e da dove una volta al mese, una di loro, scelta dallo stesso Dio degli Alberi, saliva alla piramide per essere veicolo e memoria della scienza del grande sacerdote. Attorno alla piazza di ossidiana erano co­struite delle piccole piramidi, in tutto trentadue, otto per lato ed ognuna di esse, costituita solo da centoventi gradini, era de­dicata alla conservazione delle pelli su cui era la memoria del loro popolo. Quella che era nella direzione dell'est conteneva le pelli più antiche che furono portate a Mila dagli antenati del loro popolo venuti dal nord di quell'immenso continente migliaia di anni prima, e via via in senso orario le piramidi contenevano la scienza più recente. Solamente diciotto di esse erano comple­te, poco più della metà, quindi la loro città e la loro civiltà avrebbe prosperato in quella foresta ancora per molti millenni. Attraversando la piazza di ossidiana Napo pensò a quante pelli avrebbe utilizzato nella sua vita di Grande Sacerdote. I sui pen­sieri erano controversi. Utilizzandone molte sarebbe stato un uo­mo di scienza eccelso, un grande benefattore del suo popolo, ma nello stesso tempo avrebbe sacrificato molte sacerdotesse, molte ragazze e molti amori. Con un brivido che gli dette il dubbio se era meglio perseguire la scienza o l'amore, abbandonò la piazza e si inoltrò per la lunga via lastricata di trachite che conduce fino alla porta della città cerimoniale e quindi alla foresta.
La porta, un'apertura ricavata nelle massicce mura della città, era costruita da enormi massi squadrati di andesite chia­ra, proveniente dal vulcano Aqua situato a ottanta chilometri verso ovest, nella Sierra Boscosa, ed era chiusa in alto da un enorme architrave a forma di trapezio isoscele di quarzo perfet­tamente liscio e trasparente. Al termine di ogni ciclo vitale u­niversale, alle ore dieci del solstizio d'inverno, i raggi del sole che sale nel cielo lo attraversano come una lente convergen­te e un sottile e concentrato fascio di luce va a colpire il cen­tro della piazza di ossidiana che lo fa rimbalzare al centro  della sala centrale dell'osservatorio sulla piramide più alta. Proprio quel fascio potentissimo di energia sullo schermo ricava­to da un gigantesco opale gli darà la scienza per il successivo ciclo vitale universale, mentre nella piazza si svolgerà il rito supremo di purificazione, sottomissione e di passaggio dal vec­chio tempo esausto, a quello nuovo fresco e vitale che dovrebbe ricominciare. In quel rito supremo la madre Terra perdeva la sua vecchia pelle e rinasceva nella nuova e con lei anche il suo po­polo prediletto dell'altopiano.
Napo usci dalla città cerimoniale; in tutta la sua vita non ne era mai uscito, aveva sempre vissuto tra i sacerdoti, con i suoi sacerdoti istruttori e con le ragazze del Dio degli Alberi, aveva sempre mangiato il miglior cibo che la loro ricca terra do­nava. Fuori dalle mura vide la gente dei villaggi che iniziava un nuovo giorno di lavoro, vide famiglie intere uscire dalle povere capanne di paglia ellittiche e avviarsi con il loro bastone da scavo e le loro zappe verso le radure della foresta ricavate con il fuoco. Oltre la zona delle capanne vi era una costruzione in pietra, una caserma delle guardie che controllavano l'entrata dei grandi magazzini sotterranei della città. Vide delle donne, una dozzina, che trainavano con fatica una slitta di legno con sopra dei grossi cesti di mais verso l'entrata del magazzino. Quelle ragazze avevano la stessa età delle sacerdotesse che ben conosce­va ma non ne avevano più la freschezza; non i capelli corvini che scendono lucenti sulle spalle ma il cranio accuratamente rasato, non la pelle profumata e metallica ma sudata e impastata di pol­vere. Eppure quelle ragazze non lo intristirono ma lo eccitarono con la loro superba muscolatura, con le loro lunghe gambe e con la loro testa lucida di sudore. Quelle ragazze vivevano male la loro vita per servire la città cerimoniale, non avevano gli agi delle sacerdotesse ma avevano i propri amori, i loro uomini, i loro figli e potevano averli anche ala fine del ciclo universale. Si fermò a guardare l'ultima, la più giovane, avrà avuto circa diciassette anni: snella, molto scura di pelle, completamente nu­da se non per una sottile striscia  di pelle di cane. Il suo cor­po era lucido, cosparso di olio, e la luce del mattino si riflet­teva sulla sua pelle scura ed era un riflesso struggente. Un ri­flesso che Napo avrebbe sempre rivissuto in mezzo alle luci e a­gli specchi della piazza di ossidiana. Tutto intorno gruppi di bambini, anch'essi molto scuri, che correvano e gridavano senza sosta, che si azzuffavano, che giocavano con piccole scimmie e nei loro occhi Napo vide per la prima volta quella complice sere­nità che non avrebbe più dimenticato. Vide i vecchi incartapeco­riti dal sole e dalle fatiche della terra accosciati davanti alle capanne che parlavano tra loro e ridevano di loro e del lavoro e del mondo degli dei e di quello dei sacerdoti. Nelle radure della foresta vide gli uomini, che chini sulle loro zappe, dissodavano zolla per zolla la terra della foresta, in ginocchio a terra, in­filavano nei buchi i semi di mais; seduti a terra coprivano il mais con la terra bagnata con l'acqua del fiume sacro. Vide i soldati che controllavano i lavori, che urlavano agli uomini, che incitavano a lavorare di più, che bastonavano gli uomini e basto­navano i bambini che facevano troppo chiasso.
Finalmente si trovò nella foresta solo, era quasi sera, non era mai stato solo e per giunta in un ambiente così singolare e a lui nuovo. Non tardò a scoprire che non era solo, era con milioni di alberi ognuno con la propria storia da raccontare, con milioni di piccoli animali ognuno con un viaggio da finire e milioni di particelle di terra e di aria e di acqua ognuna con la propria vita, lunga milioni di anni. Non ebbe paura della notte che scese istantanea dietro ai cespugli, non ebbe il più piccolo sussulto al tonfo del sole dentro la foresta e agli spruzzi di notte che provocava e che lo investivano con le loro gocce nere e untuose. Rapidamente la notte lo sommerse liquida e sommerse tutta la fo­resta con il suo umore denso. Napo si addormentò a terra lambito da quell'umore caldo e dolcissimo, notturno della foresta. Vide gli alberi attorno a sé uscire dal terreno e andare via, andavano tutti ad una festa molto lontana, e vide gli animali accanto a sé unirsi in un unico gruppo ed andare ad ascoltare un loro fratello lontano, e vide i sassi del terreno riunirsi in una unica grande montagna che si formava nella radura che gli alberi avevano la­sciato libera. I sassi arrivavano anche da molto lontano, dalle foreste di tutto il continente tanto che parlavano delle lingue molto diverse ed erano così numerosi che la cima della montagna non si vedeva più. Anche le particelle di acqua si alzarono dai fiumi e dai laghi e dagli stagni e se ne andarono verso il nord, verso il mare del nord ad ascoltare la loro lezione; e l'aria si sollevò lembo a lembo oltre la montagna altissima.
Attorno a lui non c'era rimasto più nulla, solo quella ro­tonda altissima montagna di cui non si vedeva la cima, ma Napo non si sentiva ancora solo, non aveva ancora paura e continuò a dormire e continuò a vivere e camminare per quella foresta molto grande dove non c'era nulla all'infuori di quella montagna senza cima. Dopo sedici giorni di cammino decise di salire la montagna per arrivare alla sua sommità, per scoprire dove era il limite dei sassi della foresta e cosa ci fosse lassù e che cosa si ve­desse da essa. La salita si rese subito molto difficile, la via era cosparsa di blocchi immani e spigolosi, difficili da aggirare e da superare, non un prato, non un albero, non un ruscello per riposare e bere, non un essere vivente con cui parlare, non un animale, una pianta, solamente sassi con cui Napo non sapeva an­cora parlare.
Impiegò almeno due anni per arrivare alla cima del monte ma non la riconobbe e proseguì verso l'alto. Il paesaggio non era cambiato, sempre lo stesso: alberi giganteschi, grandi fiumi, a­nimali piccoli e grandi che si facevano compagnia e tanti uomini e tante donne che vivevano nei villaggi delle grandissime radure erbose in capanne a cupola circondate da siepi rotonde. Questi uomini, queste donne erano completamente neri come mai Napo aveva visto. Dopo alcuni giorni di cammino incontrò un grande villaggio in cui le capanne, molto grandi, avevano il tetto di foglie d'al­bero e di frasche a forma di cono. Era ormai stanco, aveva fame e chiese al capo del villaggio se si poteva fermare per qualche giorno. Il capo, un uomo molto saggio e vecchio acconsentì subito e gli disse anche che di lì a poco ci sarebbe stata una bellissi­ma festa con balli delle ragazze del villaggio che alla fine a­vrebbero scelto i loro compagni. Napo rimase fino alla festa. Le ragazze erano molto giovani e molto belle e per il ballo e per la festa si stavano già preparando da tempo. Andavano ad una monta­gna lontana dal villaggio, dove dentro alcune grotte grattavano una polvere rossa di ematite che poi pestavano finemente nei mor­tai e mescolandola con olio di sesamo se ne cospargevano il corpo completamente. La mattina del ballo tutte le ragazze la impegna­rono per ungersi con calma, accuratamente dai capelli fino ai piedi, con sapienza facendo risaltare le parti migliori del loro corpo e nascondendo gli eventuali difetti.
La più bella  era Nyala, alta e sottile, con i capelli lun­ghi raccolti in treccioline che arrivavano fino a toccare appena le spalle senza appoggiarvisi, diligentemente impastate con il grasso e lucidate con l'olio e la polvere rossa. La fronte era cerchiata da due sottili lamine di ottone ed in mezzo ad esse una sottile fila di perline di vetro, dal collo pendevano altre col­lane di perline e collane con placche d'argento fino allo spazio tra i seni che erano piccoli ma forti e con i capezzoli ben ap­puntiti.  Il busto era arricchito da scarificazioni leggere e de­terminate con conoscenza, ancora un filo di perline e quindi il pube e le meravigliose lunghe gambe. La linea delle braccia era interrotta da due stretti bracciali di ottone sugli omeri e da tintinnanti braccialetti ai polsi. Numerosi anelli metallici alle caviglie rendevano musicale il suo incedere.
Finalmente, alle ultime luci del giorno, la festa cominciò.
I rossi raggi del sole incidevano radenti l'orizzonte e si sfran­giavano senza dolore sulle forme della terra e  sui corpi delle ragazze che ballavano al ritmo dei tamburi percossi dagli uomini disposti in cerchio attorno. I bagliori riflessi dalla pelle si rifrangevano nell'aria, intrisa di polvere rutilante, incendiata dal tramonto che  avvolgeva le ragazze e gli uomini e le capanne e il villaggio e tutto ciò che era.
Napo partecipava alla festa dell'amore, subiva il fascino struggente di quei momenti, ma ancora di più, si nutriva del fa­scino struggente di Nyala che con tutto il suo corpo permetteva la sua liberazione, il suo passaggio da ragazza a donna. Era lei stessa la liberatrice di tutte le sue inibizioni, di tutte le ma­gie e dei miti della giovinezza. Nyala poteva liberare le sue paure, dare spirito al suo corpo teso e vibrante, poteva final­mente fare desiderare senza timori il suo corpo agli uomini. Nya­la scelse l'ospite, il nuovo arrivato. Si sentiva ed era la più bella e tra la sua gente sono le cose migliori che si offrono a­gli ospiti.
Nyala sapeva come farsi desiderare dal suo uomo, in tanti anni aveva aspettato questo momento, aveva studiato ogni movimen­to, ogni sguardo, ogni sorriso ed ogni fremito. Danzando si avvi­cinava a Napo e si allontanava da lui; rimaneva  pochi istanti e poi ritornava, di volta in volta più vicino, sfiorandolo ora con i seni, ora con le anche, ora con la schiena. Napo ad ogni con­tatto si sentiva sempre più eccitato, ormai sentiva l'odore della sua donna, si sentiva le orecchie infuocate e un gran calore che gli saliva nel collo, sul viso e nel cervello, ormai anche lui era imperlato do sudore come la sua donna e raggiunto il massimo dell'esaltazione fisica e mentale emise un grido rauco al cielo, un richiamo di amore che non ricordava di conoscere da migliaia di anni. Napo si sentiva completamente immerso tra quella gente, tra quella polvere e nella terra. Era una particella animale di quella terra che ora non distingueva più i suoi frammenti animali dai vegetali e dagli altri, amalgamati in una unica luce. Anche Nyala si sentiva annullata come persona individuale, era annulla­ta nella felicità della natura che superava i confini della sua terra, del suo continente, che superava i confini di quella luce che la avvolgeva, che superava ogni confine immaginato. Nyala vi­brava, gioiva, amava nella felicità del mondo.
Con il passare del tempo, le mosse, la vicinanza e i contat­ti si facevano sempre più audaci, tanto che in altre occasioni sarebbero stati immorali e puniti con severità dai vecchi del villaggio, ma in quel tramonto non c'era la stanchezza degli uo­mini e non c'erano le leggi degli uomini e non c'erano e leggi di Dio creato dall'uomo e tutto era libertà e felicità, e tutto era assorbito, inghiottito come in un imbuto e trasferito e custodito come una nuova energia vitale.
Solo al sopraggiungere della notte, Nyala appoggio la sua gamba destra sulla spalla di Napo e rese formale la sua scelta già fatta all'inizio della festa. Solo con il giungere della not­te avvenne l'unione tra Napo e Nyala, e il matrimonio, per cui egli stesso era uscito dalla città cerimoniale dei suoi padri per un viaggio così lungo. Solo con il giungere di quella notte scoprì l'amore che credeva di possedere nella città dei suoi avi con le sacerdotesse del Dio degli Alberi, e provò quella cono­scenza, tutta quella conoscenza che avrebbe dovuto inseguire va­namente per tutta la sua vita di Grande Sacerdote: senza amore, in mezzo ad osservatori e a pelli umane e in mezzo a tutti quei morti ammazzati, sventrati in onore della scienza, in mezzo a quei cuori ancora palpitanti strappati alla gente per nutrire la cattiveria della loro scienza e dei loro dei.
Napo si accorse che quella scienza così insignificante e raggiungibile a prezzi così elevati dagli uomini non era degna di essere perseguita. Napo non fece più il Grande Sacerdote a Nila,   così lugubre con le sue trentadue piramidi, con la sua piazza lu­cida di ossidiana e la sua grande lente di quarzo i cui splendori sono freddi e filtrati dal dolore e dalla rassegnazione.
Napo non tornò più dalla sua gente e se ne andò con la sua bellissima moglie a cercare altra gente, ad insegnare la festa dell'amore e a capire dalla gente le feste dell'amore.

12 marzo 1989

SANTO DOMINGO


Il Gatto con gli Stivali l'estate scorsa voleva andare in vacanza con Beatrice alle isole Los Roques con una nota agenzia di viaggi romana che prospettava una vacanza esotica e avventuro­sa. Si meritavano una breve vacanza  dopo una lunga annata di la­voro, di stress, sempre alle prese con i clienti mai contenti delle ultime novità che il mercato offriva. I due da tre anni a­vevano a Senigallia, proprio dietro la Rotonda, un negozio di personal computer e di programmi e di accessori vari. Il negozio era sempre affollato, i guadagni andavano bene, molto bene ed e­rano sempre indaffarati tutto il giorno per tutto l'anno.
Per problemi organizzativi dell'agenzia, andarono a Santo Domingo  con un'altra più nota compagnia di viaggi, che garantiva meno avventura ma più serietà.
Si meritavano quei quindici giorni di riposo al sole dei tropici, senza pensare a nulla, nel loro dell'albergo con aria condizionata, piscina e american bar, si meritavano quegli indo­lenti pomeriggi ai bordi della loro piscina tropicale a gustare favolose insalate di cocomero, papaia, mango, ananas e banane. Ma quasi subito la loro spossante tenerezza finì.
Un giorno, era sicuramente di mercoledì, nel primo pomerig­gio gli si fece addosso una sensazione di disagio. Un presenti­mento di aver commesso un errore irrimediabile, nell'aver scelto quella vacanza, si fece strada nelle loro menti. Forse tutto era cominciato dal fatto che il cameriere non parlava l'inglese ma solo il Castigliano e appunto per questa fondamentale difficoltà di comunicare il Gatto con gli Stivali si vide servire un succo di ananas senza il Grand Marnier e Beatrice fu costretta a man­giare un gelato alla fragola e mirtilli invece che un gelato alla fragola, mirtilli e lamponi. Non é che non ci fossero in albergo il Grand Marnier e i lamponi, visto che si riforniva con un cor­riere espresso aereo direttamente negli Stati Uniti e in Europa, ma solo perché quel deficiente di cameriere non aveva capito il loro perfetto Inglese. Il disagio fu tale da fargli cambiare i progetti per il pomeriggio, quando arrivarono degli operai che, per nulla rispettosi degli ospiti dell'albergo, con un gran vo­ciare e un frastuono di martelli e seghe si misero a riparare una conduttura dell'impianto idrico della piscina. Allora se ne anda­rono stizziti e, dopo una doccia in camera, vollero visitare la città che le guide turistiche dipingevano molto caratteristica, specialmente la parte vecchia, arrampicata sulla collina attorno alle sue vie strette e tortuose, piene di colore locale e di gen­te indaffarata nella propria attività tradizionale.
Il Gatto con gli Stivali si mise la Lacoste arancione ed un paio di jeans leggeri di Armani con una cintura Timberland, ai piedi le Timberland azzurre senza calzini. Beatrice più formale e ricercata, si mise un vestito nero di pizzo castigliano, l'aveva comperato l'anno precedente a Leon, molto aderente e cortissimo che metteva in bella evidenza i suoi magnifici bianchi seni e il suo splendido corpo, dei sandali con il tacco alto le illuminava­no le gambe. Si raccolse i capelli neri sulla nuca e li fermò con uno spillone d'oro e si mise anche degli orecchini molto semplici fatti con una sottile, ma di ragguardevole diametro, lamina d'oro lavorata a sbalzo. A Beatrice piaceva farsi notare e in quell'oc­casione era maggiormente gratificata, dal momento che il suo sex-appeal era rivolto a uomini diversi da quelli che frequentava e oramai abituati; si rivolgeva a uomini umili: rozzi contadini e pescatori e il suo richiamo sessuale avrebbe avuto sicuramente più effetto: i suoi capezzoli turgidi, che con il movimenti dei seni, uscivano a volte tra i pizzi del corsetto, la sua pelle bianca e liscia, il suo profumo leggero e sottile. Il Gatto con gli Stivali si era sempre appagato dalla bellezza della sua donna e dal suo eccitante comportamento. Era un uomo fortunato, quando usciva con Beatrice si esaltava del suo contatto, del suo profumo ma si esaltava anche alle attenzioni che la sua donna provocava negli altri.
Si arrampicarono su per le strade acciottolate della città vecchia, per le strette strade che odorano di mare e dove si in­filano diretti i venti dell'oceano. Arrivarono fino al castello spagnolo che domina la parte occidentale del borgo.
Beatrice era sola in quel momento, affacciata ad una piccola apertura ad arco fatta nel muro esterno dell'edificio, sicuramen­te come punto di osservazione e di avvistamento. Era davvero un magnifico posto di osservazione: da quell'arco si vede un buon tratto di mare tra i due promontori che limitano la città, in basso quella nuova con le solite costruzioni e più vicino quella vecchia con le case di calcare bianco, piccole e addossate le une alle altre attorno alla cattedrale, tanto da sembrare un piccolo borgo della Galizia, e più su il bosco che copre la montagna fino al colle e oltre l'intera isola. Beatrice si sentiva serena in quel paesaggio, si sentiva bene in quella brezza lieve che la ac­carezzava, in quel caldo sole del pomeriggio che riscaldava il suo corpo. Al rintocco della campana della chiesa fu raggiunta, assieme al suono, anche da onde che la fecero vibrare e sussulta­re in sintonia, in una sensazione mai vissuta, generata da quella insolita dimensione in cui era calata. Beatrice fu rapita da quelle sensazioni che non la abbandonavano, fu rapita dalle sue stesse pulsioni liberate da quella situazione di tempo e spazio e energia così singolare. Era lì; immobile, nel sole e nel vento, accesa da quella energia che gli proveniva, mediata dall'ambien­te, da lei stessa. Era lì eccitata dagli stessi pensieri che sta­va elaborando ma di cui non era ancora a conoscenza, era consape­vole perfettamente del suo stato di transizione verso una realtà sconosciuta o dimenticata, e comunque terribilmente nuova, consa­pevole che se non avesse fatto nulla vi sarebbe entrata. Beatrice non fece nulla per fermare quell'evento, non si mosse, non cercò il Gatto con gli Stivali, non rientrò in albergo ma rimase per tutto il pomeriggio nella piazza centrale della città vecchia a guardare la gente. Rimase sotto il sole e nella brezza dei Carai­bi a guardare la vita della gente. Rimase ad osservare quelle facce rugose bruciate dal sole dei contadini, e le signore e le loro mani, che vendevano ortaggi al mercato. Rimase ad osservare i bambini che giocavano nel pavimento a larghe piastrelle di roc­cia vulcanica  e uno molto piccolo che, seduto in terra, sgranoc­chiava una pannocchia di mais bollita, e i vestiti colorati delle giovani madri dai capelli corvini e lisci e  i loro figli sulle spalle avvolti nelle coperte. Si fermò ad ascoltare i discorsi delle persone e le preghiere a Dio. Rimase nella folla del merca­to del pesce e delle carni, dentro quella folla che toccava e che la toccava e la premeva strettamente, permeata dalle voci, dai pianti, dagli odori e dagli umori di quell'ambiente: tra teste di bue sanguinanti, tacchini sventrati e cani affamati e  mosche, tra bambini scuri che vendevano noccioline e gelati e uomini in terra, deformi e martoriati dalle malattie, a chiedere elemosine e donne stracariche di pesi; si accorse di loro. Si accorse di sentirli finalmente, di capirli, di conoscerli. Si accorse di non essere oggetto di ammirazione o di desiderio o di interesse come era sempre stata e aveva voluto sempre essere.
Beatrice non fece caso alla notte tropicale che rapida la inchiodava a quei luoghi con una frenesia dolce. Le deboli luci dei vicoli segnarono il suo percorso come isole nell'oceano, tap­pe di una migrazione dal vecchio continente ad una nuova cultura, quelle deboli luci e quelle scene che illuminavano malamente era­no le tappe del suo attraente e terribile viaggio dalla sua vec­chia vita ad una nuova conoscenza.
Si incamminò per un vicolo melmoso, molto stretto, con ai lati costruzioni e balconi di legno traforato che sovrastavano le pozzanghere e i rifiuti sul terreno e non lasciavano disperdere il forte, denso e stringente odore di orina. Ai lati, addossati al muro, ogni tanto si accovacciavano degli uomini e pisciavano in terra alimentando e ingrossando i rivoli e le pozzanghere. Es­si non si curavano di lei, non si interessavano ai suoi tacchi alti che affondavano nella melma puzzolente, non si irrigidivano a quel pizzo traforato dai suoi seni.
Beatrice continuò fino alla luce seguente, situata in uno slargo del vicolo addossata  ad un muro di mattoni, sopra una fontana formata da una vasca muschiosa dove andavano a bere gli uccelli. La fontana era ricoperta di guano: sotto quello vecchio, bianco e calcinato dal sole e sopra quello recente, scivoloso e lucido. L'insieme dava l'idea di una plastica scultura informe e debordante che scendeva verso il terreno. Anche lì, nelle vici­nanze, gli uomini che parlavano sotto voce tra loro non guardava­no Beatrice seduta sui gradini della fontana, non erano attirati dalla sua pelle bianca e liscia e profumata  ormai in verità sporca, incrostata e maleodorante.
Proseguì verso la nuova scena illuminata, verso la prossima tappa di quello straziante viaggio, ed ecco due ragazzi, scalzi e con i calzoni corti, seduti sui gradini di un portone che si ma­sturbavano in silenzio proprio sotto il lampione rognoso. Ecco più in là altri due bambini, piccoli, sempre con calzoni corti e scalzi che vendevano pistacchi tostati davanti l'entrata di un bordello. Dietro la porta a vetri e con tenui disegni damascati verdini un patio dove un brusio di uomini ruotava intorno ad al­cune ragazze magre e impaurite e a donne enormi con rotoli di grasso che scendevano sulla pancia e a vecchie ormai rugose con i capelli radi e stopposi e un triste sorriso ingiallito dai denti d'oro. Su tutta questa gente: sulle donne nude ma con le scarpe e sugli uomini che ruotavano attorno insisteva l'odore acre del su­dore stantio e quello vecchio di latrine mal lavate e e una con­fusione vociante. Beatrice entrò ma gli uomini non si accorsero della sua avvenenza e le donne vedendola non si ricordarono della freschezza persa in giorni, anni e decenni di laide penetrazione di amori pelosi.
Beatrice si allontanò nel buio, camminò nel buio verso la successiva fermata del suo viaggio ed eccola entrare in un andro­ne scuro limitato da un portone di legno verde con due grossi battenti di bronzo a forma di pesce. Salì le scale di legno, scricchiolanti sotto di lei, appoggiandosi allo scorrimano liscio e lucidato dalle molte mani salite. In cima alle scale una porta senza pianerottolo, e una stanza senza finestre, il soffitto bas­so e il pavimento di legno, illuminato da una lampadina pendente dal filo elettrico sulle ragnatele spesse e scure. Dentro tre uo­mini con i baffi, con  i capelli ricci erano seduti dietro ad un bancone: come se fossero giudici di un improvvisato e improbabile tribunale che comunque esisteva, funzionava ed evidentemente fa­ceva valere la sua giurisdizione su Beatrice. Infatti quello di mezzo domandò: - << chi sei? Da dove vieni?>>-  E Beatrice ra­ccontò la sua storia, la sua vita di sempre e quel pomeriggio in città vecchia e il mercato e i vicoli e la gente e la brezza e le campane e tutto il resto. I tre non dissero altro, stettero si­lenziosi e fermi per un tempo indefinito che a Beatrice doveva sembrare interminabile nella sua smania di sapere se aveva supe­rato le difficoltà dell'udienza che credeva avesse  il significa­to di un qualche  esame di ammissione. I giudici si guardavano muti, si scambiavano tutta una serie di gesti complicati correla­ti da movimenti sinuosi del corpo, armoniosi ma a volte rigidi, scattanti, spezzati in mille significati che comunque beatrice non intendeva ne capiva.
Poi il più giovane, quello di destra, un ragazzotto di circa diciotto venti anni le si avvicinò: con un pesante schiaffo la buttò sul pavimento di legno. Il sapore dolce e caldo del sangue le se mescolò in bocca al sapore di birra svampita di pessima qualità della bocca dell'uomo. Beatrice, inerte, sentì la barba ispida sul collo e le mani dure che le strappavano il corsetto di pizzo castigliano e afferravano e stringevano fino a farle male i seni. Cercò di ribellarsi, urlò, ma era tenuta a terra dagli al­tri due giudici  e ad ogni ribellione riceveva un ceffone tanto che ormai le si era gonfiato il viso. L'uomo ormai padrone la frugò con le dita, la sbavò, le succhiò con forza i capezzoli e li morse. Beatrice non reagiva più, sprofondata nel dolore fisico e nella assenza mentale, si accorgeva di quanto le succedeva in­torno ma non riusciva a capirlo. Sentì quell'enorme sesso dentro di sé, sentì il gran peso sopra di se che la opprimeva, sentì l'appiccicosa puzza di sudore poi ancora di nuovo: birra svampita e morsi, la lingua che la bagnava in tutto il corpo e di nuovo la penetrazione insistente e lenta e poi ancora capelli unti e ap­piccicosi, puzza di alcol e di sudore, di saliva, sperma appicci­cato al ventre, sulle gambe, sulla faccia, nella bocca e ancora il grosso pene su di sé e dentro di sé come se quel supplizio non dovesse finire mai, come se gli uomini non fossero tre ma dieci, cento, tutti quelli che aveva visto, come se fossero arrivati in quella stanza i ragazzi che si masturbavano e gli altri che ruo­tavano attorno alle donne nel postribolo. Come se fossero tutti là, anche le donne e i bambini, a ridere di lei, a bastonarla, a sputargli, a pisciargli, a defecargli addosso.
Beatrice era scomparsa, era stata rapita nel quartiere vec­chio della città, già sarà in viaggio verso il suo padrone, ven­duta schiava a qualche signore della coca in Bolivia o ai cerca­tori d'oro del Madeira in Brasile. Il sergente di polizia, dietro la scrivania di quella pulciosa stanza, era convinto di quanto aveva appena detto al Gatto con gli Stivali, aveva una lunga e­sperienza sulla realtà dei fatti: sulle  belle e giovani turiste che scompaiono nel nulla, di cui non si trova il corpo, un indu­mento, una traccia qualunque. La storia è sempre la stessa. Que­sti turisti non si accontentano di stare al loro posto, nei loro recinti dorati  di incoscienza degli alberghi o dei clubs da gringos. Si credono di non essere dei semplici turisti ma degli antropologi o sociologi o benefattori e comunque la punta avanza­ta dell' ecumene, delegata, legittimata, eletta dal gran consi­glio di quest'ultima: dalla pubblicità, dai grandi gruppi finan­ziari, dalla noia, dalla carenza di fantasia, dal denaro alla co­noscenza, alla conquista di nuovi spazi geografici e umani. Obe­rati dal pesante incarico di riportare ai loro centri ecumenici una completa documentazione di diapositive, foto, riprese magne­tiche nonché di prodotti artigianali locali, se ne vanno nei vi­coli della città vecchia a vedere la "vera" la "ultima" Santo Do­mingo. Ma li la polizia non li riesce a proteggere, l'organico è sottodimensionato, il loro scalcagnato governo non ha soldi per quel servizio e non può permettersi nemmeno il lusso di fare in­nervosire ogni volta gli addetti dei consolato USA o italiano o francese che sia.
Ma Beatrice non è stata rapita. Una bambina l'aveva presa per mano e l'aveva condotta nella sua casa, al margine della città, dove inizia la foresta e la luce ormai secca e penetrante viene sfrangiata dalle cime degli alberi. La stavano aspettando altre bambine che aiutate da due vecchie signore la spogliarono, la lavarono, la immersero in un bagno di vapore surriscaldato e profumato con legni odorosi della foresta. Le bambine le taglia­rono i capelli cortissimi, la vestirono con dei finissimi orec­chini in lamina d'oro sbalzato raffiguranti il sole e la luna, con una collana e dei bracciali e dei cerchi alle caviglie in oro finemente inciso con le figure del Vento, della Pioggia, del Fiu­me, della Montagna, della Foresta e del Mare. Una leggera e corta veste di cotone bianco, serrata in vita da una cintura in lana colore smeraldo, racchiudeva la bellezza perfetta del suo corpo lucido e scuro dall'olio e dal sole, splendente nei rapidi ri­flessi del sole del tramonto.
- << Regina, ti abbiamo atteso per tanti anni, dal mare, da quando tua madre se ne andò dalla nostra isola, dagli dei crudeli ed ignoranti venuti dalle montagne del continente dell'ovest, da quando la Pisa Mama riuscì a fuggire disperata alla stupidità de­gli dei della sierra e dei loro re e dei loro sacerdoti e della loro pazza scienza, e delle loro inutili piramidi e osservatori, da quando la Pisa Mama era riuscita a salvare sua figlia dal sa­crificio.>> -
- << Questi settecento anni sono stati molto tristi per il tuo popolo. Dopo gli uomini della sierra sono arrivati altri uo­mini, dal mare, ancora più stupidi ed ignoranti, hanno apportato la loro arroganza con le loro armature d'acciaio e i loro archi­bugi. Il nostro popolo ha sofferto la morte, la malattia, si è annullato nella fatica e nell'oblio. E continuano ad arrivare sempre dei nuovi padroni e il tuo popolo è sempre più triste. Or­mai ci governa l'ignoranza e la stupidità e la violenza figlia ­dell'ignoranza. O regina, con il tuo ritorno ritroveremo la buona scienza e la pace.>> -
Era finalmente alla fine del viaggio, aveva superato anche l'ul­tima prova, era finalmente tornata. Ascoltava le sue donne, le loro preghiere. Era tornata, con lei la loro terra sarebbe stata nuovamente saggia e cosciente di sé. Beatrice ne era sicura, ne erano certe le sue donne e la terra.
Beatrice giaceva sul pavimento di legno. Tanti si erano af­fannati sul suo corpo a pezzi e nella sua mente piatta, tanti a­vevano violato la sua memoria, la sua fede, la sua intelligenza, tanti avevano violentato, deriso, ostacolato la sua volontà; ma si sentiva ancora viva, ancora decisa a quel suo viaggio che do­veva, che voleva continuare oltre quella stanza senza finestre, dal soffitto basso, oltre quelle scale scricchiolanti di paura  e quei vicoli puzzolenti e sporchi, al di là di quella folle stupi­dità umana.
Il suo viaggio doveva continuare oltre il rapido riflesso inossidabile e freddo della lama che le tagliò profondamente la gola.
L'uomo con i baffi e i capelli ricci ripose nella tasca di dietro dei pantaloni il suo coltello a scatto. Se ne andò con i suoi due amici ridendo e pulendosi le scarpe ancora sporche di sangue sulla melma del vicolo, stretto, appena illuminato dal primo mattino che stava per inondare la città vecchia, il porto, gli alberghi, le spiagge e tutta l'isola di una calda luce tropi­cale.

21 maggio 1989


ADAK


Mia nonna è morta. Proprio ieri è arrivato il telegramma dei miei dal Nuovo Messico. Ripensare a lei, qui nella solitudine fredda dell'isola di Adak è come ritornare alle origini della no­stra famiglia e ripercorrere all'indietro la storia della mia gente. Ripensare a mia nonna è ritornare dal meccanico e lucente golfo di Bering alle calde piogge tropicali del Chiapas, ai gio­chi dei bambini nella melma dei campi di mais, alle grida degli amici.
Sono ormai quattro anni che sono qui, alla base della marina
di Adak. Sono il sergente maggiore Diego Manzana nato a Portland, nello stato di Washington il trenta dicembre millenovecentocin­quantasette. Mi sono arruolato in marina per fuggire dal lavoro di mio padre, per sfuggire all'odore delle creme e al dolore del­la sua spina dorsale piegata per quaranta anni sulle scarpe della gente di Portland e di S. Francisco. Mi sono arruolato in marina per sfuggire alla solitudine di mia madre e alla solitudine delle sue passeggiate nella nebbia del porto. Ho la mia paga tutti i mesi, ma sono quassù solo, dentro le mie passeggiate nella nebbia del porto in mezzo a gente che non mi ama, in un lavoro che non amerò mai e che non servirà mai a nessuno, se non ad ammazzare degli sconosciuti, di chissà che parte del mondo e di chissà che età e con delle idee nella testa. Forse un giorno il mio lavoro servirà ad ammazzare uno o tanti come me, che stanno dall'altra parte di questo mare che in questo momento stanno pensando a me  o alla loro nonna morta, alla loro vecchia nonna che veniva dalle aride steppe del sud del loro paese.
Quanti sergenti maggiori come me ci sono in tutto il mondo e in quante isole dell'oceano, sono davanti ad una chiave e ad una leva rossa o ad un pulsante che fanno il lavoro di aspettare per tutto il loro tempo un ordine: una telefonata, una luce lampeg­giante, un suono  poi azionano i loro perfetti dispositivi. Quan­te persone come me hanno concatenate nella loro testa delle sem­plici sequenze di immagini, agiranno come delle perfette macchine a comando, senza sbagliare, senza pensare, senza sapere quali ef­fetti provocherà l'apparato di cui sono una parte infima e che fanno funzionare. Il mio lavoro è uno schifo di lavoro, è un non lavoro. Aspetto tutta una vita, con altri milioni di menti vuote sulla Terra, per ammazzare una, dieci, mille, migliaia  o milioni di persone. Solo così non sarò un peso per il contribuente. A­spetto anni in un forte del deserto per appoggiare delicatamente la canna della pistola sulle labbra di un bambino algerino di due anni, impaurito e affamato, dicendogli << Mon petit bicot, t'a besoin de téter 1 >>, per poi sparare. Mi preparo mesi e mesi per bruciare villaggi nelle foreste tropicali di ogni longitudine per fucilare tutti i loro abitanti  o per seppellire vivi con la sab­bia migliaia di ragazzini piangenti, seguo anni di corsi per an­nullare nel lampo di un missile case, scuole, ospedali, città con tutto quello che c'é dentro. Siamo forti di una tecnologia, di una ricerca e di una fervida scienza che stanno alle nostre spal­le. Siamo forti del diritto delle leggi che ci giustifica nelle nostre azioni per il futuro.
Mia madre, mio padre e mia nonna  non andarono mai a scuola, non imparano le leggi della conoscenza e del diritto. Mia nonna non sapeva nemmeno leggere e scrivere ma sapeva raccontare le storie: le lunghe e vecchie storie del nostro Chiapas che imparò quando era bambina nel suo villaggio.
Se ne andò al nord in cerca di fortuna, se ne andò che aveva diciannove anni per fuggire alla fame, alle ingiustizie e alla violenza di sempre e trovò al nord la fame, e le ingiustizie e le violenze di sempre. Se ne andò dal suo villaggio a piedi con le poche cose che erano sue: i vestiti che aveva addosso, la coperta di lana, il cappello e sette focacce di mais, non aveva scarpe per arrivare fino alla grande città, fino alla grande capitale federale mille chilometri più a nord. Non aveva la faccia di chiedere l'elemosina, ma non aveva nemmeno il tempo di fermarsi per dei lavori saltuari che gli potessero far procurare del cibo. Per i primi giorni camminò sempre, per le prime dieci notti dormì sul ciglio della strada sotto la sua coperta. Le sue sette focac­ce di mais terminarono e alle sei del pomeriggio dell'undicesimo giorno si fermò in una fattoria della calda pianura dell'istmo di Tehuantepec dove coltivavano banane. Chiese del cibo a quella gente, agli operai della piantagione, ma ne avevano poco per loro e non ne ebbe, chiese del cibo al padrone della piantagione. Gliene diede ma al caro prezzo di dover lavorare senza salario nella raccolta delle banane dall'alba al tramonto con una scodel­la di fagioli e una focaccia di mais. Il lavoro era duro, ma il cibo, anche se poco, era assicurato. Già il suo viaggio a nord aveva dato i suoi primi frutti ed era ancora poco al nord, sareb­be andata più su, nello stato di Oaxaca e nel distretto federale dove avrebbe avuto ancora più fortuna e chissà, magari, nella grande città avrebbe anche guadagnato dei soldi e avrebbe avuto una casa.
Mia nonna a quel tempo aveva diciannove anni, era molto bel­la. Mia nonna era una ragazza india e a quei tempi le ragazze in­die nelle pianure dell'istmo venivano usate dai figli dei padroni come oggetti per i loro divertimenti amorosi. Era una abitudine, formalizzata da tanto tempo, con tutti i suoi riti. Alla sera i figli dei padroni con i loro amici andavano nelle baracche dei lavoranti, sceglievano le ragazze che volevano e le usavano come volevano. Venivano tutte le sere, a volte ubriachi e violenti. Mai mia nonna, mentre mi raccontava questi avvenimenti della sua storia, non ebbe mai  negli occhi un lampo di amore, mi trasmet­teva sempre una sensazione di assenza, quasi che quei segni sulle spalle che ancora aveva non fossero stati fatti da dei giovanotti stupidi e ignoranti, quasi come che quelle notti lei diventava un burattino di carne senza cervello e senza volontà. Aveva dician­nove anni e conobbe il modo di fare all'amore dei ragazzi bian­chi.
Ma lei doveva andare al nord per trovare fortuna, quei luo­ghi non gliene prospettavano, anzi  doveva ringraziare la Vergine di Guadalupe di essere ancora viva. Una notte scappò dalla pian­tagione e se ne andò verso le montagne, verso il fresco delle al­ture della Sierra. L'aria della Sierra le piacque, le ricordava le montagne attorno al suo villaggio nel Chiapas.
Arrivò ad Oaxaca, era la prima volta che vedeva una città con le chiese tutte dorate all'interno e un grande mercato, e i negozi sotto i portici e fu la prima volta che vide i turisti Gringos con le loro camice a fiori e i calzoni corti e le scarpe da tennis e i calzettoni bianchi fino alle ginocchia. I turisti Gringos compravano tutto nei negozi: cappelli, tappeti, borse, coperte, cinture e braccialetti. Mia nonne era brava a fare i la­vori con il telaio e la lana e con una sfacciataggine che non si credeva di possedere, si offri ad un negoziante di fargli maglio­ni e ponchos colorati che avrebbe rivenduto ai turisti. Il nego­ziante, un meticcio, accettò ma pagava molto poco i suoi lavori. Ma per mia nonna fu importante iniziare quella attività, se vo­gliamo, artigianale. I suoi lavori avevano i colori e i disegni del Chiapas  che erano nuovi per quella zona, non dico che erano più belli  ma forse perché erano nuovi ai turisti piacevano di più, tutti volevano le sue maglie, i suoi tappeti. Pensò di met­tersi in proprio e iniziò a vendere le sue cose, dapprima girando per il mercato e poi creandosi una vera e propria bancarella an­che se con cartoni e legni raccolti in giro per la città.

ottobre 1989


<< Dimmi Geranio, cosa cerchi in queste pianure polverose e quiete, cosa ti spinge oltre il velo del tramonto dell'erg? >>
<< Mio nonno, sono venuto a cercare mio nonno paterno, mio nonno Gilberto che è scappato da Portland il tredici dicembre milleottocentosettantasei. Egli non ha portato nulla con sè, solo il suo bournuss marrone e nulla altro. Non ha detto a nessuno perché andasse ne dove andasse.

DJINN

Gli ambienti abbandonati dai segni dell'uomo, sulla terra, sono respinti dal pensiero immediato dell'uomo moderno. Egli ha una repentina repulsione di fronte all'immagine mentale di una distesa sahariana, sassosa e vuota. Ha il medesimo istinto di re­pulsione di fronte alla foresta equatoriale, non vuota in assolu­to, ma comunque priva di quelle strutture associate alla sua at­tività o presenza.
L'uomo moderno non riesce a recepire i segnali di una pre­sente, seppure recondita e non esuberante attività animale o ve­getale o della più palese attività degli agenti fisici che si at­tua nell'erg del Sahara. Quella zona per l'uomo è priva di vita, è l'essenza del nulla, è il luogo nell'annichilimento delle atti­vità vitali dell'universo, di se stesso, del suo intelletto e del suo stesso pensiero. E' forse per questa capacità che i deserti attirano il turista, egli si vuole trovare nella situazione, tem­poranea e reversibile, di spaesamento e di annullamento.
Ma la persona iniziata alla percezione dei segni non umani vede il deserto come dinamico e vivo, egli stesso è inserito in questa dinamica, nel tempo che è presente, palpabile ai sensi af­finati dal tempo stesso. Ecco quindi che nelle culture delle gen­ti che vivono ai margini o dentro i deserti della terra sono pre­senti delle essenze vitali, personaggi irreali per noi, ma con pieno diritto di cittadinanza nel cuore e nel cervello della gen­te di lì. Ecco che perfino l'Islam, che ha sempre cercato di tra­smettere l'idea della unicità assoluta di Dio, asseconda l'esi­stenza di spiriti, di entità metafisiche soprannaturali. Essi si impossessano del territorio, delle rocce, delle montagne; sono le rocce e le montagne che interagiscono con l'uomo non attraverso le tecniche usuali per noi e con mezzi a noi sconosciuti.
E' proprio per indagare su queste tecniche, per incontrare gli spiriti, che Simona sta preparando il suo viaggio nel deser­to. E' per essere iniziata alla percezione dei segni non umani di quell'ambiente diverso, di quell'ambiente vuoto che Simona andrà in Africa.
Da chi apprendere la necessaria scienza, dove cercare le en­tità metafisiche e come riconoscerle? Simona non è mai andata in Africa. Ci saranno anche lì degli uomini illuminati come in cen­tro America, come Don Juan. Esistono delle porte per penetrare quel nuovo mondo che tenta di scoprire? Da quello che ha potuto scoprire alla sua università nel deserto africano non si usa nes­sun allucinogeno e nessuna terapia estatica, non ha mai sentito parlare di riti sciamanici che si svolgessero fino al limite del Shael sudanese o delle falesie calcaree del Mali e del Burkina.
Simona si è laureata a Genova ed ha sempre tenuto da quei tempi rapporti di amicizia con la sua relatrice, la professoressa Gambi. Fu lei, la signora Gambi che le offri la opportunità di questo viaggio, con l'invito a collaborare alla sua nuova ricer­ca: "Tecniche epistemologiche atte alla percezione dei segni me­tantropici delle popolazioni nomadi del Sahara".
1989

EROISMO


Gli si confuse nella sera l'idea stessa di quello che avreb­be dovuto fare. I suoi libri iniziarono a girare attorno al tavo­lo. Era da poco che aveva cambiato la disposizione ai mobili del­la  stanza. Il tavolo era ora in mezzo al locale, grande con il  globo terrestre di Marco Polo sulla sua destra e la lampada nuova sulla sinistra che illuminava con bella luce chiara il piano del tavolo e le molteplici entità che vi vivevano: quell'enorme por­tapenne fatto con una scatola di scarpe e delle cartoline in un pomeriggio di dicembre di due anni prima, i racconti di Alessan­dro Von Humboldt dei suoi viaggi sulle regioni equinoziali, le sessanta penne tutte diverse con inchiostro blu e nero e le mati­te con le mine grosse e sottili ma sempre molto morbide.
I suoi libri iniziarono a cadere dagli scaffali della bi­blioteca in apparente successione casuale, successione che ri­sultò poi obbediente ad una logica perfetta. Venne giù l'Ulisse di Joyce con un tonfo sordo, di spigolo e si devastò la costola, non fece in tempo a dolersi dei suoi mali che venne investito dal sottile Morte a Venezia di Mann. La città del Sole e Pellegrinag­gio in Oriente data la loro esiguità e la leggerezza fisica furo­no scagliati verso il muro e rimasero lì appiccicati, aperti e con le pagine tutte spiegazzate. Il dramma cominciò quando preci­pitò l'elegante edizione del Milione e nel pavimento prese subito fuoco seguito nel sacrificio da tutto Green e Garcia Marquez.
Il pavimento era ormai ingombro di libri. Vi erano ammuc­chiati e, visti dall'alto, sembravano delle montagne isolate, dei vulcani in un  mare calmo e tranquillo. Alcuni erano come i coni boscosi del centro America, altri si riunivano in catene a pieghe simili a quelle europee e asiatiche. Questo paesaggio iniziò a popolarsi di strani personaggi, strane creature che arrancavano con fatica su per i pendii di carta resi viscidi e untuosi da centinaia di piogge solstiziali che si abbattevano sulle montagne del centro della stanza.
Lui era rimasto sulla sua sedia, davanti al tavolo, ad os­servare quel caos, quel baratro a fianco di sé, come spettatore insignificante ed impotente su quel brandello di storia terre­stre. I libri vicini alla porta iniziarono a coprirsi di uno strato di ghiaccio ed in breve furono coperti dalle calotte gla­ciali Calvino e Castaneda e tutto ciò che rimaneva di Hesse. I vulcani tropicali continuarono a bruciare nelle loro enormi pance pagine e pagine di Garcia Lorca e Leopardi e Lee Master con una lentezza insensibile ed implacabile.
Vedeva quella scena come se dall'alto di un satellite vedes­se il mondo correre verso la sua distruzione e osservava i suoi simili affannarsi con i consueti oggetti di tutti i giorni su tutta quella carta scritta, mangiandola, sporcandola e bruciando­la. I treni a vapore andavano solo ad edizioni economiche e ne usarono due scaffali pieni con dentro Hemingway e altri nord ame­ricani meno famosi. I ferrovieri non si fermarono nemmeno di fronte a Poe e a Conrad: tutto nella caldaia della velocità, del divenire e del progresso che avrebbe portato tutti quegli esseri alla felicità. Scarafaggi e termiti, che di carta si nutrivano, erano i nuovi colonizzatori delle nuove isole che stavano sorgen­do dalla caduta di trattati di storia e di filosofia. Quella car­ta masticata e digerita e rielaborata in cellulosa informe e i­nintelligibile dalle avanguardie della civiltà era la base per l'espansione e il progresso della nuova era. Così finì anche Kant e Platone e Aristotele e le fiabe africane e il Bagdav Gita e il Popul Whu e le Mille e una Notte e il Ramayana.
- << Non rimanere lì ad osservare, a piangere sul mondo di domani, alzati, fa qualcosa, salva qualcosa da quella distruzio­ne! >> -
- << Cosa? Chi salvo? Dove cominciare: spegnere gli incendi, cac­ciare gli scarafaggi, asciugare le acque e i ghiacci? >> -
- << Scappa, prendine uno e mettilo in salvo, mettiti in salvo.>>  Ormai non era più possibile fare nulla. Si alzò dalla sedia, si allontanò dal tavolo già brulicante di grassi vermi affamati, raccolse con infinita pietà e fatica un volume dalla montagna più alta e scappò da quella stanza e da quel futuro, scappò via sem­pre più veloce nel lungo corridoio e nel buco nero oltre il pia­nerottolo. Solo in quel momento, in salvo, si accorse di aver portato con sé una raccolta completa dei romanzi di Wilburn Smit in edizione economica.
Purtroppo il suo eroismo era servito a poco.

1989