TRAS-OS-MONTES

Andrea Agostini
ottobre 2004

 

 

 

 

 


E allora Jose Ora che la festa è finita… che è di te? Che è di me che ho finito il viaggio nel  Tras-os-Montes.
E allora José? Ora che voglio raccontare questo viaggio, da dove cominciare?
Qual’è il congedo ufficiale?
Forse il  saluto  di Castelo Mendo, che poi non è stato un congedo perché il pellegrino ci ha ripensato ed è andato a Sabugal, a Sortelha e addirittura a Monsanto.
Il congedo ufficiale dunque sia il saluto di quel signore anziano, seduto di profilo sul muretto del grande spiazzo davanti alla porta di Castelo Mendo.
Lui ha un bel cappello grigio di panno che gli copre la testa perfettamente glabra, affilato sul davanti fino a diventare una visiera che incombe su grandi occhiali da sole, molto scuri, di linea moderna e alla moda, credo che siano dei Persol. Le stanghette sono fissate ad una cordicella che gli percorre con uno strano vezzo, il volto fino alla base del collo, tra la grande e morbida orecchia, il naso, affilato e appuntito e il segno esile della bocca. Sul fianco destro tiene appoggiato con noncuranza, sembra li abbandonato, un bastone di legno marrone arcuato alla sommità.
E’ parecchio tempo che sto qui seduto a fare nulla, a respirare quest’aria di ottobre pregna di sottili rumori, umori e solitudine. E’ parecchio tempo che osservo José a imprimermi nella memoria il suo ricordo che mi certifichi la fine di questo viaggio. Finalmente lo saluto. Boa tarde…. E lui mi risponde. Boa tarde... Evidentemente, come io da tempo lo stavo ad osservare, anche lui mi stava ad osservare da tempo. Sei spagnolo… No sono italiano… Ma la targa della macchina “a matricula do seu carro” è spagnola... Si ho noleggiato la macchina in Spagna, a Barcellona. Ora sto tornando a casa: con la macchina fino a Barcellona e poi con il treno fino in Italia... E’ strano, qui vengono tanti spagnoli, vengono anche i portoghesi dalle altre parti del Portogallo, ma vengono tanti spagnoli e poi inglesi, tedeschi, francesi ma italiani no, non ne vengono mai. Ma forse gli italiani vanno a Lisboa o al mare in Algarve, in posti dove ci sono divertimenti e turismo, qui non c’è nulla, case vecchie e abbandono…
BOA VIAGEM.   Adeus Portugal.    Adeus José.

Dietro José inizia Castelo Mendo. La porta, ad arco tondo, tra due torri quadrate di granito, è guardata da due leoni, o due verri. Le teste degli animali sono rese irriconoscibili dal tempo, dal passaggio della gente, dagli urti delle ruote dei carri. Una targa ricorda la visita del presidente della Repubblica del 31 marzo 1988. Non c’è nessuno fuori. Varco la porta, dentro non c’è nessuno, la strada sale leggermente tra piccole case di granito che al piano superiore propongono leggere verande. Alcune con colonne con tanto di capitello e tutti i crismi della classicità ionica. Questo posto è uno scrigno di delicata, sommessa arte: a volte le finestre vengono circondate, meglio coronate, da esili fregi scolpiti a linee flessuose e vagamente manueline, ai lati delle finestre escono dal muro di granito delle mensole lavorate e variamente cesellate con figure di uomini e animali. L’entrata di una casa propone ai sui lati delle strane finestre con massicce colonnine di granito che le fanno diventare delle minuscole bifore, squadrate e scure. Quelle aperture hanno delle assonanze con le alfiz delle architetture arabe e mozarabiche.
Nella piazza del pelourinho, assolutamente solitaria, il sole gioca con le forme e i colori. Una croce di granito appoggiata alla chiesa ingigantisce la sua ombra, precisa e nera, sul muro bianco e liscio. La scala grigia sale esile e ripida all’esterno del campanile che termina con un’acuminata copertura piramidale dove rimane nascosto un piccolo quadrante nero di orologio. Mi siedo sul basamento di cinque alti scalini, della colonna, che sembra una lanterna dalla testa esagonale. Non ha bracci sporgenti, non ferri a cui attaccare i condannati, solo una fila di lampadine avvoltolata attorno alla roccia rugosa. Le lampadine proseguono verso un tetto da una parte e verso la veranda al piano alto di una casa, dall’altra. Dalla casa di fronte, un piccolo balcone, investe la piazza con una cascata di colore rosso dei garofani che traboccano dalle volute nere del ferro battuto. In alto persiste l’azzurro intenso del cielo. Abbasso finalmente lo sguardo,  non rimane che ascoltare attentamente i rumori: uccelli e cani che abbaiano. Abbaiare a tratti di cani e un costante tappeto del cinguettio di piccoli uccelli che abitano i tetti e le colline attorno al villaggio. Improvviso e amplificato mi arriva lo scalpiccio di zoccoli sul granito della strada. Cerco il rumore nuovo, la in fondo sta salendo una signora che accompagna una capra e degli asini. Li avevo incontrati prima,  lontano dal villaggio, con il primo somaro che trottolava verso il paese a testa bassa con le due zampe destre impastoiate da un lungo laccio di cuoio e quello dietro chiazzato di grigio con le gambe libere gli andava dietro, ultimo animale una capretta anche lei scura. Eccoli di nuovo dietro la fontana che sta vicino alla chiesa matriz. La vecchia é completamente vestita di nero, anche con un fazzoletto nero in testa, legato alla moda dei pirati così da lasciare da una parte una lunga pezza di stoffa pendolante su una spalla. Qui al nord non c’è nessun altro copricapo sopra come il cappello nero di panno a larghe falde che portano le donne in Alentejo o in Algarve.  La saluto.  BOM DIA… Lei mi risponde, forse troppo velocemente di quanto mi sarei aspettato. BOM DIA… La capra invece si ferma e mi guarda, ruota la testa come fanno spesso i cani, tende verso di me il suo muso antico e sacrificale, mi fissa dai suoi occhi posti su due piani disuguali, sembra curiosa di me, sembra che lei mi osservi. Invece tutto si ferma, i rumori, gli odori, le immagini non ci sono più, rimangono solo quei due profondi pozzi scuri dove si perdono tutte le sensazioni fin lì accumulate. Tutto precipita in fondo a quegli occhi, il tempo è stregato, sospeso, fissato a quegli occhi e forse a quel muso neri di capra. Dall’infinito, la vecchia richiama la capra: ANDA… con tono secco e perentorio. L’animale non si muove e continua a fissarmi. Ma ormai il mondo ha ripreso a funzionare, il tempo a rotolare, di nuovo, attorno al fuso. Sento ancora una volta l’ordine. Sarà per me o per l’animale? E per andare dove? Chi saranno mai veramente la vecchia e la capra che ho avuto la ventura di incontrare?  ANDA… di nuovo più secco e incisivo. Questa volta la capra gira lentamente il muso verso la strada in salita e inizia ad andare, ANDA.  Tutti quattro se ne vanno via e mi lasciano li con la mia pessima registrazione.
In alto, sulla sommità del colle c’era il castello, ora non rimangono che grossi conci di granito variamente maldisposti attorno ad una struttura ellittica con archi e i resti di una chiesa completamente priva del tetto. In basso il paese appare ancora più piccolo, raccolto e grazioso attorno al suo aguzzo campanile.
Ecco.
Potrebbe anche bastare, il viaggio potrebbe essere finito, non ho più nulla da chiedere a questo Portogallo, ancora elegante, autentico, familiare, ancora una volta in sintonia con me. Mi potrei congedare, ora, senza rimpianti, con eleganza.
BOA VIAGEM.   Adeus Portugal.    Adeus José.
Ma già, ancora una volta, inizia la voglia di tornare. Ma come, ancora non sei via? “Il viaggio non finisce mai, il viaggiatore ritorna, sempre”. Alcuni posti, con il passare del tempo, con l’affinarsi della cultura del viaggiare consapevole, diventano luoghi di pellegrinaggio, anzi è necessario che nel viaggio ci siano degli obiettivi di pellegrinaggio. Se non sei “Un pellegrino” non vale. In ogni “viaggio” ci dovrà quindi essere un punto preciso a cui tendere e da cui ritornare. Alcuni luoghi invece assumono una strana valenza in cui gli arrivi e le partenze si ripetono nel tempo, apparentemente senza discontinuità.
Ecco che il pellegrino dunque ripensa al suo itinerario, percorrendo in macchina la breve strada sterrata, prima di arrivare all’asfalto, ha già deciso che andrà anche a Sabugal, a Sortelha forse anche a Monsanto. Che la Castiglia aspetti, che la Catalogna aspetti. Si vada avanti verso sud per questa stretta ma buona strada asfaltata.
Il punto del ritorno sia dunque Monsanto, si faccia il pellegrinaggio. Non si dica che oggi è sabato e che saranno tutti in giro  e che quelli sono posti che attirano un sacco di gente e che saranno pieni di turisti e di beceri ambulanti a vender souvenirs di ogni sorta.  Monsanto é stato eletto nel passato il villaggio più portoghese del Portogallo, già quindi ha una aura di eccessiva ufficialità che ha sempre minato i rapporti tra me e quella località. Mi sono sempre interessato al quel luogo con circospezione, quasi con paura della sua storia, ma alla fine Monsanto sarà dura pietra e la pietra rimane li intatta per i tempi della storia, alla fine Monsanto sarà pura aria, luce, ed erba selvatica e la storia non si occupa di erba selvatica, di aria e di luce. Avrò sicuramente gli strumenti e la possibilità di farmi una mia storia di Monsanto.
A castello Bom non mi ero fermato, complice Saramago che a volte diventa troppo brontolone. La strada comunque è deliziosa, asfalto buono serpeggiante tra questi anfratti di granito e aria buona, a tratti sale e scende un poco tanto da riuscire a vedere un largo spazio di paesaggio. Ecco il fiume Choa che qui non produce nessuna valle ma scorre incassato tra i graniti, ecco in fondo il ponte della strada a grande comunicazione che porta da Ciudad Rodrigo, in Castiglia, a Guarda. Il ponte, altissimo, sta per essere raddoppiato con grandi lavori. Sui piloni sono aggrappate enormi gru che sembrano dei braccetti lillipuziani in cima a quei mastodonti di  ingegneria moderna. Io invece me ne sto tranquillo nella mia strada arcaica e tortuosa  e penso con un certa supponenza:  Su quella strada sono buoni tutti a passarci, !!!!!! La strada migliora, l’asfalto si fa più liscio e spariscono salite e discese repentine, spariscono le curve. Passo oltre il cantiere dove preparano i prefabbricati per il ponte sul fiume Choa, giro verso sud. Punto con tenerezza e decisione verso Sabugal. La raggiungo presto e bene.

SORTELHA E AS BRUXAS DO PORTUGAL


E’ una sensazione, magari una fissazione che mi è venuta da un po’ di tempo, credo che ogni tanto di incontrare una strega. Mi capita di parlare di solito con le signore anziane, di rado con gli uomini, e talvolta ho una rapida, vaga percezione che quella signora anziana sappia più di quel che dovrebbe sapere, sul mondo e su di me,  Le signore anziane sono più disponibili, li davanti alla porta delle loro case, magari ho uno scambio  di parole abbastanza prevedibile sulle caratteristiche della loro terra e dell’ Italia, comunque sempre molto lontana. A volte il loro eloquio è niente affatto prevedibile. Una di esse, in Alentejo, quando gli chiedevo delle loro usanze durante la settimana santa, mi domanda abbastanza sconcertata  “Ma di dove sei? Non siete cristiani in Italia?”.
A Sortelha, delle minute vecchine sono disposte negli angoli strategici del percorso della visita. Fanno cestini di pizzo o fanno finta di fare cestini di pizzo, di sicuro ti aspettano per vendere i loro cestini di pizzo. Non so se il loro vestire arcaico e tradizionale è autentico o solo funzionale al commercio della loro mercanzia. Non sembrano streghe,  ma le streghe le trovi dove meno te le aspetti.
Era una strega, era una strana signora comunque quella che stava seduta a Monsanto e guardava fissa la casa in fondo alla via. La casa che sarà cambiata almeno dieci volte nel tempo dalla sua prima costruzione e lei, la signora vestita di nero, sarà stata sempre li a guardare fisso il fondo della strada
E l’altra che ho incontrato davanti alla fontana della chiesa dove forse si è sposato il re Pietro il crudele a Bragança. Mi ha detto qualcosa sui piccioni e sulla cacca dei piccioni, oltre all’orario della  messa (a Braganza gli uccelli fanno molta cacca).
E la vecchia di Castelo Mendo o la capra.  Chi sarà stata la bruxa tra le due?

MONSANTO

Si diceva Monsanto è pietra, massi di granito rotondi, impilati su una montagna che per il Portogallo è alta, da lontano la montagna di Monsanto sembra un’ antenna, una torre, una sentinella, un vulcano. Quando sali scopri le case e la torre e il rosso vivo del muschio sulle tegole sopra i tetti delle case, case di granito scuro a grossi blocchi. Non si parcheggia a Monsanto lo spazio non c’è, all’inizio del paese alcuni petulanti vendono fichi seduti prima e dopo della fontana,. Anche a Sortelha c’erano le vecchine petulanti che vendevano cestini, nessuno a Castelo Bom o ad Almeida.  Da questa fontana, da questi venditori di fichi (sicofanti, furfanti, affabulanti, antistanti i santi) Monsanto è deludente, la salita è faticosa, ma c’è una buona luce pomeridiana, salgo fino ad un bar, per comprare un gelato. Il locale è giustamente scuro e amabilmente deserto, ancora amabilmente portoghese o come mi aspetto che sia un bar amabilmente portoghese, mi riprendo un poco dalla delusione e salgo ancora, su per la stradina ufficiale praticamente fasciata da granito. Quello della pavimentazione acciottolata, dei conci che compongono le case e dei giganteschi massi sferici che erano li prima delle case. La gente ha costruito le case attorno ai massi di granito e le rotondità della roccia te la trovi, dentro,  in cucina e in camera da letto. Salgo ancora più in alto verso il castello che castello non è perché non ci sono muri o torri. Forse ce n’erano nel passato ma ora solo le rocce della sommità fanno finta di essere un castello imprendibile. Ancora due vecchine, sedute che cuciono e vendono i cestini  di pizzo e finalmente gli animali: là odore di capre penetrante e capre che razzolano tra i sentieri del sito e lì dietro dentro un recinto di sassi un grosso porco rosa. Più in alto nessuno solo l’inossidabile acciaiosa antenna dei maledetti cellulari. Il castello di Monsanto, che castello non è,  è piuttosto un sito arcano e arcaico, abbandonato dall’uomo, solitario di  rocce rotonde, porchi e capre e telefonia. Ora non c’è vento e non c’è pioggia, non c’è nessuno, solo questo cimitero di rocce di granito rotondeggianti ma che possono assumere le forme che vuoi. Ora non ho voglia di giocare con le forme, la sfera più grande di tutte è proprio sull’orlo del “kaos” un alito di vento, una spinta o una preghiera potrebbe farla rotolare sopra la pianura della Beira Baixa e farla giungere al mare. No!! Non si muove, nessuno e nulla la fa muovere. Fa caldo, le capre saltano e titillano laggiù poco più in basso. Il porco sta fermo e muto. Sarà anche drammatico e disdicevole ma Monsanto mi è venuta a noia. Che noia Monsanto!!! Mi sforzerò un’altra volta, in una altro viaggio  a trovare l’arcano che c’è in questo sito …. Non è questo il punto da cui si ritorna. No!!! E’ ora di scendere, vado comunque giù per altre strade, per vicoli che finalmente sanno di bucato a sapone, magari non eleganti con quelle grandi mutande da donna stese e bianche.  Mi rinfranco ancora percorrendo la strada seguente che questa volta sa di minestra calda, lenta nel bollire con il cavolo, le patate e le cipolle. La situazione migliora ancora con l’odore della cottura del pesce, non alla brace, non forte ma tenue e pervasivo che filtra da dentro le case qui sulla stretta via. Odore lungo, come di un pesce che si dovrà cucinare per molto tempo, a fuoco lento, nel suo sugo che si rapprende e si coagula in un sapore più denso e marino. Già!! Sentore di mare, addirittura di oceano quassù, in questa landa di montagna, dove si dovrebbe fare la zuppa con il granito. E che sapore avrebbe la sopa de pedra?? E’ singolare che ho dovuto incorrere nell’aiuto dell’oceano per entrare in risonanza, almeno un poco con questo sito altrimenti troppo lontano da me. E che idea fare la zuppa con il granito, forse quella vecchia ferma e statica sull’uscio di casa, vestita di nero è capace di fare la sopa de pedra. Nel Ribatejo la fanno con i fagioli. Ma qui le streghe, le bruxe, la fanno con i veri graniti e fanno delle buone zuppe di pesce. Già, quella vecchia signora che sta seduta davanti alla porta di casa. Da tempo sta fissa ad osservare l’infilata della strada e in fondo le costruzioni le case di immancabile granito. Da quanto tempo quella signora è li, da dieci minuti, il tempo paragonabile a quello che io posso interpretare ed utilizzare, da ieri, da un anno da diecimila anni, dall’inizio dei tempi? Lei avrà visto cambiare le case che sta osservando. Dapprima sole rocce e capanne e poi la gente che le ha abitate nella storia: Lusitani, Celtiberi, Visigoti, Mauri, Borgognoni, Mozarabi, fino ad ora con i turisti provenienti da buona parte dell’ Europa con le precise e decise ristrutturazioni del governo portoghese e del FEDER della Comunità Europea.
Basta!!!
Scendo ormai stanco la montagna, bolino lento verso sud est, oltrepasso Penha Garçia, Monfortinho, Termas de Monfortinho, quindi il cartello blu con le dodici stelle gialle della Comunità Europea  e la scritta “a 300 metri ESPANHA” Oltre il fiume repentinamente, drammaticamente,  il mondo si allarga, le montagne si alzano, gli orizzonti si allontanano, salta su dal nulla, una tetra plaza de toros municipale.
Ma torniamo indietro e proviamo a raccontare tutto diligentemente dall’inizio.

BRAGANCA

Bragança è una meta, un luogo di arrivo dopo tutta la traversata della penisola iberica da Barcellona. Bragança è ormai una città familiare in cui mi fermo volentieri. Non ha le pretese ne le velleità di una meta turistica ufficiale ne di una grande città e infatti non evidenzia i guasti di queste categorie: non c’è affatto confusione ne fretta ne traffico ne ricerca di modernità ne inseguimento dei miti di tendenza come da anni ormai ho riscontrato a Lisboa, a Porto, in alcune parti dell’Alentejo o in Algarve. No, Bragança sembra immutabile nelle sue categorie. Rimane necessariamente lontana, isolata, splendidamente altera, arroccata nella sua montagna, dolcemente polverosa e abbandonata, decadente, lenta. Sono venuto diverse volte in questi anni e ho ritrovato gli stessi lavori in corso giù nella città bassa, le stesse transennature alle case pericolanti della città alta, le stesse insegne nei negozi della Rua Combatentes da grande guerra. E’ una sensazione che scalda il cuore, come avere la convinzione di poter contare su qualcosa di sicuro e certo una volta che arrivi, su una mamma che ti aspetta quando ritorni a casa. Puoi arrivare anche tardi e troverai sempre la brava signora del ristorante a rifocillarti con qualità e quantità di cibo che non ti ricordavi più. Ancora, come ogni volta, abituato alla classica successione dei piatti in Italia, l’unica portata alla moda portoghese mi sorprende sempre.   Puoi arrivare a notte fonda, troverai sempre il tuo albergo ad accoglierti lassù sulla collina con quella vista senza prezzo della città murata.
Questa volta sono arrivato tardi, di notte. Il tramonto, screziato e straziante, mi ha colto tra Zamora e Alcanices. Ho lasciato dietro, per un altro viaggio, da qualche parte, attorno ai fosforici bacini idroelettrici del fiume Esla, la piccola chiesa di  S. Pedro de la Nave,  uno degli emblemi dell’architettura sacra dei Goti iberici. Il passaggio del rio Maças, il confine tra Spagna e Portogallo è stato quasi impercettibile, non eroico, ne drammatico come quello del rientro in Spagna. La strada, divenuta stretta, sale con rapide curve in mezzo ad un compatto bosco di probabili lecci. In alto le fronde opache, scure, frastagliano il bianco disco della luna occidentale. In cima alla salita finalmente il vasto altopiano argentato e glabro. Viziato da tanta letteratura, cerco da qualche parte la lontana e luminosa stella del Tras Os Montes, ma la città non da segno di se: non luci diffuse verso il cielo, non fuochi, ne rumori, ne odori. Sono ormai sulla IP4, le scie luminose gialle incollate all’asfalto mi accompagnano in dieci minuti fino ad un ampia curva verso destra, la strada inizia a circondare a nord Bragança. La cittadella è lassù piantata, forte, sopra la collina, a sinistra, scura e granitica in fronte alla notte sopra un reticolo di lampioni che la sorregge e la esalta. Arrivo veloce in centro, troppo italiano, all’incrocio subito a monte dell’ufficio postale, sono costretto ad una brusca frenata e a chiedere scusa a due ragazze che stavano attraversando la strada. In Portogallo le strisce pedonali sono una cosa seria.  Nella Pousada è sabato notte, ci sono signore troppo tirate, troppo scollate e con i tacchi troppo alti per il mio aspetto e per la mia condizione di percorritore solitario di strade. Esco, andrò a cenare da Dom Fernando, l’avevo anche promesso a Valeria. La cittadella è solitaria, silenziosa e buia, il mio ristorante è chiuso per ferie, con tanto di cartello. Dovrò trovarmi un altro mio ristorante nella Bragança nuova, non sarà difficile, giù in Rua Combatentes da grande guerra la signora mi offre un generoso, succulento e guarnitissimo lombo de porco com castanhas.
Non ho mai amato le prime ore del mattino e l’alba ma la madrugada sulla cittadella di Bragança è uno spettacolo affascinante e meraviglioso, coinvolge plurime esperienze sensitive, ma anche esperienze culturali e storiche. Lascio dunque aperte le tende della grande finestra che da sulla terrazza che si apre verso la cittadella li sotto e verso est. La domenica i primi lucori mi invitano a sedere sulla terrazza e ad aspettare le sensazioni orientali, sono volto verso oriente, verso la luce… orientato come una chiesa romanica. E’ la fine di settembre, l’aria è fresca e trasparente. Il negrore della terra e della cittadella incombe ancora su di me e sui tenui colori che salgono da dietro. I verdi scuro che coronano l’arco del colle e i contorni di granito del castello e delle mura, ancora, tengono imbottigliata la mente con i loro compatti intrecci vegetali. Riescono ad uscire dalla discontinua massa oscura di mura, tetti, rocce, case, strade, piazze solo i guizzi di alcuni cipressi lì sulla sinistra. Ma è solo un veloce pensiero, presto risaltano nel chiarore del cielo i contorni di una, di due, di tre torri di granito, la linea sale verso destra spezzettata e merlata fino al poderoso maschio del castello, scende improvvisa verso il bianco campanile della bianca asimmetrica chiesa e ancora più in basso sulla domus municipalis e finalmente sul grande albero isolato sulla sommità della collina. Intanto in basso escono alla vista tetti rossi e bianche finestre su bianche facciate di case. E’ il mattino, abbaiano i cani, cantano i galli, tre aerei vengono dentro le loro strisce di vapore verso di me, vanno a Porto o Lisboa. Vengono i rumori dei motorini e portano la antica memoria dell’odore della miscela dei loro due tempi. Ritorno ragazzo alla mia Vespa GS 160 e ai barattolini di olio da mescolare alla benzina per fare la miscela al cinque per cento. Miscela grassa e fumosa per quel motore di dieci anni prima ma squillante e argentino come un orologio di una valle tirolese. Ancora una volta un aggancio vitale al passato. “Ah Bragança mia infanzia e mio focolare”  potrei esagerare a pensare con Fernando Pessoa.  Arrivano i vari canti  modulati di ogni uccellino che si sveglia. E la dietro,  ora percettibili nuvole di colore ancora vago vengono dalla Spagna. Riuscirò a mantenere nella memoria questa madrugada a Bragança? Non credo, ma anche se fosse, potrei sempre ritornare a godere di questa meraviglia e di questo idillio, si creda, non esagerato. Credo che la collina della cittadella di Bragança, le sue costruzioni e la posizione da cui si ha questa percezione sia oggettivamente uno spettacolo di eccellenza, anche per non maniaci come me. Magari come dice il mio maestro di viaggi, in un altro periodo dell’anno, con il sole che sorge da un altro punto del mondo la in Spagna e con alti cani, galli, uccelli, persone, motorini, aerei. L’altra volta era marzo, ora settembre la prossima volta? Ci sarà di sicuro una prossima volta. Ecco dunque un’altra promessa di pellegrinaggio ed un altro luogo di pellegrinaggio.
“A viagem nao acaba nunca. So os viajantes acabam. E mesmo estes podem prolongar-se em memoria, em lembrança, em narrativa.  Quando o viajante se se sentou na areia da praia e disse: - nao ha mais quem ver - , sabia que nao era assim. O fim duma viagem è apena o começo doutra. E’ preciso ver que o que nao foi visto, ver outra vez o que se viu ja, ver na Primavera o que se vira no Verao, ver de dia o que se viu de noite, mom o sol onde primerìiramente a chuva caia, ver a seara verde, o fruto maduro, a pedra que mudou de lugar,  a sombra que aqui nao estava. E’ preciso voltar aos passos que foram dados, para os repetir, para traçsar caminhos novos ao lado deles. E’ preciso recomençar a viagem. Sempre. O viajante volta ja.”1
La mattina della domenica trascorre lenta e indolente tra la cittadella e la città bassa, tra la Domus Municipalis e il Museu Abade Bacal. La piazza della Se, illuminata ancora di una calda luce, raccoglie ospiti d’altri tempi: un signore corposo, con la giacca di velluto, una vistosa, larga cravatta rossa, un cappello nero a larga falda e i pantaloni un poco corti che lasciano scoperte le gambe, rimane a lungo seduto su una panchina gremita dai fiori, altri due se ne stanno davanti alla sede della banca BCP, altri due uomini, ognuno per proprio conto, attraversano la piazza, lenti con le mani in tasca. Solo uomini, perché? Forse le donne sono tutte alla messa.  La Domus Municipalis, su nella cittadella, stavolta è aperta, non c’è nessun visitatore ne la signora che dovrebbe fungere da guida o da custode, avrei fatto volentieri delle chiacchiere con lei. La guida recita che è una rara costruzione ad uso civile del romanico portoghese, edificata sopra una cisterna preesistente. Ha una forma pentagonale asimmetrica, forse per attagliarsi veramente alla cisterna e al sito di sommità del colle E’ di un solo piano, ora, con il tetto di tegole rosse, si sale all’interno da alcuni ripidi gradini, si e dentro in un unico grande locale fresco di granito, illuminato da decine di finestre ad arco rotondo. Un basso sedile di granito, per i maggiorenti del paese o per gli spettatori delle sedute pubbliche, corre attorno al perimetro e alla base delle finestre. Ora i consigli comunali non si fanno più qui e questo è diventato un luogo della memoria, della celebrazione di personaggi famosi nel tempo e delle manifestazioni di gemellaggio con altre città lontane. Lontane si laggiù in Europa ma ancora di più lì in Castiglia, come a tenersi buoni ancora oggi quei vicini chiassosi, invadenti e prepotenti. Il muro è costellato di sculture e targhe, non mancano retaggi di fascisteggiante memoria e i busti di navigatori e semplici marinai:

“Visita do Chefe do Estrado Sinhor General Carmona – II IX MCMXLI”
“Geminaçao Bragança – Pavillon sous-Bois – 10 junho 1996”
“850 anhos do tratado de Zamora – 8 dicembre 1998”
“Geminaçao Bragança-Zamora – 28 ottobre 1984”
Ora regna il perfetta quiete della domenica mattina, nessuna fanfara, o plotone d’onore, non uno squillo di tromba o un sciabola saettante nel cielo blu, non un generale, un primo ministro, un vescovo, un prete, nessuno, solo il silenzio. Frastornato da tutta quella ufficialità ed eroismo, una volta fuori osservo la torre del menagem con nuovo interesse. E’ un museo militare, non mi interessa il dentro, ma la costruzione è bella, massiccia si, di granito e fortemente merlata, ma elegante ed alta con i torricini aggettanti ai quattro vertici che la fanno sembrare una dimora rinascimentale, ricercata e gentile. Più in basso il pelourinho ha il suo piedistallo su un grande verro di granito. La colonna trafigge il povero animale che si appiattisce quasi al dolore e alla violenza. E’ forse il verro più arcaico che ho visto in questo viaggio, rozzamente scolpita nei soli lineamenti principali, non occhi, orecchie, particolari anatomici, solo abbozzi di zampe e muso porcino e su questo ultimo vi è ricavata una conca, una cavità, per deporre oggetti sacrificali o per attingere a una potenza metafisica non so. Il pelourinho medievale prevarica una scultura preistorica, il moderno che avanza sanziona cruentamente il vecchio? Non avevo mai pensato ad una cosa medievale come al nuovo che avanza. Giù nella città nuova, nel museo Abade de Bacal non c’è nessuno, sono solo, addirittura sopraffatto da tutti quei custodi che non mi perdono di vista per un attimo. Hanno un atteggiamento attento, forse sospettoso, quasi inquisitorio ma nello stesso tempo riverente: mi aprono le varie porte al passaggio tra una stanza e l’altra. Non ci sono tutte le Porche che credevo di trovare, nella sala dell’archeologia romana amorevolmente conservate steli, cippi stradali, epigrafi tombali provenienti fino da Mirando do Douro e da Picote, e poi ritrovo ben grande sul muro una citazione da “Memorie di Adriano” della Yourcenaur.O

ZOCCOLO DURO DEL TRAS-OS-MONTES

Il richiamo letterario di Rio de Onor è fortissimo, mi stanno chiamando da laggiù o da lassù, chi sa? Sia Saramago che Llamanzares, ma tutti e due mi avevano taciuto un particolare non marginale, sulla strada di ventidue chilometri  che conduce al villaggio a cavallo di una frontiera inutile con la terra di proprietà della stessa comunità sia di qua e sia di la di esili cippi di roccia bianca con su segnati “P” e “E”. La strada, meravigliosamente rettilinea, e dolcemente ondulata su un placido, attraente, magnetico, selvaggio paesaggio, sormontato da un cielo luminoso di un azzurro occidentale a sbuffi ascendenti di nuvole di vario bianco, ha il fondo orribilmente sassoso, terribile tanto che mi costringe al ritorno. La strada per Vinhais è asfaltata e buona. Per unanime coro di tutte le mie guide, sto attraversando la parte più selvaggia e arcaica del Tras-Os- Montes, il territorio, più isolato, più lontano, più povero di tutto il Portogallo. Una di esse cita: “Il Tras Os Montes, all’estremo nordorientale del Portogallo, è una zona per i viaggiatori più intrepidi, perché non sempre offre le moderne comodità. La parola tras (oltre) descrive perfettamente questa regione, che si trova isolata dal resto del paese da catene montuose e da vie di comunicazione insufficienti, prostrata da un’opprimente povertà cha ha obbligato i lavoratori di quasi tutti i paesi a emigrare nelle grandi città e nei paesi sviluppati del Nordeuropea o oltreoceano”. Un’altra recita: “Probabilmente questa vecchia regione storica è una delle più primitive dell’Europa civilizzata, insieme alle lande più remote, …. e alle zone interne della Sardegna, della Sicilia e della Jugoslavia”.  Vecchia e cattiva letteratura, in cui compaiono termini ormai inusuali come paesi sviluppati o Jugoslavia, in cui si richiedono patenti di viaggiatori intrepidi, ma letteratura che ha influenzato il sentire comune della gente e dei turisti, letteratura che ha comunque formato generazioni di persone. Sono dunque curioso di addentrarmi in uno degli “zoccoli duri” della nostra Europa.
La strada passa il fiume Tuela, che proviene dalla Galizia e più a sud si unisce con il Rabacal a formare il Tua, scende e poi risale formando una conca dove le acque si allargano a formare una specie di lago su cui d’estate i giovani fanno il bagno. Ora non c’è nessuno, ne sul bordo del lago ne sulla sconnessa e sassosa strada che scende laggiù, devo fermare la macchina e proseguire a piedi. Incontro una giovane coppia: lui dentro un marsupio, sul davanti tiene un bimbo piccolissimo, un cane con una lontana aria da pastore tedesco è con loro. Il gruppo ha l’aspetto alternativo e della protesta del nostro passato.  Vinhais  è un paese singolare, appare diviso in due da una linea immaginaria: il paese dei vivi e il paese abbandonato, il paese fantasma. Di qua gli uomini con il cappello che stanno seduti in fila davanti al bar a centellinare le chiacchiere più che il caffè o la birra o che so io, di qua i cani gialli sdraiati sull’asfalto e sul breccino delle piazze, di qua ragazzini che passeggiano a coppie, giovani che fanno urlare i motori delle loro moto giapponesi e delle loro Renault. Di la nessuno: accenni di un castello, vie acciottolate sconnesse, abitazioni abbandonate e cadenti. Sul confine tra i due Vinhais, una panchina di cemento con un vecchio seduto, col bastone e il cappello, perfettamente fermo e silenzioso. Di qua: rumore e gente che si muove, di la nessuno. Solo rocce, granito. Il granito delle case si confonde con il granito dei muri a secco e con il granito del paesaggio dell’intorno. Nella piazza sassosa, su un piedistallo a gradini di roccia grigia, il pelourinho, di granito come tutto, ha delle forme animalesche, dalla sommità escono quattro teste di serpenti con le bocche aperte verso il cielo, da una bocca penzola malamente un filo con una lampadina attaccata, sotto le teste un fregio a treccia sostiene delle mani aperte, sopra i serpenti il granito si stringe a cupola scolpita e sulla sommità troneggia la sfera armillare del re del Portogallo. Solo graniti grigi per alcuni lunghissimi minuti, non un rumore, uno scalpicio, non  un odore, non una folata di vento, nulla per almeno venti minuti. Poi una immagine di azulejos blu e gialli della Madonna su un muro ancora bianco tra due mensole costruite per sostenere, ormai trapassati vasi di fiori, una immagine della madonna tra due finestre chiuse, sigillate da mattoni forati. Poi ancora catenarie di panni colorati e stesi ad asciugare, un sottile e pervasivo odore di mosto in  ebollizione, alcuni carri agricoli parcheggiati sotto quelle mura di granito, due  furgoni rossissimi del “Correios”, un gatto bianco e nero  dietro un cespuglio verde che cresce nella piazza sassosa, alcune voci di donne, forse.  La Vinhais di sola roccia, inerte e grigia, mostra a poco a poco la sua vita e il suo colore. Sarà un Portogallo difficile da vedere o un Portogallo che mi sono costruito dopo che lo ho letto sulle guide di cui sparlavo prima?
Cosa sto cercando in questo nuovo viaggio in Portogallo? Sto scendendo un fiume Il Douro, prima Duero e inseguendo i suoi paesi e paesaggi dalla alta Sòria, alle vigne della Castiglia, alle vigne del Porto e del Vinho Verde. Vorrei inseguire le ombre, purtroppo ormai solo ombre dei nostri antenati, i Goti dell’Iberia, i Visigoti. Vorrei avvicinarmi alle emozioni che questa terrà ha fatto vivere a uno dei suoi figli del 900: Adolfo Rocha, che ha trasformato nel più silenzioso, appartato, umile poeta iberico. Per opera di questa terra il medico Adolfo Rocha è diventato Miguel Torga: Miguel, ibericamente come Cervantes e Unamuno, Torga come l’erba umile e semplice che cresce spontanea aggrappata a questi graniti. Nel Tras-os-Montes visse anche Camilo Castelo Branco, popolare scrittore romantico dell’800 che si comportò nella sua esistenza esattamente come i personaggi dei suoi romanzi: Figlio bastardo di un nobile e di una serva, matto, seduttore di ragazzine  che poi abbandonava a volte con figli, sposato per la prima volta a sedici anni con una più giovane di lui, avventuriero,  rapitore, assaltatore di conventi, trafugatore di resti umani che conservava in casa,  condannato alla prigione per adulterio e infine suicida con un colpo di pistola.  Si, credo di averne a sufficienza per i miei pellegrinaggi, e se non bastasse ci sono i villaggi natali di Diogo Cao e di Ferdinando Magellano e forse Pedro Alvarez Cabral: Vila Real, Sabrosa e forse Belmonte che sta nella Beira Alta.
E’ giustificabile che da questi luoghi di terra e di graniti e piante basse sia uscito un poeta contadino, minimalista come Miguel Torga. Ma quale intesa ha spinto, oltre cinquecento anni fa, gente di qui fino a raggiungere, marinai del mare Oceano, uno le estreme coste dell’Africa, l’altro di fare il giro di tutto il vasto mondo e l’altro ancora di raggiungere il Brasile. 
Seguono altri paesi fantasma, in un paesaggio fantastico, mai visto, di lontane creste affilate e oblique che si stagliano nel paesaggio come enormi denti di sega, di montagne coniche isolate, di pianori posti a livelli diversi e tagliati improvvisamente da ripe verticali. Su tutto una vegetazione assente, a tratti, discontinua e avara, mai insistente, fa risaltare ancora di più le linee dei monti e i meandri mentali di questa litosfera. Tra Rebordelo e Lebuçao la strada scende nella profonda e bianca fessura del fiume Rabacal, a Lebuçao una deviazione verso sud evoca la città di Mirandela, sono tentato di volgere il muso dell’auto verso quelle lunghe  e seducenti creste di colline azzurre, vado verso quella direzione per qualche chilometro, mi fermo, indeciso, osservo quel mondo che forse non vedrò più con tutta la forza e la memoria che mi credo capace. Torno indietro fino al paese. Nello spiazzo dove si apre il bar e dove gli uomini stanno seduti su delle sedie di plastica, sotto il sole, stanno sdraiati in varie posizioni abbandonate dei cani gialli. Questo Portogallo è cani gialli al sole e uomini che guardano i cani gialli al sole e contano le automobili che passano. Saluto i cani e i signori, devo proseguire per Chaves con la consapevolezza di aver perso qualcosa e di non aver colto una possibilità!!! Le seducenti creste di colli azzurri, i cani gialli o i guardatori di cani o cosa altro? A Chaves allora… Attraverso altri fantastici o fantasmici villaggi isolati: Pedome, Tronco…  Ad Aguas Frias il paesaggio cambia, si fa più aperto, vegetale, ridente. La strada scende verso una valle più  ampia e più ricca di acqua, si notano abitazioni sparse, prima no, forse di la non si poteva abitare in case isolate. Ora si notano case con verande al piano superiore,  case costruite anche con il legno, di la quasi mai le case avevano verande ed erano sempre di solo granito. Il Castello di S. Estevao, sembra un giocattolo, rotolato per caso sul prato verdissimo, è ormai sulla valle del Tamega.

CHAVES E LE ACQUE DEL TRAS OS MONTES

Chaves, città di acqua, di granito e di legno. Portoni e vetrine di altri tempi  che si susseguono ai lati delle vie principali conservano vetusti negozi. Verande e balconi di  legno, festoni di panni stesi chiudono in alto le strette vie del centro che si aggomitolano sopra un lieve colle lambito dal Tamega. Le parti più basse delle case, lasciate libere dalle verande di legno, colorate dai tenui tinte pastello amabilmente scrostate, sono segnate dal granito che ne contorna le finestre e i portoni. Percorro in debole salita la strada che dal ponte romano, costruito sul Tamega al tempo dell’imperatore Tiberio, conduce alla piazza centrale. Ci sono negozi, librerie, studi professionali e uffici che rendono la piccola città il centro di un intero comprensorio,  la fanno sembrare la capitale di una lontana piccola provincia del Portogallo e dell’Europa. Al numero 190, di fronte ad una ourivesaria uno strano negozio propone appesi al muro e  disseminati sul marciapiede: rotoli di plastica colorati, tappeti, un portapane sopra ad un treppiede, zerbini di gomma ed altri articoli casalinghi, poco oltre un negozio di strumenti musicali nasconde una scuola di musica e ballo, non ha nulla esposto fuori ma dalle due vetrine si vedono da una parte alcune fisarmoniche e flauti dolci con custodie di plastica verde o senza custodia attorno ad un metronomo, dall’altra che funge anche da entrata si vedono chitarre classiche, spartiti e locandine e biglietti. La piazza principale, ampia e irregolare raccoglie la chiesa matriz, la camara municipal, il museo, il pelourinho su quattro colonne tortili  e alcune costruzioni eleganti. Un lato della piazza è limitato da alte e strette case a schiera con in alto le immancabili verande di legno, ognuna con la sua forma singolare, a punta, ad arco o con finestre e aperture di varia foggia e colore tanto da far sembrare questo angolo di mondo un insolita unione tra Galizia, Gubbio, Kasmir e Amsterdam. Il centro della piazza è occupato da un grande palco di legno allestito per gli accadimenti culturali. Alla sommità del colle, dietro il museo la sola torre del menagem risalta su uno spazio, ora verde e ben curato con aiole fiorite che prima era occupato dal castello ora distrutto. Al bordo del giardino la muraglia e in basso, sotto il muro e sotto il colle, ancora il presentissimo Tamega e gli edifici termali sulla sua riva. Osservo attento il paesaggio, oltre il fiume: colline, basse montagne, boschi, torrenti e ancora basse montagne fino all’orizzonte. In piedi sulla muraglia, silenzioso e solo, divento il tenente Giovanni Drogo del Deserto dei Tartari, solo, sopra la fortezza al confine dell’impero con lo sguardo verso ovest. Domani varcherò il confine e mi inoltrerò nella terra di Gog e Magog, in quella tartaria europea del Barroso.   Oggi, invece, con l’automobile, seguo verso sud la valle del Tamega, è meravigliosa, larga e selvaggia, lussureggiante di vegetazione specie la parte occidentale, che si frena blandamente contro le deboli ripe delle montagne del Barroso. E’ strano che un fiume che nasce poco più a monte di qui abbia formato una valle cosi ampia. La strada porta fino a Vila Real  ma io oggi mi fermerò a Vidago e a Pedras Salgadas, come Chaves città d’acqua. In questa zona del nord del Portogallo ci sono molte sorgenti di acqua ad altra termalità, la temperatura arriva anche a 80 gradi, le acque contengono moltissimi elementi chimici. Dal tempo dell’impero romano ci sono terme. Vidago conserva ancora funzionante il suo lussuoso albergo frequentato dai re del Portogallo. E’ un albergo ma sembra un castello, aristocratico con la sua larga scalinata bianca, i suoi risalti turriti e le arcate, anche se i mattoni rosati le danno un tocco lieve di favola e di balocco. Sembra una perla rosa incastonata nel verde intenso di un bosco di maestosi ed altrettanto aristocratici alberi. Pedras Salgadas è più popolare. Piove sulla larga strada lastricata e con molti lampioni che di notte la illuminano con una eccessiva luce se si viene dal buio della notte trasmontana. Oltre la fine della strada, dietro una cancellata di ferro, gli edifici termali dislocati sul pendio di una collina alberata, appaiono meravigliosamente desueti. A prima vista sembrano abbandonati da anni, ma a guardare dentro alle porte e alle finestre con la vernice bianca scrosatata e le maniglie di vecchia foggia di acciaio cromato, si vedono gli schedari con le singole cartelline appese, una per ogni ospite o paziente del centro termale. La collina è percorsa da bei viali che, limitati da siepi tagliate a forme geometriche, segnano aiole fiorite e spazi di prato con alberi di alto fusto. Qua e la edifici di diverse foggia e tempo di costruzione ma comunque tutti colorati di tenui tinte sul giallo.  Sta piovendo molto sulla collina, tutta l’acqua non si raccoglie dove dovrebbe, una parte scorre selvaggia componendo il bel breccino bianco delle strade e dei piazzali. Presto arriva il giardiniere, l’operaio con la carriola e nuovo materiale livella di nuovo il fondo e ricompone il manto alla precedente  eleganza. Sulla sommità della debole salita, dietro al signore con la carriola, pala e stivali si erge un basso edificio, anch’esso giallo, con le finestre di legno bianco. Due scalinate raggiungono l’entrata del piano nobile, un poco rilevata, ad un salone d’ingresso esagonale coperto da un tetto di tegole rosse a ripidi spioventi altrettanto esagonale. Sopra le ampie finestre ad arco a tutto sesto che danno luce a quel locale campeggia una grande scritta, dipinta recentemente di nero su fondo bianco: 1910 CASINO 1910.


DAL DESERTO DEI TARTARI A GUIMARAES

Lascio la munita città oltre il fiume e salgo verso ovest, lambisco Boticas e il suo vino dei morti, seppellito sotto terra per nasconderlo alle truppe di occupazione francesi. Raggiungo il grande lago dalle acque fredde e cristalline, nessuno in giro per questi territori deserti… in fondo lampeggia sopra una collina argillosa, bruna e alberata, l’ultima nostra fortezza prima delle oscure montagne della Tartaria, l’avamposto di Montalegre, le sue tre grandi torri merlate di granito e le mura forti proteggono le poche case bianche e la chiesa che le si raccolgono attorno. Già da lontano si respira un’aria fredda e pungente, un’aria diversa. La nostra gente sarà diversa, “gente da raia” i nostri soldati quassù da tanto tempo si saranno imparentati con quelli di la, avranno cambiato le loro abitudini la loro vita le loro parole?  Anche il granito con cui sono costruite tutti gli edifici è  diverso, la tecnica costruttiva è diversa. I grandi blocchi di roccia, accostati gli uni agli altri rozzamente senza cemento o intonaco, sono ovunque muschiati dall’umidità e dal freddo e corrosi dal vento freddo che viene dall’altra parte. Sulla fortezza il piccolo cimitero raccoglie i nostri soldati caduti nei pochi scontri che ci sono stati con gli altri, ci sono poche tombe, ma risalta uno strano campanile, un semplice muro di granito con due aperture occupate da due grandi campane di bronzo che daranno l’allarme alla guarnigione e al villaggio quando arriveranno. Le campane non suonano, e il muschio e l’umidità coprono il grigio granito fino a farlo diventare scuro come le scure montagne dell’altra parte. Una piccola campana risuona invece giù, nel villaggio, una piccola campana rintocca i passi di un funerale dove tutti sono rigorosamente vestiti di nero, anche le ragazze giovani e i bambini.

Joao Rodriquez Cabrilho – Navegador do sec. XVI, que ao serviço dos Reis de Espanha descobriù a costa da Califòrnia, natural de Lapela-Cabril-Montalegre, è figura notavel da història do mundo.

La scritta appare repentina dietro al basamento al monumento all’emigrante. Il navigatore di bronzo è nell’atto di scendere da una nave, regge la spada con la mano sinistra, non la brandisce ma la  appoggia sulla  terra appena scoperta, si pone con ampio gesto del braccio la mano destra sopra il petto per proclamare un giuramento, scruta lontano verso l’alto con aria sognante e al tempo stesso eroica.
Attorno alla statua, l’operaio del comune sta riparando la fontana che gli fa scorrere attorno l’acqua del mare oceano attraversato. Dietro di lui, sulla piazza di piccole piastrelle chiare di roccia (non vi dico che roccia è), seduti su una panchina e in piedi attorno alla panchina, alcuni anziani stanno aspettando il tempo: una signora, completamente vestita di nero, dalle scarpe di feltro, alle calze spesse, alla sottana e al fazzoletto in testa mi volta le spalle e parla con un signore con maglione blu, camicia bianca, basco blu e occhiali, li vicino un altro signore dalla pancia prominente dal cardigan aperto sta armeggiando con il suo cellulare. Più il la appoggiati la muro della Camara Municipal altri cinque anziani, solo uomini, stanno parlando tra loro con le mani in tasca.
Ora la strada serpeggia meravigliosa in un paesaggio alpestre verdissimo di conifere, non più tartaria e deserto. Costeggio il fiume che scende blando verso ovest, si ingrandisce fino a diventare lago, ridiventa fiume, la strada passa di qua e di la dell’acqua ora fiume ora lago, occhieggiano chalet e ristoranti e alberghi. E’ il parco nazionale di Geres.
Scendo fino a Braga che mi appare una troppo grande città con esagerati raccordi stradali e autostradali. Voglio andare a Guimaraes ma non trovo la strada, provo con l’autostrada ma invece di andare a sud la imbocco verso nord e mi ritrovo di nuovo sulla tangenziale di Braga, questa volta percorrendola verso nord.. Circuisco di nuovo tutta la città fino ad uscire dalla strada di grande circolazione e arriva re alla statale n. 80. Mi ricordo di averla percorsa in corriera con l’autista che scaracchiava fuori dal finestrino. C’è una fila esagerata salgo e scendo su diverse colline fino ad arrivare Guimaraes dalle parti della nuova università. La città ora è caotica, forse non più signorile ed elegante come me la ricordavo da nove anni fa, e già nove  anni sono nove anni. In giro ci sono troppi ragazzotti con grossissimi fuoristrada BMW X5, pacchiani e sfrontati come i nuovi ricchi lo possono essere. Entro a piedi nel centro storico alle ultime luci del tramonto. Il centro rimane comunque meraviglioso e la odierna meraviglia è amplificata  dal fatto che non c’è nessuno in giro. Ma continuano a non esserci ristoranti adatti alla mia indole. Vado dunque al ristorante della pousada Da Nossa Senhora da Oliveira nella piazza. Il personale sta preparando una cena ufficiale per un gruppo di convitati che stanno attendendo fuori, sotto il porticato. Trovo un posticino in disparte, vicino ad una finestra. Guardo quel mondo come se fossi fuori dalla finestra. Si è fatto buio e tardi, devo tornare nel Tras-os-montes, fino a Chaves. Filo nella notte sopra una cresta infinita e invisibile di colline, cresta affilata che scende piano nel buio fino alle luci di Amarante. Da con la IP4 (ancora la IP4 non basta mai) fino a Vila Real attraverso la serra de Marao e quindi ancora su fino a raggiungere  la valle del Tamega in salita fino a Chaves dove mi aspetta il portiere notturno, ieri erano le 2 oggi arriverò forse prima.


Da   gattovince@catmail.pt
A  topolone@mousemail.it

Cari Topi e Moglie, evidentemente questa è una lettera promiscua, quelle personali saranno di carta se arrivano. Le lettere per arrivare abbastanza in tempo devono avere o selo do correio azul internacional che lo vendono solo alle poste o anche ai distributori automatici, quelli che non sono “fora servicio”. Stamattina ho chiesto alla solita signora onde se fica o correio (sbagliavo pronuncia e dicevo correjo e lei capiva il collegio: ma che collegio cerchi?) e poi mi sono accorto che c’ero gia passato davanti. Tenho a cabeza loca.
Prima al telefono  mi avete chiesto come vado con il portoghese. Me la cavo abbastanza a dire quello che devo, poi sto facendo progressi con la radio e le pubblicità.  Qui in albergo ci sono 50 (una corriera intera)  inglesi con almeno 500 anni a testa. Le signore hanno dei cappelli di lana a maglia tipo paralumi gli  uomini sandali e calzoni corti  e la pelle trasparente che sembrano dei giapponesi catalizzati. Ieri due o tre maliarde facevano un casino con le chiavi alla signorina della reception, che poi mi ha detto che non si ricordano nemmeno il numero delle loro stanze e sono sempre li a cambiare chiavi. Stamattina giravano per il paese dietro la guida, qui in albergo non si vedono, mi sa che sono in una “dipendenza”. L’albergo non è  male: è stato un forte e quindi un convento, ha tanto di chiesa  interna.
Sono arrivato a 5 gatto vince, quasi a sei perché l’ultimo, su vicino al castello, piangeva e piangeva ma non l’ho visto.
Oggi qui a Chaves, sono entrato in una libreria a vedere se c’era qualcosa di Miguel Torga e girando e lillando ho fatto cadere una bella pila di libri grossi, quelli di fotografie, e la signora li ha raccolti e continuava a ripetere “sono cose che succedono… sono cose che succedono” Mi sono vergognato come un cane, però ho trovato “Contos de Montanhas” e “Novos Contos de Montanhas” in edizione economica Quetzacolalt. Ma il bello di queste librerie di paese sono le pubblicazioni che puoi trovare solo qui. Sugli scaffali se cerchi appena trovi sempre dei librini sottili, stampati su bella carta e rilegati su ruvido cartoncino, editi dall’autore stesso o da case editrici microscopiche. Ne ho presi alcuni a caso, tanto non conosco assolutamente gli autori: “Canto trasmontano” di Joaquin Ribeiro Aires e “Itinerarium” di Claudio Lima  che cantano i luoghi e i personaggi del Tras-os-Montes: dalla Porca de Murça alla Serra de Marao a Magellano a Vidago…. Edgar Carneiro mi ha proposto il dolcissimo “MAR AMAR” dei “Poemas do Mar de Espino”, “poesie del mare di spine” o forse “poesie del mare in tempesta”, visto anche che in copertina c’è una piccola litografia, ripetuta nella prima pagina, con raccontata una scena di altissime onde che sorreggono due barche a vela e una lancia a remi sotto un volo arruffato di alcuni bianchi uccelli marini.     Il libretto è stato stampato in 300 esemplari nel dicembre del 1992 nella tipografia Minigrafica di Rua da Alegria n. 30 a Lisboa. E già questo rendeva necessario che io lo portassi a casa con la immediata scrittura del luogo e della data di acquisto, Chaves 29 settembre 2003. Non so se Edgar Carneiro sia Trasmontano, ma mi piace pensarlo per via per questo interesse che la gente di qui continua ad avere per il mare, mare che non possiede ma che ama.
Ho trascritto la prima poesia, quella che da il titolo alla raccolta, con qualche problema di accenti perché la tastiera italiana ha decisamente meno accenti di quella portoghese.  Ve la mando così com’ è, come l’ho scoperta io, non so aggiungere altro.

Amar
O mar
E’ mar
De mar
A mar
Amar
O’ mar
E’ ser
O sal
Do mar
Mar!
       Mar!
O’ mar
Sò mar,
Amar!

  Questa parte dal Tras Os Montes è meno zoccolo duro di quella orientale ma non scherza affatto. Per documento ho delle foto di uma oficina de sapataria con tanto di orario  avvisi. Per la foto ho aspettato che chiudesse e il gerente non c’è ma meritava.
Fuori i cani abbaiano,  è notte e dalla finestra si vedono appena delle lucine su una catena di montagne su ad est, selvaggio e antico.

Chaves, Portugal 30 settembre 2003 


LA IP4

Eh sì, avevo pensato ad un tardo pomeriggio da monaco, chiuso dentro la mia stanza che incominciavo a pensare come una celletta conventuale, con la pesante finestra di legno che si apriva sul grande prato verde e sulle mura esterne  del castello e oltre, più in basso sulla città di Chaves dove risaltava la torre del Menagem.  Avrei rimesso apposto gli appunti di questi ultimi giorni e avrei scritto a casa cose  che potessero sostenere il nome di “lettere” sia per la grafia e la forma, sia che per i contenuti.  Invece no, le lettere di questo viaggio sembrano essere condannate a rimanere come quella precedente. Dexei o casaco no quarto da Pousada de Bragança, tenho a cabeza loca. Ho dimenticato la giacca in albergo a Bragança. Sono molto affezionato alla mia giacca di cotone, è da anni che me la porto sempre dietro nei miei viaggi, la devo recuperare, potrei telefonare e farmela spedire a casa, potrei andare e tornare con la macchina, magari percorrendo la strada veloce, la IP4, potrei arrivare a Bragança velocemente e  tornare per un ora non assurda. Con quella città comincio ad avere un rapporto abbastanza strano: ogni tanto mi capita di tornare e questa volta a causa di una giacca di cotone dimenticata nella Pousada. Bragança è una città di passaggio, una città dove si ritorna spesso.
Anche la IP4 incomincia a diventarmi famigliare, non avevo intenzione di frequentare una strada veloce ma il richiamo di Bragança, si è fatto pressante e obbligatorio. Alla fine del viaggio l’avrò percorsa per molte volte sia verso est che verso ovest.
Quella strada è una saetta ascendente tracciata sulla carta, Va dall’oceano alle montagne, veloce collega Porto a Bragança  ed oltre. Fino ad Amarante è una vera e propria autostrada a pedaggio. Ad Amarante, appena dopo il grande ponte sul Rio Tamega inizia la IP4, emblematica del Tras-Os-Montes. I portoghesi la considerano una superstrada, gli spagnoli fanno gli spiritosi sulle tre corsie che si avvicendano tra loro di qua e di la, per i camperisti nostrani è un percorso cult. Io posso dire che passa per Vila Real, Murça, Mirandela e giunge finalmente a Bragança per paesaggi sempre diversi e mutevoli nel tempo.
Con la IP4 puoi raggiungere Murça e la sua favolosa porca. La più bella porca di tutto il Tras os Montes  e li abbacinata dal sole su un piedistallo importante e evidente. In mezzo al passeggio delle ragazze della città, in mezzo ad una aiola fioritissima e curatissima. Le porche, o i verri (Berroes), sono rozze sculture preistoriche raffiguranti la femmina del maiale disseminate un po’ dappertutto nel Tras o Montes e anche in  Spagna. Forse un’animale totemico, un simbolo della fertilità, una divinità, un espressione di gratitudine a un animale che ha contribuito a fondare la nostra civiltà europea, almeno sotto il non secondario aspetto del cibo. Tutta la storia della cultura materiale del nostro continente, da nord a sud, da est a ovest, è lineata dal maiale. Possiamo partire dai nostri conclamati prosciutti di Parma e cotechini e zamponi emiliani, dai salami dell’Appennino e dalle salame da sugo della bassa ferrarese,  dall’abbazia di Nonantola le cui terre, nell’alto medioevo, erano misurate in maiali che riuscivano a sostenere e a far mangiare con tanto di preciso repertorio sulle quantità di ghianda prodotta. Passando per la Versilia e le Apuane e il lardo di Colonnata, per Carpegna, possiamo arrivare a terre longobarde, a S. Daniele del Friuli. I Longobardi ci portano al nord dell’Europa: ai wurstel e allo speck di mitteleuropea tradizione, al prosciutto di Praga, all’irrinunciabile Bacon  degli anglosassoni, alla Danimarca dove maiali abitano quelle praterie sotto una perenne pioggia. Verso est il salame ungherese, ad ovest il Jamon serrano, il Cerdo Iberico, il Presunto de Chaves. Rimangono fuori da questo elenco solo le propaggino sud orientali, credo più per i sopravvenuti influssi della cultura islamica che per incompatibilità ambientale all’allevamento dei maiali. Uno dei primi a riconoscere Ulisse dal suo peregrinare per l’Europa di quel tempo fu Eumeo il suo allevatore di maiali. La corte di Circe era piena di maiali. La porca di Murça è un grande animale di granito, sta ritta sulle quattro zampe e tende il muso verso sud, annusa il sud. Non ha coda, ne orecchie, ne occhi, sta ritta, dentro la sua pelle di granito, sorda e cieca ad annusare con il suo muso puntato verso sud. Nella parte destra del ventre presenta una profonda incisione.
Con la IP4 puoi raggiungere Mirandela, strana città sul fiume Tua che nei suoi pressi diviene molto largo tanto che per attraversarlo ci vuole un ponte di addirittura dodici arcate, tutte diverse. Strana città dove la fatiscenza e il vecchio del centro ti riconduce alla più oleografica arretratezza e chiusura della profonda provincia portoghese che incupì perfino Camilo Pessanha che vi esercitò la sua professione di magistrato prima di esiliarsi a Macao e diventare il non gaudentissimo poeta simbolista che è.  Ma questo medioevo vivente, questo “culo del mondo” a detta di alcuni suoi abitanti che appena hanno potuto sono scappati in Francia o in  Canada, e solo a volte, malvolentieri, ritornano ai loro vecchi ricordi, convive in qualche modo con la parte moderna dove corrono ragazze con tute alla moda con scarpe dedicate e walkman, dove circolano giovani in carriera con cravatte strette su colli di camicie enormi secondo i dettami del contingente omologante. Convivono un museo di arte moderna e il solito, eroico e patetico monumento all’emigrante.
Con la IP4 puoi raggiungere Vila Real, città non bella dove il nuovo ha preso il sopravvento in una maniera più veloce e più appariscente che nelle altre capitali regionali del Portogallo. Il centro antico, arroccato su uno sperone del fiume Corgo, affluente di destra del Douro, é subito circuito, nascosto da alti condomini costruiti velocemente e senza amore tanto che si ha subito la sensazione di periferia che opprime e nasconde. La periferia vera, invece, più recente è stata realizzata con intenzioni e pensiero. Si nota una maggiore cura di progetto e un disegno organizzativo, una propensione ad una moderna economia terziaria dove l’università frequentata da migliaia di studenti e le nuove tecnologie della privazione delle masse di prodotto in movimento, dovrebbe essere il nuovo motore di sviluppo. E stata una visita veloce quella di Vila Real: il viale Aralujo, la potenziale casa natale di Diogo Cao e le case signorili ai lati, come dice la letteratura abitati da nobili che in questa città sono più che in altre in Portogallo. Qui vennero ad abitare anche re di Spagna esiliati. Ma tutto questo  non riesce a trasmettermi quella nota arcaica e vibrante degli altri siti del Tras-os-Montes. Non riesco a sentire il medioevo che qui ha respirato, durante la permanenza da una sua zia, il grande scrittore romantico Camilo Castelo Branco.

“ In che secolo siamo qui?”
“ In quale secolo? In quello di tutti gli altri, il XVIII”
“ Ah, pensavo che qui il tempo si fosse fermato nel XII”

Sono più presenti il grande, nuovissimo parcheggio sotterraneo davanti alla caserma della polizia piuttosto che la nobiltà dei blasoni o solo la borghese ricchezza della coltivazione dell’uva per il vino di Porto che nel passato recente ha sostenuto Vila Real.
    Per trovare  il passato e la nobiltà, emblematicamente decaduta di fronte alla modernità, sono andato a visitare il Solar de Mateus. Famoso anche in Italia perché stampato su tutte le bottiglie di un mediocre “vinho verde” in vendita in tutti i nostri supermercati. La famiglia del Morgado de Mateus, una delle famiglie più nobili del Portogallo, ha ceduto l’uso dell’immagine della sua dimora che adesso appare su una strana bottiglia appiattita di un vino rosato, popolare e frizzante.  Il Morgado de Mateus ha aperto anche parte della sua dimora ai visitatori paganti, nella metà della loro casa si può curiosare, oltre quella porte e quell’altra porta ancora resiste la nobiltà e il passato. Per 12 euro, chiunque, anche i lontani giapponesi o i più lontani commessi dell’Oklaoma possono imperversare nella polvere e nella lentezza della aristocrazia europea-iberica-portoghese. Appare una curiosità morbosa, triste: tu che passi nella biblioteca attorno ricercati mappamondi di legno dove era disegnata la summa di tutte le conoscenze geografiche e che mani di bambino hanno girato per cercare Goa o il Malabar o Mombasa, tu che ti soffermi davanti a migliaia di volumi che comunque non puoi toccare perché suonerebbe l’allarme e che persone vere del passato hanno usato, amato, studiato. Tu che osservi, magari pensando alle tue cose, le stanze delle donne con i tavoli per il te di lacca cinese o i tavoli per il gioco degli scacchi intarsiati di madreperla e di tartaruga o che non riesci nemmeno a pensare a quale perfetta teoria che ha messo insieme in quelle due stanze i preziosi tappeti di Arrajolos dai toni gialli ai mobili di legno provenienti dall’Alentejo e bordati dai colori vivi: blu, rosso e giallo che bordano tutto l’Alentejo. Non riesci ad evitare un fremito di tenerezza quando passi vicino a quei piccolissimi  e inclinati letti su cui non ti puoi stendere. Avevano paura di morire soffocati nel sonno e i signori dormivano più in piedi che sdraiati. Tenhevan medo de morrer.
In quel pomeriggio c’era solo la visita guidata in inglese, quella in portoghese ci sarebbe stata solo alle 18,00. Eravamo in tre curiosi guardoni,  io e una coppia di inglesi più vecchi di me. La ragazza, forse dalla mia espressione che non volevo far intendere ma che evidentemente era inequivocabile, si accorge subito che non capisco quasi nulla delle sue spiegazioni e allora prima parla in inglese con gli inglesi e mi ripete il tutto in portoghese.
Non ho mai amato l’architettura barocca, credo più per ignoranza che per altro, ma questo palazzotto bianco e grigio con le altissime guglie linearissime, che rendono verticale quest’arte barocca e la protendono ad una metafisica che non gli avevo mai riconosciuto, mi affascina veramente. Fu costruito dall’architetto Italiano Nicolò Nazoni, che trovò fortuna e fama in Portogallo. Il palazzo si specchia su un laghetto artificiale che gli sta davanti ed è costruito al limitare di un parco dove in prima sensazione risaltano due meravigliosi, giganteschi cedri ma all’interno rivela un singolare amore per la cura delle sue essenze da parte di bravi giardinieri che potrei considerare alla stregua di padri di famiglia tanto è evidente la loro capacità  e dedizione. Dicevo dei cedri giganteschi  di prima e credevo che fossero il massimo ma le sorprese di questo giardino non finiscono mai.  Dietro il solar un intrico fittissimo di cedri è stato addomesticato fino a farlo diventare una muraglia compattissima e verdissima che forma una galleria di 35 metri di lunghezza e circa 8 di altezza. Se entri dentro la galleria dei cedri il mondo, magicamente cambia, d’estate non è più caldo, d’inverno non è più freddo, quando piove li non piove, dentro non si sente il vento e i rumori sono atri rumori. E’ un luogo che trasfigura la realtà, in imbuto che incanala sensazioni e te le rende diverse, modificate, amplificate, a volta spiegate, secondo il tuo stato d’animo, una sorta di amplificatore in qualche modo metafisico,  da usare.
Con la IP4 puoi raggiungere Amarante. E il suo fiume Tamega pacido e largo con le barchette per andarci dentro, il museo de Souza Cardoso, la statua di Sao Gonçalo, protettore del matrimoni o addirittura procacciatore di matrimoni visto che molte donne, specie quelle ormai in aura di zitellaggio, toccano il piede del santo per ottenere il sospirato marito.
Il Museu Municipal Amadeo de Souza Cardoso, è come dovrebbero essere tutti i musei del mondo: piccoli, interessanti, con pochi visitatori, attenti e consapevoli. Amadeo è figlio di questa terra in un tempo quando questa terra è ancora alla periferia dell’Europa e dello stesso Portogallo. Studente liceale a Coimbra, va a Lisboa per il corso di architettura. Corre, scappa a Parigi, lì frequenta i boulevard e i caffè di Montparnasse, conosce e diventa amico di Amedeo Modigliani. Quando ritorna in Portogallo nel 1914 è già un pittore aperto a nuove tecniche espressive legate al futurismo. Con Christiano Cruz, Eduardo Viana, José de Almada Negreiros diventa il portabandiera del modernismo portoghese. Mi colpiscono i suoi ritratti, grandi e strani: A bruxa louca (la strega matta) con gli occhi disuguali, su due piani diversi, come la capra, il destro è più grande, sporgente e scuro dell’altro, la musica sorda del violinista anche lui con gli occhi asimmetrici, ritratti di uomini con i baffi, grandi baffi neri asimmetrici e occhi matti. Amadeo era modernista, futurista, io lo ritengo un pittore triste: sono tristi i suoi baffi e i suoi occhi spiritati e asimmetrici, i suoi ritratti hanno colori che lasciano sulle tele sforzo e dolore, i suoi paesaggi non sono comunque sereni, hanno tensioni, corde, archi, scatti e guizzi di pazzia. Le caricature sembrano normali, per i nostri tempi, ma se penso che sono state eseguite all’inizio del secolo scorso erano sempre al di fuori. I pittori sono sempre al di fuori del loro tempo?

LETTERA DAL  DOURO

Cara moglie
Ti scrivo queste note tra il tono professionale e quello incantato di uno che ha scoperto un luogo veramente singolare. Molte guide dicevano che la zona del Douro fosse una delle più interessanti del mondo. Esagerazioni, ogni angolo della Terra ha le sue caratteristiche uniche che la fanno diventare “ la più interessante”
Invece arrivo qui di sera e rimango entusiasta, attonito di fronte a questo strano incontro, davvero unico, di caratteristiche geologiche, geografiche, climatiche, storiche e delle odierne attività dell’uomo.
Le premesse sono che arrivi da strane montagne con cime tonde e conifere che sanno di esotico, dai sette agli ottocento metri di altezza ma sembra che sei sul Nangaparbat, forse la strada è giusta, gli uomini a cui domando certezze rispondono sempre “te digo vai”. Arrivi sull’orlo e precipiti giù in un largo fossato una sorta di rift iberico profondamente boscoso, lussureggiante di verde e acqua, oggi anche di più visto che ha piovuto moltissimo. In mezzo al rift, aperto tra graniti e scisti antichissimi scorre, o meglio riluce d’oro, il DOURO, (saranno i miei occhiali con le lenti rosse?). Lui è li placido, maestoso, antico e sapiente, me lo ricordo piccolo che faceva giocare le papere intorno a Sòria in Castiglia, l’ho seguito fino a qui. Lui è molto cambiato io non lo so, credo di no.   In questo punto il fiume fa un arco deciso verso nord e poi si ricompone diritto verso l’oceano che nemmeno si riesce ad immaginare, strano, vista la relativa vicinanza. Certe volte uno l’oceano lo sente anche da più lontano. Qui no, scisti e granito, terra e vino, non mare, non sale. Qui il mondo rimane circoscritto e appare essenzialmente verticale. Fa conto di pensare alla costa ligure di Bordighera, alla Ciabauda, un verticale così, anzi di più, solo che al posto del mare c’é il fiume d’oro e poi di la un’altra Ciabauda. E nelle due Ciabaude ci sono paesi e paesi, ognuno col suo pelourinho e la chiesa bianca e le case, e strade da presepio che li collegano. Quello poi che ti rende partecipe al luogo e che i paesi si parlano, Le campane dell’orologio del paese laggiù si sentono di qua e poi il suono torna di la, e il paese qui sopra manda i suoi massaggi ed è tutto una musica, un brusio, un’interferenza serale che davvero è … non so cosa. Qui, come in Ciabauda e  come dice anche Saramago, (che tutto sommato le robe le sa)  la gente con i secoli ha modificato il paesaggio: dal fondo fino in cima sono tutti terrazzamenti dove vengono piantate caparbiamente viti e viti. Credo che ci sia gente che gira le fasce come in altre parte d’Europa si legge i giornaletti di Topolino. Fasce strette e ripide, regolate da muretti a secco di scisto e granito, riparati a mano, tanto i trattori stanno in pianura e non riescono a venire su queste strette pendenze.
Personalmente, ho ritrovato anche delle sensazioni mediate da altri: qui sotto passa la ferrovia e il perenne treno dei film di Manoel De Oliveira: “Vale Abrao” dove Leonor Silveira interpreta una Emma Bovary portoghese che riesce a fuggire dalla ristrettezza culturale e dalla prigione delle quinte del Douro solo annegando nel fiume. Ogni tanto si sente che suona e il suono sale fino a su e fa il giro di tutta la valle, no valle. Il suono del treno fa il giro di tutto questo micromondo.
Nota a margine del discorso. Il Solar da Rede (la pousada) è la casa di un signore del vinho do Porto costruita nel 700 credo, con l’immancabile cappella dagli azulejos dai toni insolitamente azzurrini, toni insolitamente celesti anche quelli della sala da estar. Mi ero tolto gli occhiali perché al ristorante era un poco scuro e non  riuscivo a leggere la carta. Solitamente curata. Il Maestro del ristorante è anche simpatico. Prima si è scusato per l’attesa del polvo estufado perché era molto duro. Poi quando gli ho detto che il polvo era maravilhoso si è messo a parlare e come sempre mi ha preso per spagnolo. No sono italiano… Allora lui vuole parlare italiano, sono fissati!! Tira di qua e tira di la, vince lui (è anche più facile per me). Alla fine mi dice in buon italiano “Le porto un caffè espresso?”   Gli dico che sono appassionato del Portogallo e che questa volta sono qui nel Tras Os Montes e nel Douro e lui di rimando. Qui assomiglia al vostro Piemonte e mi dice che conosce abbastanza l’Italia. Poi mi fa: “Lei non beve vino ma almeno un calice di vinho do Porto bisogna che lo prenda”, e vada per il porto che arriva da uno strano decanter appuntito verso il basso e dalla ragazza tirata come si deve  che me lo versa,  rubino e  torbidino, non è come quello delle bottiglie dei nostri supermercati o di Ettore.
Nota  sul polvo: cotto con il porto, assieme a patate con la buccia, pomodori e peperoni rossi. Il polvo era grosso come una casa ma tenerissimo. Ha superato la chanfana serrana, di antica e consolidata memoria, come piatto capostipite e portabandiera della cucina portoghese.
Domani questo mondo sarà diverso? con la luce da est o con la pioggia che sicuramente ci sarà. Ci sarà un’altra puntata.
  Santa Cristina de Mesao Frio  1 ottobre 2003

OS GODOS DE PORTUGAL

La notte sul fiume è stata piovosa  e oggi si va alla ricerca dei Visigoti
“ Os Godos de Portugal”, si va verso Lamego, la deviazione appare repentina e irrequieta a sinistra tra due muretti a secco verso una strada acciottolata e stretta in discesa all’attaccatura di una rapida curva in salita verso Lamego, in fondo la brutta autostrada sale su dalla valle di Regua, il paesaggio è comunque godibile e chiaro stamattina dopo tutta la pioggia di stanotte (sembra che abbia ancora fortuna con il tempo meteorologico). Infilo tranquillo la stradina che si fa sempre più stretta e angusta, passa prima avanti a case signorili, poi si imbosca e lambisce case di contadini, con gente che si indaffara attorno a tini e ad attrezzi della preparazione del vino. L’acciottolato finisce, solo terra sotto le ruote, e poi repentina la discesa fino al greto del torrente Balsemao che scorre incassato tra le rocce, scendo male a tornanti tra i piloni del ponte della nuova, e gia detta, brutta autostrada per Lamego e Viseu (Viseu da quanto tempo devo vanire ma non sono mai riuscito ancora….). Oltre il ponte che sembra provvisorio ancora fango e pozzanghere e un cartello provvisorio “Capela de S. Pedro”. Stavolta la salita e finalmente. Ecco. Quasi non mi fermo, sembra solo una costruzione anonima e vecchia, sono costretto a chiedere se quella è proprio La Cappella de Sao Pedro do Balsemao. Mi sono preparato ho con me delle informazioni sulla cappella costruita dai Visigoti, ma chi sono questi Visigoti? Barbari che distrussero con la cattiveria il nostro bello e civile impero romano, gente con i baffi che sanno di sego e birra, con elmo metallico e corna, zotici e pulciosi o cosa? Saranno stati come i nostri Longobardi o come i Franchi di Carlo Magno, come il Carlo Magno del giudizio finale di S. Foy a Conques, o come i Franchi barbuti di  Autum, o a Tournus. Ma è certo che già nel 570 in questo vallone abbastanza sperduto dell’Iberia questi lontani nostri nonni sentirono il bisogno di metafisica. Rinchiusero una aura sacra tra queste quatto mura di granito, forse rozze, forse ormai troppo ricostruite, ma singolarmente semplici ed  essenziali, solo una aura sacra impigliata per sempre tra queste quattro, solo quattro colonne di granito. Salgo i gradini esterni e sembra di entrare dentro una casa, una semplice porta di legno mi lascia per un momento al buio di un ambiente limitato nello spazio, oltre questa sensazione e oltre l’aura sacra, un’altra semplice porta aperta su un giardinetto con piccoli alberi fa entrare una bella luce. E’ rimasto poco della originaria costruzione: una colonna completa con il suo capitello, dei pezzi di muro, l’arco a ferro di cavallo, sui conci di granito i segni arcaici: semplici croci, segni simili ad onde, spine di pesce, strani arghiogoli dentro palle fluttuanti, segni vagamente circolari. Sembrano segni lasciati da bambini o da uomini primitivi. Ecco di nuovo i Visigoti, che mi fanno una tenerezza infinita con i lori disegnini da bambini, con i loro pesci e le loro onde di mare, di mare ancora lontano da questa valle imboscata tra le ripe del Douro. Dove sono andati gli elmi e le corna e i baffi di sego e il resto? Forse la data del 570 è troppo arretrata nel tempo, appena venti anni dopo la fine del nostro bell’impero romano i barbari erano già ingentiliti dalla Fede, e volti a forme d’arte delicate e dolci come quei segni tracciati sull’aspro granito “cavallo”. Si il granito di qui, a grana particolarmente grossolana è chiamato “granito cavallo”. Me lo dice la signora, non so come chiamarla, la custode, la guardiana, la guida che mi accoglie con grande gentilezza e  competenza. La considero quindi una guida, spontanea, personale e esclusiva. Non c’è nessun altro visitatore, mi chiede di dove vengo e alla mia risposta si rammarica di conoscere solo il portoghese. Gli rispondo che va bene così, che sono venuto fin quaggiù per quella brutta strada per vedere i Visigoti e per imparare il portoghese. Facciamo una lunga chiacchierata sul granito cavallo e su un calcare tenerissimo proveniente dalla zona di Coimbra sul quale è stata invece scolpita una Madonna gravida nel 1400, non è strana un statua del genere una madonna gravida, sul sepolcro di granito del vescovo di Porto Afonso Pires morto nel 1362 e dapprima addossato al lato sinistro dell’arco a ferro di cavallo e in seguito trasportato li a destra in mezzo alla navata centrale. Il vescovo ora è interrato sotto il pavimento, non è più in quello scatolotto. E per quello spostamento che non tutto il sarcofago appare scolpito ma rimane in parte grezzo, la parte sinistra è occupata da un’ultima cena, poi una crocefissone, l’intero sarcofago appoggia su leoni, leoni famelici e cattivi che divorano bambini. La mia ricerca  finisce con la firma  sul libro dei visitatori, per curiosità cerco altri italiani prima di me, nessuno, sfogliamo la pagine a ritroso, nessuno, eppure lei si ricorda di qualcuno nel passato. Ma da dove vengono i visitatori di Sao Pedro de Balsemao, vengono dal Portogallo, dall’Inghilterra. Questo posto è pieno di inglesi, inglesi turisti, inglesi, signori del vino di porto, inglesi che comprano quinte sempre più numerosi, un po’ come da noi in toscana nel Chiantishire. E poi distaccati di molto: americani, australiani, neozelandesi e ancora francesi, tedeschi olandesi, spagnoli ma italiani no.  Ringrazio e saluto la mia guida, mi assicura che la strada fino a Lamego è migliore di quella che ho percorso e che Lamego a soli tre chilometri. Prima di arrivare in città la stradina supera il torrente Balsemao su un ponte alto e stretto sul corso d’acqua proprio al centro di un villaggio da dove echeggiano i colpi scintillanti di un fabbro sull’incudine, lampi di lunghi baffi (i baffi dei miei Visigoti?) su larghe camice bianche, impalcature di muratori addossate a case di granito e alcune scritte “VENDESE” per gli inglesi che arriveranno. Dopo il ponte in rapida salita, due curve ed ecco irrimediabilmente il 1600 degli azulejos della Capela do Destero e la Barocchissima Lamego. Come può un ponte cosi piccolo, su un torrente così esile farmi compiere un salto di più di mille anni? Saranno scomparsi per sempre i miei Visigoti con i baffi e le camice bianche che battono con i loro martelli da guerra su incudini gigantesche al di sopra di quel torrente cristallino che scorre alto su massi di granito cavallo? E anche se tornassi indietro ci sarebbero ancora quelle facce fuggitive e quei rumori di prima? Sicuramente le poco visigotiche scritte “VENDESE” sarebbero ancora li.

FERREIRIM

Lamego è sotto la pioggia, le scale salgono bagnate fino alla Chiesa della Nostra Signora dei Rimedi è inutile faticare per oltre seicento gradini di cemento e su quelle balaustrate di cemento fino alla chiesa sulla collina, battuta dalla pioggia. Vado all’ufficio postale a comprare i francobolli per spedire le lettere a casa, correjo azul, 1,75 € in due giorni la lettera è a casa. L’impiegato vuole darmi  anche la busta l’envelope. No la busta già la tengo non ne ho bisogno ma ti devo dare un sacco di carta e francobolli, tira e molla mi porto via una cartata di francobolli, tre ogni lettere e l’adesivo della posta aerea. La cattedrale e chiusa, riesco  ad entrare nel chiostro dalla strada, mi rimane una impressione fugace di archi semplici e rotondi e un grande roseto che occupa tutto lo spazio interno, che nasconde, quasi assalta la fontana al centro del chiostro con il suo pur presente zampillo verticale. Il museo è chiuso, mi rimane un grande manifesto pubblicitario, un grande tabellone piantato al bordo della strada tra due case, oltre delle aiole di fiorini rossi “Lamego cidade de cultura – Vasco Fernandes – la criaçao dos animais – museu de Lamego” . Da anni bolino attoro a Grao Vasco e a Viseu, ma non ci sono mai stato, non è ancora il tempo. E’ ora tempo di seguire la strada di Ferreirim, Tarouca, Salzeda e Ucanha, un percorso abbastanza saltabeccante tra le colline e i fiumi della Beira. E’ anche un percorso eclettico per gli interessi e i punti salienti, non un unico tema da svolgere ma interessi vari o al contrario il solo seguire pedestremente la mia guida classica che va in brodo di giuggiole per questi posti, per la loro perfetta misura di bucolicità selvaggia e antropizzazione e per i monumenti, tutti monasteri e chiese con l’eccezione del ponte armato di Ucanha.
Ferreirim è subito li a sinistra, poco oltre la fine di Lamego, quasi non vedo il cartello indicatore, si scende poco ed ecco la chiesa parrocchiale sotto la pioggia. Da fuori ti da l’idea di una chiesa del 500 tranquilla e di campagna con le entrate dei tre archi, chiuse da delle cancellate di ferro, il portone di legno verde dentro una cornice manuelina e in mezzo a due vasi di piante e a due ombrelli appoggiati ai fianchi del portale. Dentro una ragazza sta facendo delle foto con il lampo, da come parla a volte con l’uomo della chiave sembra una professionista, che so una della sovrintendenza artistica o una fotografa per una campagna pubblicitaria o che so io. Il retablo è dorato, barocchissimo, ornato da colonne tortili, il soffitto a botte tempestato di immagini di santi e sante che a volte sembrano essere ripetuti, sono una moltitudine, decine e decine di immagini riempiono il cielo dell’altare e della zona anteriore della chiesa e danno una sensazione diversa dal giallo del fondo. Giallo e oro, confuso il fondo, blu e verde il cielo preciso. Esiste un salto percettivo tra l’una e l’altra vista. In mezzo a questo salto azulejos blu e gialli attorno alle porte e alle finestre e, a sinistra, guardando l’altare, un arco non sfondato che segna il muro esterno della chiesa. L’arco è coronato da un sottile fregio lavorato di marmo bianco. Dentro l’arco vivono figure di strani animali danzanti, animali con la coda e fauni che saltano con gambe e braccia aperte, come oscene rane non certo adeguate ad una chiesa. In basso un animale con la faccia di cane ti guarda di traverso, con aria sottile,  da destra e sinistra e sembra che se anche ti sposti un poco, lui ti segue con lo sguardo.  Sotto l’arco fanno attenta e severa  guardia, con gli occhi sporgenti e accesi, famelici di bambini, tre leoni o verri o cani.
La fotografa se ne va, rimaniamo io e il guardiano, i leoni o verri o cani si mettono buoni a cuccia. Rimangono attaccati alle pareti bianche i quadri di Cristovao de Figueiredo, troppo alti, come dice Saramago.

TAROUCA

Il sito era occupato nel XII secolo da un grande e potente monastero cistercense. Ora rimangono solo alcuni resti, in alcuni casi rimangono solo le fondamenta sul prato verde. Risalta illuminato dalla luce del pomeriggio un lungo muro solitario, traforato in alto da decine di finestre con balconcino e dalla loro luce azzurra del cielo dall’altra parte. Sotto ogni finestra uno strano buco rotondo e poi fino a terra nulla solo il muro compatto. Addossata alla collina, rimane la chiesa molto rimaneggiata in tempi successivi.
Dentro il custode o guida accompagna alcuni turisti e li ammaestra con una grande dovizia di particolari, purtroppo per me il suo portoghese è troppo veloce e troppo tecnico perché anche io mi possa accodare a loro. Vago da autodidatta tra le tre navate, la sagrestia, non riconosco nemmeno il Grao Vasco, mi soffermo davanti al sarcofago di rudissimo granito, opera di artigiani del luogo dice la guida Michelin. Una gigantesca scatola lunga quattro metri, larga due e alta altrettanto, sedici metri cubi di massiccio granito per contenere il figlio bastardo del re del Portogallo, D. Pedro duca di Barcelos, figlio del re Dinis, passato alla storia come poeta ma qui, il suo sepolcro reca scolpite delle inquietanti scene di caccia. Tre cinghiali corrono al galoppo con le orecchie alzate, i nasi dilatati dalla paura e dalla fatica, fuggono dalla morte e dal duca di Barcelos che li trafiggerà con la lancia. E si a vederlo steso, gigantesco e roccioso, con la barba massiccia e il sottanone pesante, il duca più che un poeta, sembra piuttosto un … Comunque rimane li con le mani giunte sul grembo e un cane mansueto accoccolato ai suoi piedi, li in mezzo a pannelli di azulejos in cui risaltano stranamente delle figure femminili. Saranno sante? O forse no, perché stanno sedute agli incroci di strade di campagna con le gambe scoperte ad aspettare. Aspettare cosa? In sagrestia gli azulejos sono composti da laicissime  e piccolissime tessere che raffigurano: animali mitologici, uomini con i baffi, personaggi dei tarocchi, barche, fiori.

SALZEDA

A Salzeda finalmente non piove più, anzi si vede oltre il granito stranamente giallo con cui è costruito il monastero cistercense il blu del cielo. In giro non c’è quasi nessuno, due vecchi fanno stanno seduti su una panchina in fronte al pelourinho,  alcuni grossi cani gialli come quei graniti pomeridiani stanno sdraiati sulla piazza della chiesa. La chiesa è chiusa,  varco una porticina di legno del monastero, il ragazzo delle chiavi mi dice che il monastero è in restauro, non si può visitare ma se voglio mi fa fare un giro nella chiesa, arrivano anche altri visitatori: una coppia e poi altri quattro signori, tutti portoghesi. Entriamo in chiesa. La facciata baroccheggia, forse cinquecenteggia e non mi aspetto molto dall’interno della chiesa, invece appena varcata la porta di legno verde si scende fisicamente dei gradini in un pavimento assente e madido di umidità e mi sembra di percorrere a ritroso decenni e secoli. L’ambiente interno è grandioso e spoglio, i muri e le colonne di pura roccia, le ampie discontinuità tre i conci di roccia che formano le pareti, frammenti di roccia di riempimento in alcune zone dietro colonne più piccole conferiscono alle tre navate un aspetto arcaico, abbandonato, ma poeticissimo e triste, assoluto essenziale eroico. Ampie sciabole di luce entrano dalle vetrate rotte e dalle fessure sotto le porte e conferiscono dei lampi di saggezza ancora più antica a questo interno davvero singolare e magnifico e a queste scure fughe di archi a sesto appena acuto con sotto, altari stranamente imbanditi con tovaglie bianchissime. Credo che sia meglio che il restauro non abbia mai fine e che l’umidità del rio Galhosa che scorre sotto il convento continui a corrompere queste rocce e questo ambiente per i pochi visitatori che hanno la voglia di venire ancora. 
I cistercensi sono amanti dell’acqua, si insediavano su paludi e acquitrini per bonificare le terre da coltivare, qui addirittura hanno costruito il loro monastero sopra il rio Galhosa che adesso crea particolari problemi tecnici al definitivo restauro del sito. Scoprirò poi dal Monaco Anselmo dell’Abazia cistercense di Casamari, nella nostra Ciociaria, che tale scelta era anche in funzione di bisogni contingenti. Mi dice Anselmo con aria furbetta “Non ti hanno detto qual’era il trucco? Immagina trecento piatti per la colazione e altrettanti per il pranzo e ancora trecento piatti  per la cena, e tutte le stoviglie, venivano messi in una rete che era calata direttamente nel fiume che provvedeva ogni volta al lavaggio di tutto quanto.

O VINHO DO PORTO

La teoria è abbastanza nota: le vigne sono confinate attorno al Douro e ai suoi affluenti nella regione che va da Pinhao al confine con la Spagna. Tali limiti sono stati definiti da una legge ai tempi del Marchese di Pombal. Dalle terre di origine dell’uva, che può essere di diversi vitigni, sia bianca che nera, Il mosto o il vino non ancora porto quindi viene trasferito fino a Vila Nova de Gaia dove nelle cantine delle varie case diventa tanti tipi di porto e si invecchia fino ad essere spedito in tutto il mondo. Oggi il porto non si trova solo nelle cantine della borghesia inglese o nordamericana ma anche nella enoteca sotto casa e al supermercato di tutto il mondo in milioni di bottiglie.  Una volta scendeva con “os barcos rabelos”, poi con il famosissimo e da me ripetutamente decantato treno, oggi credo con grandi autoarticolati.  Vado dunque in cerca della sorgente del porto, delle vigne terrazzate che segnano la scoscesa valle del Douro e dei suoi affluenti di destra e di sinistra. Tecnicamente a nord del fiume nel Tras-os-Montes e a sud nella Beira Superior. Sono in tempo per la vendemmia, e sorpresa delle sorprese non è effettuata con tecnica meccanizzata e moderna, come la quantità di prodotto circolante, poteva far credere,  ma a mano e con le gerle sulle spalle. La gente si arrampica su per i gradoni intagliati nella roccia con le gerle di vimini e scarica l’uva in grosse casse che a loro volta vengono caricate su piccoli furgoni che riescono a contenere alcune centinaia di kilogrammi di uva. I furgoni fanno quindi la spola fino alle quinte dove l’uva viene lavorata. La vendemmi è fatta tutta a mano, per le vigne non ci sono trattori, non riescono ad andarci. La vendemmia è ancora come quella raffigurata nei fotogenici azulejos della stazione di Pinhao. La stazione di Pinhao è da decenni fotografata in numerose guide del Portogallo e usata dal governo Portoghese per la promozione turistica del paese. La stazione è piccola come tutte le altre della linea del Douro ma è tappezzata da grandi azulejos che raccontano il luogo con la città  vista dall’alto, con il ponte di ferro ad archi sul fiume, con i terrazzamenti che scolpiscono i fianchi della valle fluviale, con le signore allegre in costume tradizionale che raccolgono i grappoli, con carri trainati da buoi che camminano sull’acqua carichi ognuno con una botte di legno, con scene di carico delle botti sulle barche a vela, con file di uomini che risalgono sentieri a tornanti con le gerle colme di uva sulle spalle, con barche dalla vela gonfia di vento che navigano verso valle. Pinhao è il centro storico e geografico della coltivazione delle vigne per il porto. Da questa piccola città partono due strade che disegnano una  V ascendente nel versante nord del fiume, una sale verso sinistra fino a Sabrosa, l’altra sale verso destra fino a Favaios e ad Alijo. Si potrebbe disegnare un’altra  analoga alla precedente scendendo da Alijo fino a Tua per poi risalire ancora verso ovest e verso Carazade da Anziaes. La strada per Scabrosa dapprima va su ripida e guadagna con rapide curve tra vigne e alberi di olivo, la spalla della valle. Da quel punto si  rilascia indietro un buon tratto di fiume che scorre in fondo e lambisce il paese e il ponte di ferro ad archi, in avanti si profila una specie di altipiano in leggera ascesa verso nord blandamente solcato dalla larga  valle del Pinhao, meno profonda di quella del Douro, ma quasi completamente tracciata da lunghe e serpeggianti terrazze di viti che quasi fungono da curve di livello rendendo quella porzione di terra una meravigliosa carta topografica che non possiede i difetti della scala ridotta, di nessuna deformazione matematica e non è affatto simbolica perché i paesini di case bianche sono realmente raccordati da strade bianche e qua e la ci sono boschetti di vivido e realissimo verde scuro e a tratti coltivazioni di un verde più chiaro che non riesco a distinguere. Sabrosa è praticamente costruita su un piano. La città è linda, elegante con le sue grandi bianche case, signorili bordate di granito. Le costruzioni sono aristocratiche a tratti altere, talvolta fredde, danno l’idea di un paese abitato solo da aristocratiche famiglie di proprietari terrieri. Famiglie legate alla terra che ancora una volta hanno generato favolosi navigatori. Di Sabrosa è addirittura Fernando Magellano, il trasmontano che agli inizi del 1500 ha per primo fatto il giro del mondo attraversando l’oceano Atlantico, il Pacifico, l’Indiano per poi fare ritorno nella penisola iberica. In una piazza, tutta di granito ho ritrovato il grande Magellano, ma un Magellano bambino che  in ginocchio sulla riva di uno stagno o di un laghetto mette in acqua una barchetta e la spinge verso l’altra parte del laghetto verso un’isola occupata da una unica costruzione, qua e la nel dall’acqua sorgono isole di granito, continenti in mezzo al mare oceano. Tutto in questa rappresentazione monumentale è costruito in granito grigio meno che la barchetta e Magellano bambino che sono scolpiti in un calcare bianco sul quale viene subito focalizzata l’attenzione dell’osservatore. Non puoi fare altro che fissare con attenzione quel bambino inginocchiato, no, forse seduto sulla riva che osserva lontano e che spinge con la mano destra una barca verso l’altra sponda del laghetto, verso un obiettivo lontano ma ben visibile dal suo sguardo e dal suo sogno.  Trovo decisamente poetica e positiva l’idea di aver ridimensionato l’eroismo guerriero della impresa di Magellano e di averla ricondotta ad una valenza della creatività e del gioco, facendola percorrere dalla fervida e innocente fantasia di un bambino. Ecco per fortuna, un altro luogo dove il Portogallo sa giocare con se stesso e forse con la sua storia, a volte troppo ingombrante per quel piccolo paese che adesso è diventato. Ho avuto altre volte modo di rilevare altre occasioni questo Portogallo non celebrativo ma addirittura ironico verso la sua storia: a Tomar, a S. Vicente de Fora di Lisboa. ……….
Alijo, l’altra cittadina, l’altro vertice della V risulta invece meno austera e aristocratica con le sue costruzioni dal bianco più opaco e scrostato, con la sua copiosa pioggia della sera che scorreva tumultuosa tra i marciapiedi della silenziosa e solitaria strada principale. Alla mattina dopo l’aria pulita e fresca ti fa pensare giù in basso alla cicatrice del Douro e su in alto verso le terre alte ti fa vedere la serra di Marao e le altre montagne. Alla mattina, senza la pioggia, la via principale svela piazzette dalle forme insolite in dislivello ascendente e discendente e belle costruzioni con in alto, oltre le tegole rosse dei tetti, verande bianche e abbaini dalle finestre a cuspide gotica e camini rotondi di un bianco pulito che svettano sopra il rosso pulito dei tetti. La via principale sale lentamente con una ampia curva verso sinistra, di qua e di la occhieggiano la macelleria, la vetrina della farmacia con rimedi ormai desueti nella nostra Europa digitalizzata espone garze e cerotti e pomate, negozi antichi offrono le loro scarpe, i loro immancabili articoli casalinghi di plastica e latta, i loro viaggi a Madeira e in Algarve ma anche nel resto dell’Europa e in Egitto. In piazza gli uomini stanno in piedi fermi, appoggiati al muro delle case, o seduti al bar a fare le cose che si fanno al bar alla mattina nel Tras-os-Montes. Questi luoghi del nord est del Portogallo e più in generale tutto il Portogallo, hanno la capacità di evocare alcuni miei vissuti infantili o di quando ero ragazzo. In Portogallo ritorno bambino, mi ripenso come ero quando non sapevo di essere quello che ero. Per questo vivere ancora, per continuare a vivere che torno in Portogallo. Sono solo sensazioni, odori o colori o luci che rivivo a volte. Qui ad Alijò mi sembra di essere di nuovo in montagna, a Borca di Cadore tanti anni fa con la stessa curva della strada statale che va su verso Cortina D’Ampezzo e ecco li a sinistra lo stesso negozio di scarpe, pedule da montagna e scarponi da sci di Bonetti. Certo le montagne attorno sono diverse, non ardite e chiare e luminose come il calcare delle dolomiti ma l’ambiente culturale è proprio lo stesso, il mio stupore è lo stesso di tanti anni fa, magari non c’é neve sulla strada, ma le scarpe di pelle sono  le stesse, li dietro la vetrina di Bonetti. Io sono lo stesso, curioso e sensibile. Ma non sembri che Alijo sia un paese che provenga dal passato arcaico del Portogallo e sia rimasto mummificato in quel limbo che sembra che gli stia creando in funzione delle mie necessità di passato e di fanciullezza. La città, perché di città che si tratta, ha il suo palazzo di giustizia costruito di recente, il platano più grande di un buon tratto del vasto mondo, una deliziosa pousada regionale, ha una grande cooperativa vinicola con i suoi svettanti serbatoi di acciaio inossidabile, un moderno centro scolastico pieno di ragazzi vocianti di tutte le età, un campo sportivo nuovo e giardini curati con monumenti moderni, e addirittura tocca fare la coda  con la macchina tornando da Favaios.  Favaios è qualche chilometro più a sud e in basso, è una città più piccola con il centro che occupa un incrocio di alcune case signorili e una piazza con l’ufficio postale, la cartoleria, il bar e il negozio della cooperativa vinicola che qui va famosa non per il vinho do Porto ma per il Moscatel. Un vino da dessert o meditazione che si voglia, bianco, molto dolce, con meno gradazione del porto  ma che si ottiene senza l’aggiunta di acquavite. E’ il Moscatel del nord, il fratello povero del Moscatel di Setubal, più conosciuto e apprezzato non tanto perché sia veramente migliore ma forse solo perché l’altro non proviene da un luogo veramente imboscato tra il metafisico solco del Douro e la strana serra do Marao. Entro nel bar, anche lui classicamente e preziosamente oscuro, compro impeccabilmente una bottiglia di moscatel che il ragazzo al banco mi incarta con aristocratica cura, come se fosse un gioielliere alle prese con una preziosa collana, avvolgendola con un foglio di giornale che manco a farlo apposta, oltre alla scritta, contiene anche i colori verde e rosso della bandiera portoghese, e poi la mette in un sacchetto di leggerissima plastica azzurra e me la porge con un fare desueto e decisamente arcaico come mi sarei aspettato. Esco contento da quel bar, anche perché vi ero entrato con problemi di come salutare gli avventori e di che tono usare nel chiedere il vino e di come comportarmi, muovermi e gesticolare nel parlare. Esco contento con il mio prezioso trofeo sotto braccio e vado anche a compare il quotidiano “O Publico” e una cartolina per il Panta. Strano ma abbastanza in evidenza, su quel giornale, leggo dell’apagon in Itàlia, della mancanza della corrente elettrica in tutta Italia per un banale guasto ad una linea di trasmissione della elettricità.
Scendo verso Pinhao per rivedere il Douro, arrivo fino a vederlo dall’alto serpeggiante li in fondo alla forra, mi fermo molte volte ai bordi della strada ad udire i rumori della vendemmia e gli odori della vendemmia tra quinte disseminate tra le fasce e i terrazzamenti ormai non più verdi ma marroni e sassosi di rocce. Ritorno su ad Alijo e mi dirigo con decisione dove il fiume Tua confluisce nel Douro. La discesa della valle del Tua dapprima è blanda e agevole tra gente che vendemmia e pik-up parcheggiati al bordo della strada con le casse di uva gocciolante e odorosa, poi si fa ardita, addirittura  vertiginosa, a sinistra, la profondissima e arida forra fa a tratti intravedere l’esile azzurrino corso d’acqua che appare insignificante rispetto alla sua larghezza a Mirandela. Appaiono anche le esilissime tracce dei binari  a scartamento ridotto della ferrovia che ancora funziona caparbiamente e si inerpica su per  il burrone di sassi per portare chissà chi  dalla foce del Tua a Mirandela.  Anche il nome Tua evoca il mio passato, questa volta il mio passato famigliare. Tua era il nome con cui, mio figlio Daniele, piccolissimo chiamava la sua madre e la mia moglie. “Dai Daniele non piangere, adesso arriva Mamma Tua” e lui “ Tua, Tua…”. Tua è la foce del fiume nel Douro, è la sua stazione da dove inizia la linea di Mirandela, è poche altre case aggrappate alla ripa del fiume e bianche quinte sparse nelle pieghe della terra. Tua è un ripido approdo al Douro, con un cartello di cartone rotondo,   ed un numero di telefono in cima alla ripida discesa che porta al fiume: “Alluga-se barco para passeio. In fondo un solitario imbarcadero con una barca attraccata e solitaria. La barca ha un tendalino azzurro con la scritta “Calça Curta”. Scendo fino all’acqua e salgo sul pontile galleggiante di metallo, il fiume scorre con una corrente lenta ma possente, si sente bene la forza di questo fiume qui sulle corde d’acciaio che trattengono il pontile e si percepisce la energia di questo selvaggio, indomito, strano animale fiume, questo mostro iberico di acque  che da tranquillo corso d’acqua di altopiano in Castiglia, tra le montagne del Portogallo, precipita in quel vallone metafisico fino al richiamo ineluttabile dell’Atlantico. L’acqua ritorna alla sua casa, velocemente e senza guardare in faccia nessuno, quando sente il richiamo di casa. Ricordo ancora il ponte di Castelo de Paiva spazzato via dalla corrente e i corpi caduti nel fiume, trasportati fino a dentro l’Atlantico e poi arenati su fino alla Galizia. Ricordo lo scozzesissimo Barao di Forrester annegare nel fiume, ghermito dalle acque selvagge e appesantito dalle monete d’oro della paga dei suoi lavoranti di Regua . Ora ci sono tante dighe che regolano la veemenza delle acque, ci sono le dighe che producono una enorme quantità di corrente, tanto da allontanate gli spettri dell’apagon all’italiana, ci sono le dighe che producono irrigazione per colture moderne e rendono anche il mostro acquatico a tratti navigabile.

FREIXO DA ESPADA A CINTA (UNA GIORNATA TROPPO LUNGA)

Freixo compare come una tappa irrinunciabile, da non perdere sulla guida Lonely Planet del 1997, nella stessa guida, nella edizione successiva, quella del 2003 non è nemmeno mai nominata. Stranezze dei media del turismo, gli autori sono gli stessi, perché poi a Freixo non dovremmo andarci più se prima dovevamo strapparci i capelli. Io ci vado per il suo nome che già è una storia raccontata o da raccontare o da imparare: la città del frassino e della spada attaccata alla cintura, forse la cintura del solito Dom Dinis che quassù venne a combattere i casigliani con la sua spada magica. Io ci vado perché la so isolata e sola di fronte alla Castiglia, gli vado a fare compagnia. Scendendo dalle alture di Torre di Moncorvo verso la valle del Douro la scopro piccola, quasi nascosta tra i sugheri, strano incontrare di nuovo i sugheri, ma non sono solo in Alentejo? Eccola questa piccola città, isolata dal Portogallo e vicina alla Spagna, e si che se devi fare l’università Salamanca è a un terzo della distanza che ti separa da Porto, o da Coimbra. Si vede già da quassù la sua strana torre eptagonale, torre di difesa verso il solito nemico orientale sempre incombente, ma la torre è sola anche lei, esile, quasi elegante, e non rende a Freixo un aspetto militare. Mi avvicino ancora, ecco che Freixo mi diventa un paesone della toscana.  E’ costruito di granito come un paese del Tras Os Montes ma il granito sembra l’arenaria dell’Appennino toscano, sembra pietra serena, come la chiamiamo noi. Questo granito gentile, sereno, l’elegante torre cancellano per sempre l’idea militare e di baluardo che mi ero creato, Freixo è gentile e calda., calma e serena in questo pomeriggio di ottobre. Mi ci trovo bene perché sul balcone di praça do poeta la vecchia si asciuga i capelli al sole come faceva mia nonna Olga e le signore di San Donnino nel mio Appennino marchigiano, con l’asciugamano bianco appoggiato alle spalle e l’aria abbacinata verso il sole che ormai va deciso e preciso verso il tramonto ma rimane comunque caldo e serio. Mi fa piacere fermarmi perché il benzinaio, mi aiuta a mettere l’acqua per il lavavetri mi risponde in francese. Per cortesia di altri tempi? Non credo, più per via della che da questo Portogallo l’emigrazione è stata, è ancora, verso la Francia, in giro si vedono parecchie targhe di tutti dipartimento, di francesi o portoghesi  in vacanza a casa o a casa dei genitori o dei nonni, o chi sa per che motivo e ancora una volta non posso non pensare al nostro Appennino estivo e a tutte le automobili targate Roma e a tutti i romani di ritorno. Mi trovo bene perché è pieno di gatti che si fanno fotografare e perché la chiesa in piazza è veramente deliziosa e sembra che sia più grande e importante di quello che a prima vista mi può sembrare. Infatti i tre portali manuelini anticipano il bel interno e le colonne slanciare che sostengono un aereo soffitto, sembrano sei palme in un’oasi ombrosa, alte colonne lisce con un esile fregio e basta e su il cielo e …. ancora questa sensazione di pace e tranquillità che mi da questo pomeriggio qui sopra questo coro scricchiolante di  vecchio organo e vecchio legno e di vecchi schedari abbandonati da anni quassù. Fuori, siedo ancora tranquillo davanti alla statua di Jorge Alvarez  “navigator e 1° cronista do Japao no 1542”, dietro di me escono e entrano dalla biblioteca municipale i ragazzini che fanno i compiti e il solito casino dei compiti insieme, alcune signore vestite di nero, cerimoniale, passano in diagonale ascendente per andare alla messa nel gioiellino di Diogo de Boitac, il decimo gatto vince, un bel soriano poderoso che ho visto prima propria qui in Praça Jorge Alvarez all’imbocco di Rua da Cadeia, chissà dove sarà, la in alto la torre eptagonale è solamente la torre dell’orologio e la Spagna non ci mette più paura, magari fame? Magari un poco di soggezione, loro con le grandi cattedrali gotiche piantate li in mezzo alle città, come meteore cadute dal cielo, campanili esagerati venuti da altri mondi e conficcati nella polvere delle piazze della Castiglia, e le chiese romaniche con i loro giudizi finali e i portali, e noi di qua con il nostro romanico rupestre e contadino con questa nostra parrocchiale manuelina cresciuta dal nulla, in debole salita, tra la biblioteca municipale e il cimitero.
E’ tempo di andare, non posso stare sempre sospeso su questa tranquillità abbandonata. Lascio Freixo con la mia macchina grigia, verso est, raggiungo subito il fiume Douro e la Castiglia, la diga e la centrale idroelettrica. Sopra la diga passa la strada per Salamanca, io, finche posso,  rimango di qua, sulla costa occidentale di questo ramo d’acqua che da almeno una settimana sto seguendo, allontanando e avvicinando continuamente. L’ho incontrato per la prima volta a Soria sotto il ponte acciottolato per entrare in città. Lassù è un rigagnolo, uno specchio d’acqua per papere  e merende di ragazzi e per ragazzi che danno il pane alle papere.. L’ho seguito per la Castiglia per una bella e larga valle, verde e costellata di quinte. Qui in queste terre fa il suo lavoro di confine da più di ottocento anni.  Ora, dopo la diga, scorre largo e tranquillo in mezzo ad alte colline, gialle e prive di vegetazione ha piegato perfettamente verso ovest e il sole del tramonto mi tortura per almeno venti chilometri, fino a Ponte de Alva. Qui il Douro entra in Portogallo, lo attraverso verso sud sul ponte Ammiraglio non so chi, oltre il ponte finisce anche la ferrovia che viene da Pochino, da Tua, da Pinhao, da Peso  e volendo da Porto S Bento.
La ferrovia Porto-Barca de Alva, altro mito di questo viaggio, piuttosto un altro viaggio da fare su dei treni antichi e forse in orario, su un binario a scartamento ridotto che costeggia, corteggia il fiume, gli aderisce perfettamente, non lo abbandona mai, anche quando non ci sono più strade vicino al fiume, la ferrovia è li. La ferrovia è li dal tempo del trasporto del porto verso Vila Nova de Gaia, con le sue vecchie stazioni e le torri serbatoio dell’acqua con i nomi scritti a grandi caratteri neri, con le carrozze abbandonate e le vecchie locomotive a vapore ferme da decenni sui binari morti, con i vecchi dormitori dei ferrovieri ormai distrutti dal passare della loro moderna inutilità. La ferrovia e li con i passaggi a livello senza sbarre ma con la poeticissima avvertenza “Atençao aos comboios – pare, escute, olhe” (attenzione ai treni – fermati, ascolta, guarda). Fermati, ascolta il treno che arriva, che risuona con il suo clacson da grande camion su e giù per la valle, guarda le piccole carrozze bianche e rosse che sferragliano lente dietro al quel locomotore a gasolio, tutto rosso e con la sua grande testa che gli rende il profilo tozzo e non assolutamente aerodinamico alle velocità dei treni di oggi. Il treno della linea del Douro è lento, antico, arcaico. La linea ferroviaria del Douro è un capitolo rilevante delle guide di turismo ferroviario, dove vengono anche descritte le derivazioni come quella che da Tua sale a Mirandela e che proseguiva fino a Bragança, come quella che da Peso risaliva il fiume Corgo passando per Vila Real, portava la famiglia reale e la nobiltà del regno nelle località termali di Pedras Salgadas e Vidago per poi finire a Chaves, come quella che da Pochino, passando per Torre di Moncorvo e costeggiando il fiume Sabor raggiungeva Duas Igrejas e praticamente Miranda do Douro, o come quella che da Amarante andava a nord. I treni andavano in ogni luogo di questo Tras os Montes ora non più, è rimasta attiva solo la linea principale. In alcuni casi non ci sono più nemmeno i binari, sono rimaste comunque le stazioni, abbandonate tra le erbe selvatiche o ancora funzionanti sono comunque luoghi sempre romantici e poeticissimi. Puoi trovare quella famosa di Pinhao, tappezzata da fotogenici azulejos raffiguranti la saga del vinho do Porto. Puoi imbatterti in quella più anonima di Ermida, incassata dentro il profondo rift del fiume a  valle di Mesao Frio dove le vigne abbandonano il Porto per il Vinho verde, dove gli azulejos sono quelli classici e dove la gente comunque aspetta il treno in salette con sedili di legno, stufette a legna, pendole di legno che segnano l’ora, bacheche di legno con l’orario del treno. Stazioni in cui il materiale predominante è ancora il romantico e vecchio, caldo, lucido legno e non l’algido metallo o plastica dei nostri tempi. Puoi parcheggiare davanti allo scalo di Tua sulla strada o sul piazzale costellato da buche fangose, tra montagne di vecchie traversine puzzolenti, carrozze decrepite e abbandonate, edifici ormai distrutti, locomotive incendiate. Potrebbe sembrare che il luogo sia abbandonato da decenni, ma poi ti accorgi che il bar li di fronte funziona, ti guardi attorno e ti accorgi che le macchine parcheggiate vicino alla tua sono recenti, sono contemporanee a te e che saranno sicuramente di poco probabili pendolari che sono andati a lavorare chissà dove. Puoi infine ritrovare la stazione di Vidago alla fine di un ombroso viale alberato, chiusa orma da sempre, serrata, tra le alte erbe selvatiche con solo venti metri di piccolo binario, gli alti marciapiedi e i palloni rotondi e bianchi dei lampioni ormai spenti anche di notte.
Pensando ai treni del Tras os Montes quasi non mi accorgo della rapida salita verso sud tra migliaia di giovani ulivi che punteggiano il versante. Salgo fino al bordo di un’altopiano e al miradouro di Sapinha: Dietro gli aspri declivi e gli olivi del parco Douro Internacional e in fondo ancora le azzurre anse del fiume e la Castiglia, in avanti il piatto altopiano della Beira Alta portoghese: strada rettilinea per chilometri e chilometri tra secche erbe gialle e piccole bocce di granito, solo nel lontano orizzonte verso sud alcune elevazioni sull’altopiano, colline o piccole montagne,  e pennacchi di nuvole bianche. A  Escalao non mi accorgo di abbandonare la strada principale per una secondaria e proseguo per errore fino al piccolo villaggio di Mata de Lobo (foresta del lupo). La sensazione e quella di un blando dispiacere di percorrere questo spazio questa landa del Portogallo e riuscire solo a scalfire la conoscenza di questo luogo, guardare con occhi veloci il paesaggio e fotografare dalla macchina quel divenire veloce di piante, cartelli, croci bianche, il campanile che si avvicina e le due montagne sullo sfondo ormai del coreografico rosso tramonto. Traccio ancora una volta un segno indelebile nella mia mente e un segno in una parte del Portogallo. Non so se passerò ancora di qua e quando, ho l’ansia di non percepire abbastanza il paesaggio, di non ricordare abbastanza, di sprecare questi attimi di conoscenza e di sintonia con il luogo che comunque non è, non sarà sufficiente.  Giù in fondo i due risalti di Marofa e di Castelo Rodrigo. Ora sono nel piccolo villaggio che ha nome “Foresta del Lupo”. Ma non ci sono foreste, non ci sono lupi, solo case basse di granito e una capra nera legata con una corda di canapa ad una fresa a sua volta applicata ad un trattore. Perché questi nomi, mi vorrei fermare a domandare, perché foresta del lupo in questo  altopiano privo di alberi e abitato da capre. Ma devo arrivare a Castelo Rodrigo. Ripenso a quanto è stata lunga questa giornata da Alijo, Favaios, Tua, Caranza d’Ansiaes, Castanheiro, Vila Flor, Torre di Moncorvo, Carviçais, Freixo. Troppi luoghi visti, troppe sensazioni da ricordare, sedimentare, rimuginare, in poco tempo, un sentimento si accavalla sull’altro con fragore e quasi appiattisce il precedente. Quasi stento a impilare i ricordi nei luoghi dove sono nati, eppure è una cosa che bisogna fare. Vila Flor in cima ad una salita con aiole e panchine e larghi marciapiedi bianchi e neri come a Lisboa, a Castanheiro non ci sono più le vigne di porto ma continuano gli olivi. A Torre de Moncorvo non vedo la miniera romana ma la piazza con i vecchi col panciotto e i muratori che lavorano malamente sul trabattello, e la chiesa grande con colonne che sembrano palme frondose e la torre dell’orologio.
a Carvicais rimane ancora in piedi la stazione della linea del Sabor ma senza binari e i due vecchi marito  e moglie molto vestiti di nero sul carretto a ruote di gomma trainato da un asino dalle orecchie elicottesresche. A Caranza d’Ansiedade la foto alla caserma dei pompieri.
In alto sul cocuzzolo giunge improvvisa la cittadella diruta, turrita e munita di Castelo Rodrigo. Ormai sola nella ultima rossa radente luce del tramonto, lento tramonto ma ineluttabile faccio appena in tempo a vedere illuminate le tegole e i graniti alti delle case, la torre campanaria della chiesa del Reclamador, gli alti ruderi di una singolare costruzione, quasi un castello con tante grandi finestre che danno sul cielo, ancora  il pelourinho che si spegne della luce solare dal basso in alto. Tutto rifulge di una intensa luminosità  arancione della luce del tramonto e del colore del granito che la riflette e la amplifica  verso lo spazio circostante ormai privo di luminosità. La parte terminale del pelourinho, la chiamo per l’appunto la lanterna, in un attimo si infuoca di una luce fulgida e rutilante, come se fosse un fiammifero che si accende e rifulge breve e lancinante nella sera, come se fosse il lampo di un faro nella notte. “Ma il tempo, tac, non ci aspetta, non ci rispetta e corre veloce come un treno”2. Anche il pelourinho si spegne, in giro non c’è più nessuno, inizia a fare freddo, saremo a mille metri di altitudine. Non rimane che scendere ormai di nuovo verso il basso e chiedere asilo per la notte nella munita fortezza di Almeida.

ALMEIDA

Almeida ha mura possenti a forma di una grande stella a dodici punte. La stella di muratura contiene la bianca cittadina, ma contiene anche prati verdi sugli spalti delle mura, in larghi spazi di verde erba bagnata alla mattina su cui arrugginiscono fusti di cannoni puntati verso l’esterno, e su cui, ora, bruca più pragmaticamente un asino marrone dalle orecchie elicotteresche. L’asino di questa mattina è il segno ancora una volta di un Portogallo autoironico che, nei posti troppo seri e come in questo caso , assolutamente troppo marziali, non si prende sul serio ma gioca con i segni e i significati. Anche Monsanto che all’assoluto culmine della portoghesità aveva le sue scampanellanti caprette e il suo roseo porco dentro il recinto di antico e ufficialissmo granito. Almeida sopra il verde dei prati e il marrone degli asini è bianca della torre dell’orologio e della torre dell’acqua e della caserma della fanteria, del quartier generale ora divenuto la sede della Camara Municipal. Una città bianca costruita per la guerra alla Spagna, pertinha pertinha, ma distrutta dai francesi durante le guerre peninsulari. Già, il nemico storico di sempre la Spagna appare meno distruttiva dei francesi. I francesi in Portogallo ci sono stati poco ma hanno fatto dei danni enormi. Le loro malefatte, veramente impressionanti, le ho trovate ad Amarante, a Botica, qui ad Almeida e non mi ricordo dove. Nelle Beiras la gente nascondeva il cibo per non darlo ai francesi. Ho l’impressione che l’esercito francese abbia compiuto una odiosa guerra di occupazione, che le truppe liberatrici di Napoleone abbiano creato più rancore che libertà in Portogallo. Per il Portogallo, nel secolo successivo,  la Francia sarebbe comunque diventata il faro culturale, una terra dove rifugiarsi e dove emigrare. Al tempo di Mario de Sa Carneiro e di Fernando Pessoa Parigi era piena di portoghesi, pittori, letterati, scrittori, cultori di altre arti o semplici figli di borghesi ricchi, che erano fuggiti dal provincialismo culturale di Lisbona e del Portogallo per imparare o per vivere l’arte o la semplice modernità europea. Ancora oggi in alcune grandi città della Francia, specialmente nel sud, ci sono nutrite comunità portoghesi. A Bordeaux, nella libreria Mollat ho trovato una nutritissima raccolta di letteratura portoghese e di dischi di musica portoghese, forse superiore e quelle di qualsiasi città portoghese che non sia Lisbona o Porto. Insomma può darsi che Bordeaux sia la terza città portoghese.

 

JOSÉ - Carlos Drummond de Andrade

 
E ora, José?
La festa è finita,
la luce si è spenta,
la gente è partita,
la notte è ghiacciata,
e ora, José?
e ora, che è di te?
di te che non hai nome,
che prendi in giro gli altri,
di te che fai versi,
che ami, protesti?
e ora, José?
Sei senza una donna,
sei senza discorso,
senza tenerezza,
ora non puoi piú bere,
non puoi piú fumare,
non puoi nepure sputare,
la notte è ghiacciata,
non è arrivato il giorno,
non è arrivato il tram,
non è arrivato il riso,
nemmeno l'utopia
e tutto è finito
e tutto si è ammuffito,
e ora, José?
E ora, José?
La tua dolce parola,
la gola, la dieta,
il tuo istante di febbre,
la tua biblioteca,
il tuo giacimento d'oro,
il tuo vestito di vetro,
la tua incoerenza,
il tuo odio: e ora?
La chiave nella mano,
tenti aprire la porta,
non esiste porta;
vuoi morire nel mare,
ma il mare è seccato:
vuoi ritornare a Minas,
Minas non c'è piú.
José, e ora?
Magari tu gridassi,
magari tu piangessi,
magari tu suonassi
il valzer viennese,
magari tu dormissi,
magari ti stancassi,
magari tu morissi...
Ma tu non muori,
tu sei duro, José!
Solo nell'oscurità,
come un animale selvatico,
senza teogonia,
senza parete nuda
alla quale appoggiarti,
senza cavallo nero,
la gola e la dieta,
tu avanzi, José!
Verso dove, José!