VIAGENS INTERDITAS - 2007

 

 

 

 

 

 

 

VIAGENS    INTERDITAS

Fado e Vinho do Porto
(una falsa partenza)

La bottiglia l’ho aperta ieri e ne ho travasato il contenuto in una panciuta di vetro con il tappo di altrettanto vetro come quelli del rosolio di molti anni fa. Non aveva la posa che mi aspettavo per un vino di più di venticinque anni fa. Il rosso scende liquido nel bicchiere giustamente allungato e giustamente panciuto per trattenere gli odori. Rubino scuro, appena opalino in trasparenza. Già etereo e possente nel bicchiere, in bocca, man mano che si riscalda, esprime il suo eccezionale calore, aumentano le sue sensazioni, scorre ai lati della lingua e percepisco i suoi sapori, mentre si sprigionano i suoi aromi. Richiama saliva che lo ossida e lo diluisce. E veramente un Vinho do Porto eccezionale, come dice l’ Istituto do Vinho do Porto: O Inverno foi seco. A floração (pobre) decorreu com tempo chuvoso e frio, mas o Verão foi quente e seco, chovendo apenas em finais de Setembro, antes das vindimas. Qualidade excepcional, mas quantidade abaixo do normal. Vinhos retintos e frutados. Quase todas as empresas declararam1. 
Sono qui a eseguire questo rito alcolico, mi sto sparando in cuffia a buon volume il compact disc dell’ultima stellina del fado, giovanissima ed elegante nel suo scintillante e scollatissimo vestito rosso, lungo. E’ una bella figura nel suo profilo evidente sullo sfondo verde scuro di bosco. Evidenti i suoi occhi bistrati e i capelli biondi, la sua pelle chiara e le braccia serrate da cerchi di metallo dorato. Evidenti le  gambe   sopra le scarpe molto rosse, dal tacco alto, allacciate alla caviglia.
Fado e Vinho, due modi di perdersi in un Portogallo, per questa volta, non aperto e luminoso della luce del pomeriggio, ne oceanico, ne marino  e salino, non un Portogallo eroico delle sue gesta del passato, ma notturno e nascosto, legato ai pressanti bisogni del presente, alle semplici relazioni tra le persone, ai desideri primari delle persone. Un Portogallo di vicoli e taverne e di puttane da strada. Un Portogallo che resuscita dalle sentine delle sue città, depositi fangosi e popolari di umorali, sordidi vicoli, fondi di incontro delle rotte marine e terrestri, intrecci di navigatori di mari e di terre, di nobili decaduti, di poeti, contrabbandieri e banchieri, di cameriere malvestite dal canto sguaiato, di bagaço fatto in casa, di pessima aguardiente. Un Portogallo con la sua coda puzzolente e non oleografica “rabo” arrotolata attorno alle lunghe gambe delle splendide signore della borghesia settentrionale e dell’aristocrazia di sempre. Tentacoli viscidi avvinghiati ai lucenti cristalli che contengono i  vintage monumentali. Crepe e umidità e argille che intrappolano le quintas altrettanto monumentali del Douro e dell’Alentejo,  con corridoi lunghi di marmo bianco e cristallino di Estremoz e tappeti rossi, e mobili antichi dal legno scuro e levigato e vasi di porcellana cinese dal colore blu acceso e azulejos originali.  Miasmi e fetori che circondano l’elegante, nuovo, moderno mondo, quasi americano, dello spettacolo e della televisione. E’ la solita teoria degli estremi che si toccano, dell’animale mitico che si morde la coda, dell’essere vivente che non si sa dove cominci e dove finisca.  
La stellina del fado ha una inaspettata voce bassa e roca, piena e possente, avvolgente come il suo vestito rosso, il suo cantare è altrettanto caldo e liquido del meraviglioso e liquido rosso vinho do porto. La nuova stellina del fado ha una voce coinvolgente, graffiante, madida e sensuale….Potrei farmi guidare da lei e da questa traccia per raccontare il mio nuovo viaggio in Portogallo? Viaggio che al contrario di quello precedente, non è stato ne pensato prima, ne  meticolosamente preparato. Non aveva nemmeno un fil rouge definito ne condiviso. Gli interessi principali erano: ritornare ad Aveiro che avevo visto solo di notte, passare, attraversare verso oriente le due beire, vedendo Guarda e Belmonte, ritornare a Idanha a Velha nella Beira Baixa a circa 30 chilometri da Castelo Branco, luogo di nascita di Vamba, che nel 672 divenne re dei Visigoti magari passare a Panasqueira, una delle miniere di wolframio più famose d'Europa. Per ritornare a vivere per un breve periodo in Alentejo  avevo scelto la Pousada della Santa Reina Isabel a Estremoz  e la Pousada dos Loios a Evora. Cosa fare in Alentejo non lo sapevo.  Ero stato altre volte in Alentejo. Potrei vedere bene Evora ed Estremoz, ritornare nelle cave di marmo, e poi ci sono i campi di menir di Almendres (i più grandiosi della penisola iberica), le miniere della fascia piritica iberica, la intrusione granitica di Sines che tra l'altro è la patria di Vasco da Gama, le effusioni granitoidi della serra de Monchique e le sorgenti termali di Caldas de Monchique. I due plutoncini, tra l'altro, sono in perfetto allineamento con i graniti di Sintra e anche con le isole Berlegas.  Poi le spiagge selvagge del basso Alentejo, dove non vanno tanti turisti e l'interno della basso Alentejo, dove non va  proprio nessuno. E poi le tombe di Dom Pedro e Ines de Castro, e la cicatrice della Terra del Douro e il Vinho do Porto, i ponti di Porto e bo. Il viaggio sarebbe sicuramente finito a Sagres, finito sicuramente con un tramonto sull'oceano Atlantico.
Prima di iniziare il resoconto minuzioso, questa volta, cerco in anticipo, una giustificazione, un alibi. Viaggio da solo, come un animale solitario. Come un animale solitario rimango con occhi spalancati (per quello che posso vedere) con orecchie attente, naso pronto  a tutto. Sono come un'antenna pronta alla ricezione di qualsiasi movimento, essenza, onda, emozione. Sono curioso ai comportamenti e ai discorsi degli altri. Posso essere come Fernando Pessoa: un attentissimo osservatore che sta alla finestra. Ascolto  i luoghi e la gente. Ma, oltre che ascoltare e riferire, posso anche parlare con la gente, quando è il caso di parlare.

 

A  BRUXA
(la strega)

E’ la sesta volta che prendo il treno Salvador Dalì  da Milano a Barcellona. Stavolta, alla carrozza ristorante, mi siedo in anticipo ad un tavolo da due, nella speranza che non venga nessuno o in attesa che arrivi qualcuno di interessante con cui parlare, magari una bella Bruxa come l’ultima volta, magari una come Jenny.
Donatella si siede con fare spigliato di chi conosce bene  i modi del treno. E’ di Venezia,  sostenuta e tirata, di primo acchito elegante. Il suo approccio è estremamente formale, il discorso si muove, comunque abbastanza fluente, rigorosamente impersonale sul filo della ovvietà.  Donatella ha qualcosa di strano. Non è una manza da sballo ma comunque di effetto. Appare  o vuole apparire elegante e dimessa nello stesso tempo. Signora e contadina con il Burberry che si copre con il tovagliolo infilato nel colletto come i ragazzi dei collegi poveri di alcuni decenni fa. Ho l’impressione che non sia quello che vuole far credere. Le cose che dice potrebbe averle lette su qualsiasi giornale: la unicità della loro, nostra, Venezia, sulla moneta da un euro che dovrebbe essere di carta e  non di metallo, sui disagi dell’autostrada Salerno Reggio Calabria. Le dico che conosco il Veneto e Venezia, che ho fatto l’università a Padova, che ho abitato per alcuni anni a Mira. Lei si riferisce a quei posti con risposte da settimanale di viaggi: la Riviera del Brenta, le ville venete, ecc. ecc. Mi parla più volte di suo marito che è andato in aereo per lavoro e lei lo deve raggiungere, a volte mi dice a Madrid a volte in Portogallo. Donatella cosa mio combini, dove stai andando, chi sei, cosa stai cercando? Parla molto, conosce molto bene la penisola iberica e il Portogallo e il fado, mangia poco e per nessuna ragione il pesce o qualsiasi cibo che provenga dal mare. Beve solo vino rosso, si fa portare un’altra bottiglia di vino e poi un’altra bottiglia di vino. Donatella parla e parla. Parla della musica barocca, del fado portoghese, dell’Alentejo. Delle sotterranee relazioni tra la musica del declinante settecento veneziano e il fado portoghese. Accosta la struggente melanconia dei fadisti, alla struggente melanconia degli adagi di Benedetto e Alessandro Marcello. Non è forse la stessa morte quella della Serenissima Repubblica che sprofonda come un vascello, ignaro della sua fine,  nella nebbia e nel fango della laguna, nella nebbia e nel fango della storia? Ignaro e gaudente va verso la morte al suono di feste e lazzi e di ricchezze sfacciate. Non è come l’impero portoghese che nella gaudente e ignara ricchezza dell’oro e degli schiavi delle colonie vive la sua stessa fine. Come la nave che va e non torna, come la barca dei pescatori che va e non torna, come l’amato che va e non torna, tutto sprofonda nella nebbia e nei concerti per oboe di Albinoni o nei fadi strazianti e umidi delle nebbie dell’oceano. Venezia è un vascello fantasma, il Portogallo è un vascello fantasma, l’oboe, di legno lucido e vecchio, è un vascello fantasma.
Io provo a interloquire ma non ci riesco, mi guarda con occhi severi, intimidatori ma supplici come per dire
“e stai zitto! Stammi ad ascoltare!”
Come se farsi ascoltare da qualcuno sia la sua missione, il suo fardello, la sua professione. Che sia una venditrice di storie o semplicemente una matta, una mitomane, una venditrice di sesso, una rapinatrice una adescatrice di pipicchiotti come me o che so io. C’è tanta gente matta in giro. Non so come mai ci sono capitato con il discorso, ma gli parlai della luna che si specchiava o che avrebbe potuto specchiarsi sulle risaie che avevamo percorso con il treno tra Milano e Torino. La luna la fa ammutolire, repentemente si azzittisce, si fa triste. Si alza in piedi. Si avvicina al vetro del finestrino del treno volgendomi la schiena, si china come per specchiarsi sulla  superficie del vetro. Non pare interessarsi alla sua immagine, accarezza invece la tovaglia bianca sopra il tavolo con le mani, prima con il dorso, leggermente, solo a sfiorarla, poi con le palme in maniera più intensa e partecipata, ferma  quindi le sue mani, le unisce a toccare gli indici e i pollici, le preme decisamente sul tavolo come se dovesse azionare chissà quale interruttore, sollevando il viso, divaricando le gambe, inarcando in avanti la schiena e guardando lontano, verso l’alto. A quel punto, lei era li tesa e fremente di una eccitazione lontana, come un animale selvaggio prima dello scatto terminale per germire chissà quale preda. Ho creduto che stesse per emettere un urlo di caccia, un ruggito da felino o un ullulato da lupa. Invece si placa e mi dice senza voltarsi verso di me ma continuando a fissare chissà cosa oltre il finestrino buio del treno, mi dice che nessun marito la aspetta. Che ha lasciato il marito per un innamoramento fulmineo verso un uomo eccezionale che poi ha perso. Rimango stranito. E’ una balla? e perché me la viene a raccontare a me che mi ha appena incontrato per caso su questo treno? La situazione mi appare quanto mai infelice. Ho l’impressione che la signora mi voglia ingannare. E matta o cosa? Si gira e si siede, mi fissa con gli occhi grandi e con una espressione stupefatta. Si mette a piangere, prima sommessamente e poi sempre più forte fino a farsi sentire dagli altri viaggiatori seduti nella carrozza ristorante. Sarebbe il caso di portarla via da li, se non altro per evitare quel cinema infernale in cui siamo precipitati. Ormai tutti si girano e ci guardano, lei continua a piangere forte. La porto via più che altro per uscire da quella posizione imbarazzante. 
Non so se per spiegazione o per cosa mi racconta la sua storia iniziata, “tempo addietro”, durante un viaggio in treno da Madrid a Lisboa. Dice proprio così Donatella: tempo addietro e mi dice che di professione “suonava l’oboe nella nebbia e nel fango  di Venezia che sprofonda”.
“Il messaggio arrivò nel suo telefonino quando era nella sala d’aspetto delle Grandes Lineas della stazione della RENFE Chamartin di Madrid. Stava aspettando di partire con il Trenhotel notturno Lusitania.. Era, un bizzarro messaggio al quale non era associato nessun mittente e nessun numero. Usava tenere sempre il telefono in sola vibrazione, quella volta lo aveva nella tasche dei pantaloni. Il telefono vibrò e con lui vibrò ogni sua particella di carne e sangue, e quello scuotimento permeò tutti i suoi sensi e il cervello. Il messaggio era costituito da un lungo elenco di parole in ordine casuale in varie lingue, tutte neolatine:  portoghese, catalano, castigliano, galiziano, francese, italiano, solamente due erano in tedesco: liebe e  wasser. Quel messaggio la lasciò inquieta, cosa voleva dire? Chi l’aveva mandato? Come poteva essere arrivato li senza mittente? E cosa significava? 
Scendendo per le scala mobile che conduce al piano dei binari. Si rese conto che stava succedendo qualcosa di strano e di grande, si accorse di vibrare ancora in sintonia con qualcosa. Sentì il bisogno di girarsi verso la persona che le stava dietro. Fu un incontro fulminante. Dietro di lei, un uomo non alto, vestito di una eleganza che a lei sembrò di altri tempi stava guardando lontano. Aveva una giacca di buona fattura e nel taschino un fiore bianco di carta. I lineamenti delicati, non mediterranei, con i capelli leggermente ondulati, non neri. Le stava dietro e guardava fisso davanti a se. Sembrava che guardasse molto avanti oltre la stazione e oltre la Castiglia. Il viso delicato, quasi da bambino, aveva un magnetismo particolare.  Gli occhi chiari e profondi, propensi allo stupore, erano delle pozze dove affluiva la luce dell’ambiente circostante e il suo interesse. Rimase profondamente rapita di suoi occhi, rimase a guardarli per tutta la discesa fino al piano dei binari fino a quando il bagaglio che la precedeva non urtò in fondo alla scala mobile. Si fermo turbata e stranamente tesa per quello che le era successo. Lui stava salendo sullo stesso treno.
Era stata qualche volta in Portogallo, Lisboa e Sintra, l’Algarve e l’isola di Madeira. Lo trovava un luogo un tantino lento e triste, troppo ancorato al passato. Ma ci andava volentieri perché dopo tutto anche i portoghesi erano xxx. In cabina pensò all’incontro di prima, aveva avuto un interesse irresistibile per quel signore, distinto, elegante che dai lineamenti non sembrava portoghese, piuttosto un europeo del nord anche se la statura non era d’accordo. Avvertì sempre più forte il bisogno di rivederlo, di parlare con lui. Si dispose per la cena nella carrozza ristorante. Si preparò accuratamente, con un trucco delicato e con la mise più elegante che aveva: un vestito molto corto e leggerissimo, praticamente trasparente. Sperava di ritrovarlo nella carrozza ristorante e di parlare con lui, magari di scambiarci delle idee. Ma per qualche chiacchiera non c’era bisogno di tirarsi a quel modo.
Lo colse in uno dei tavoli da due, era solo, si precipitò con strepito di tacchi e ondeggi veloci del vestito come un uccello da rapina sul suo bersaglio. Le parlò in italiano:
“E’ libero quel posto, posso sedermi?
Lui non poteva fare altro che rispondere:
“La prego signora”.
Era portoghese, cantante di fado, abitava da solo in una casa isolata su una scogliera sull’Atlantico nell’Alentejo meridionale. Benché le loro indoli fossero diverse riuscirono sostenere un discorso abbastanza articolato sul Portogallo e sulla musica. Lei vulcanica, vitale, aperta alle chiacchiere, alle esperienze, alla gente, lui tenebroso, introverso, taciturno, magari lento a percepire cosa stava succedendo. Certo, poi, non lo aiutava la sua lingua portoghese anche lei chiusa, bassa a tratti lugubre ma cosi fluida, fluente, liquida. Lo guardava e lo pensava fluido, fluente, liquido. Si sentiva permeata delle essenze di lui, attraversata dalla sua fluidità, completata nelle sue parti mancanti, se lo sentiva addosso come il suo rovescio.  Che sia stato lui il messaggio grande quanto un essere umano in carne e sangue, un messaggio mandato da una entità superiore. Se fosse stata credente avrebbe pensato che quel uomo lo aveva inviato Dio stesso.
Anche lui si accorse della straordinarietà di quel evento, ci fu una tale intesa dei sensi, un tale rapimento e trasporto che nemmeno a Chambery la pelle di lui, morbida e sottile  e delicata, la inebriava con un odore tenue di lontano. i suoi baci sapevano di acqua di mare e la trasportavano oltre, il sangue di lui caldo e dolce le pulsava dentro il corpo mentre i suoi occhi chiari e profondi come l’oceano la facevano andare lontano lontano. Fu amore xxxx e sesso  per tutto il viaggio e per giorni e giorni e per molto tempo nella casa sulla scogliera. Erano solo loro, nessuno altro. Non esisteva più nulla di altro. Alla sera lei suonava il suo strumento di fronte alla maestosità dell’oceano e nella esile impalpabile nebbia che sprigionavano le onde infrante alla base della scogliera. Vivaldi e Albinoni sembravano di nuovo a casa li in quel sito.  Il canto solitario di lui era assolutamente al di fuori delle esperienze normali, il suo canto faceva accapponare la pelle. Una nenia disperato e che sembrava provenire da molto lontano dall’oceano infinito, un canto doloroso e irrinunciabile, una musica che creava dipendenza. Faceva ritornare ai i canti delle sirene di Ulisse, ai richiami di creature sopranaturali e comunque non umane. Lui si scherniva e gli raccontò che quella tecnica vocale l’aveva appresa nella sua terra natale, nell’isola di Faial nelle Azzorre che stanno proprio in mezzo all’oceano Atlantico. L’aveva appreso dalle balene e dagli altri animali dell’oceano e dagli uccelli marini e dal vento e dall’acqua stessa. Non riusciva a fare a meno del suo oceano, non poteva stare tanto tempo lontano dal “suo mare”. Durante tutto il tempo di permanenza in quella casa sulla scogliera che sta poco a sud di Zambujera di Mar, alla sera faceva sempre lunghe immersioni e nuotava sempre più a lungo. All’inizio si metteva sul bordo e guardava l’oceano per tempi interminabili, fermo come una roccia o come una statua di roccia, poi modulava il suo canto che permeava la sera e infine entrava lento nel mare nuotando lentamente e fluido non come gli uomini ma come un essere marino, stava sott’acqua per tempi non comuni e faceva cerchi sempre più grandi e immersioni sempre più lunghe. Lei lo aspettava estasiata, lo  amava anche per quelle sue stranezze che lo rendevano unico. Lo attendeva sulla spiaggia per ore e quando tornava era appagamento, reciproca  sottomissione e servizio, amore incondizionato. Fu un periodo drogato dove il tempo non esisteva e non esistevano i luoghi, solo loro, il loro amore perfetto ed esclusivo. Il tempo non trascorreva e non si poteva misurare, l’unica cosa misurabile erano i gerani che crescevano in maniera esagerata dai vasi che stavano sulle finestre della casa sulla scogliere, gerani che al loro arrivo erano racchi e stiracchiati. Lui diceva che l’amore fa crescere i gerani e le rose.  E i gerani erano diventati talmente alti che coprivano ormai tutta lo specchio delle finestre e per poter vedere il mare bisognava guardare attraverso i fiori.
Erano proprio li dietro la finestra a guardare il mare che turbinava freddo e voluminoso in fondo alla scogliera e lui le disse
“Quando l’amore avrà fatto arrivare i fiori al tetto, ti dovrò svelare un segreto”.
Quando i fiori arriveranno al tetto?Un segreto?
Il tempo trascorse ancora fino ad una notte, una notte di luna. Scesero tardi quella sera dalla casa sulla scogliera alla spiaggia. Camminarono lentamente, abbracciati e in silenzio fino al polveroso e desueto campetto di calcio. Da li imboccarono il sentiero fino all'orlo della scogliera, lui  andava avanti e lei lo seguiva e lo teneva per mano. La luna illuminava il sentiero e gli arbusti e le arenarie rugose, che formavano il paesaggio.
Raggiunsero l'orlo della scogliera, il vento dell'oceano li travolse ma non era freddo come avrebbe dovuto per quella stagione e per l'ora. Era invece caldo e dolce. Scesero le ripide scale di legno nel ventre umorale del vento oceanico che li cullava e li proteggeva. Scesero accarezzati dalle basse piante grasse che guarnivano le pareti di arenaria della falesia.  Scesero lenti e ancora in silenzio fino alla spiaggia sabbiosa, la marea era bassa, la spiaggia molto larga, il mare era ancora giù in fondo con le sua onde lunge e basse, lente e scure. La spiaggia era interrotta da costoloni di scura roccia che come schiene di animali arcaici e mitologici arrivavano fino all'oceano e si intersecavano ortogonalmente con la linea dell'acqua. Si sedettero su un costolone di roccia vicino all'acqua. Lui iniziò il suo canto che era ancora  più angoscioso.  Infine si immerse e nuotò  senza battere le braccia e le gambe, si muoveva appena fluido come un pesce o come un serpente marino e filava via  sulla superficie chiara dell’oceano senza un rumore. Continuava a cantare il suo richiamo penoso e che divenne doloroso e insostenibile per quanto armonioso e bello. Filò verso il largo e il canto si fece più sommesso finche lentamente non si udì più. Il canto sembrò che fosse finito.. Il silenzio e l’assenza di lui la terrorizzò. Guardava smarrita la piatta distesa illuminata dalla luna rotonda gigantesca, non un suono, non un onda, non guizzo. L’assenza le provocò un dolore terribile di essere incompleta e inutile in quel luogo in quel tempo e nel mondo. Per la schiena serpeggiava il terrore di aver perso il suo amore.  Si immerse anche lei nell’acqua dell’oceano fino alle braccia che lascio fuori aperte e alzate per farsi vedere dal suo amore. Era gelida ma rimase li in attesa del suo amore, chissà per quanto tempo.  Infine lui tornò come se fosse venuto dal fondo lontanissimo dell’oceano, filò lento sulla superficie oleata dell’acqua fino alla riva. Non un onda, non un alito di vento, non un rumore di animale o di pietre segnava quel momento,  nulla, solo quella luna accecante e ferma e fredda. Lui arrivò fino alla riva, vicino a lei. Lo vide.  Non aveva più le gambe che erano diventate coda e non aveva più le braccia che erano diventate pinne, la sua pelle era lucida e iridescente di squame. Solo per un attimo riconobbe i suoi occhi profondi come l’oceano che le cantavano il suo amore eterno e il suo angoscioso addio. Si inabissò senza un rumore. L’ ultima cosa che vide di lui fu la grande pinna caudale scura dentro a quel insipido e odioso grande disco bianco della luna.”.
A Barcellona, quando scendo, chiedo al conduttore se avesse visto  quella signora con la giacca di Burberry che aveva cenato con me la sera prima
“ La musicista di Venezia”.  E’ scesa a Gerona 
“ Ma l’aveva mai vista prima di ora?
“ No signore. E’ la prima volta che la vedo”

Il treno è arrivato tardi a Barcellona, solo alle 12 sono riuscito a prendere la macchina, una Renault Megane Diesel grigia, il viaggio di oggi sarà molto lungo, fino a Torreira sull’oceano atlantico, un coast-to-coast iberico di millecentonovantacinque chilometri senza contare gli errori di percorso, anche contando i sessanta minuti regalati dal fuso orario,  probabilmente non avrò occasione di fermarmi in nessun posto ne arriverò per cena e allora giù a motocarro, tutta autostrada passando per Leida, Zaragoza, Logrono, Burgos, Palencia, Valladolid, città solo lette sui cartelli stradali, pronunciate, magari alcune viste da lontano tra la piatta Castiglia e il sole che scende giù a ovest come Salamanca e Ciudad Rodrigo. Poco dopo Ciudad Rodrigo l’autostrada finisce, ma si va via come le spade fino a Fuente de Onor. Passo sotto i vecchi caselli del confine, ora deserti, inutili e ingombranti monumenti del recente passato.  Eccomi di nuovo in Portogallo, a Vilar Formoso, l’entrata automobilistica ufficiale, poco dopo inizia la IP5, larga e ben asfaltata che mi porterà giù, fino ad Aveiro e all’Oceano Atlantico.
Scendo lento e leggero verso il mare sulle ali della musica di “Love theme” della colonna sonora del film “Blade Runner” mitico film del 1982 (più o meno l’anno del vinho do porto).  Il canto vaporoso  e appassionato del sax alto di Tom Scott mi fa planare felice sopra l’altopiano granitico della Beira Superior dentro la mia piccola  macchinina grigia, dentro  questo illimitato paesaggio che sta planando anche lui verso occidente come il sole che è quasi arrivato in fondo al suo percorso. Mi piace pensami …… Attraverso l’immenso vallone del rio Coa. Ricordo che due anni fa sono passato sulla strada secondaria la in fondo per raggiungere Castelo Mendo e ricordo che questo gigantesco viadotto sul quale ora mi trovo era ancora in costruzione. La mia macchinina grigia è veramente fantastica, ha ancora gasolio nel serbatoio ed è altrettanto comoda e veloce delle spocchiose e più costose VW Golf che ho sempre noleggiato fino ad ora. Inizia ad imbrunire laggiù in fondo sulla sinistra inerpicate sulla costa della montagna le luci di Guarda, la Guardia della Castiglia.  Mi fermo all’area di servizio. Finalmente odo e pronuncio le prime parole in portoghese. E VVAI!! Rimango stranito dalla perfetta pulizia dei gabinetti dell’area di servizio. In Portogallo i gabinetti pubblici sono perfetti, è così da 11 anni, ma abituato all’orrendo dei nostri gabinetti delle autostrade, delle stazioni, dei treni, degli aeroporti e di quello infernale del porto di Ancona ogni volta che torno è sempre un rinnovato stupore. Da Guarda ad Aveiro, la posizione repeat del cd driver, mantiene in vita perpetua  le sensazioni di love theme di blade runner, ma il buio del paesaggio le racchiude alquanto.
La Ria di Aveiroè una grande laguna che si è formata nel 1685, quanto una mareggiata ha chiuso l’estuario del fiume Vouga.  È divisa dall’Oceano Atlantico da una sottile barra di dune sabbiose e pinete su cui sono stati costruiti i villaggi di S. Jacinto e Torreira.  A metà strada è situata la Pousada da Ria con le fondamenta che escono dalle acque della laguna.
La mia stanza è molto grande e ha due ampie finestre ed il balcone. E' forse la stanza di albergo che ho abitato in Portogallo dalla quale si ha la vista migliore. La Ria 
Le Pousade storiche, specialmente quelle famose e altolocate sono fantastiche con architetture originali di tutte le epoche ma dalla mia finestra della suite Dom XXX di Estremoz non si vede che una via e parte della città vecchia, dalla finestre della suite Imperial di Evora si vede il giardinetto interno e le due piscine, dalla stanza 203, sulla torre alta del castello di Obidos si vedrebbe parte del vasto mondo, se ci fosse una finestra al posto della fessura che è appena sufficiente a infilarci la canna del fucile. Si hanno visioni paragonabili a questa forse dalla finestre della Pousada de Setubal da dove si raggiunge con lo sguardo la città intera, l'estuario del Sado, la penisola di Troia, l'oceano e le colline dell'Alentejo.
Da quella del castello di Palmela, vicino alla precedente ma costruita più in alto ancora  si scorge  più Alentejo, la serra de Arrabida e, per chi ha la vista buona, specie di notte, quando e tutto illuminato il ponte 25 abril che attraversa il Tejo a Lisboa. 
Dimore non monumentali ma costruite in posizioni mirabili offrono viste eccezionali. La Pousada do Infante a Sagres, situata proprio in cima alla scogliera della Ponta de Atalaia ha sotto la finestra solo onde e oceano e spuma e rumore di onde per tutta la notte, e il faro di Cabo de Sagres e la Fortaleza a ovest e ancora oceano e ancora oceano a sud e ad est.  La fortaleza de Belice  non è più agibile, proprio prima di Cabo S. Vicente, aveva solo quattro stanze a picco sul mare, tanto a picco che le onde si sono mangiate la falesia su cui fu costruita e sta crollando dentro l'oceano.
Dal balcone della Pousada de S. Clara il lago, dalla finestra della Pousada de Marvao tutta l'Estremadura spagnola e dal balcone della Pousada di Bragança il più volte decantato idillio della cittadella e del paesaggio del Tras-os-Montes. Dimenticavo la fantastica vista che si ha dall'esile balconcino della stanza centrale dell'ultimo piano della Pousada de S. Lucia de Viana do Castelo che dall'alto del colle spazia sull'oceano, sulla città in basso sul fiume Lima fino a metà Portogallo.
Ora sono sulla Ria de Aveiro.  Rimango a lungo immobile e attento ad essere impregnato dalla calma  del sito. L’odore è quello indefinibile, ne buono ne cattivo, lo stesso della laguna di Venezia, che bene conosco, e anche le imbarcazioni, i Moliceiros hanno una assonanza alle gondole della laguna di Venezia. Nella stanza accanto i due occupanti fanno sesso in modo rumoroso con tanto di cigolii e botte del letto sul muro e gemiti di lei.  E’ ancora notte. E’ di nuovo silenzio. Sotto il mio balcone solo rumori di guizzi fluidi di pesci, tuffi plumbei di rane e lento sciabordio di esilissime onde. La laguna, buia, appare senza confini, dalla superficie irrealmente piatta e ferma non si distinguono la linea di costa, le colline e le montagne della Beira ne le nuvole del cielo. Tutto  appare lentamente alla luce della domenica mattina. Ma tutto è molto lontano sopra lo specchio magico dell’acqua: la linea di costa della laguna, le piante che la rendono sensibile, le colline della Beira, le nuvole e perfino il sole che sale dalla Castiglia rende questo Portogallo una terra grande estesa indefinitivamente oltre quelle acque piatte e ferme.

 

Las pedras parideiras
(Ladak-gallo)

Avevo letto su una vecchia guida inglese  che nella Serra de Arada è attivo uno strano fenomeno geologico, magari enfatizzato dall’autore della guida stessa, per il quale la roccia granitica genera letteralmente delle pietre figlie con uno schiocco sensibile ed eiezione della pietra figlia nello spazio circostante. Tra le carte e gli stampati della Regiao do turismo Rota da Luz, nel percorso “tra mare e montagna” alla fine proprio del percorso è descritta la tappa delle “pedras parideiras”. La spiegazione un tantino più scientifica suona così: il granito di 280 milioni di anni ha una concentrazione molto elevata di un minerale scuro e lamelliforme, la mica biotite, che in questo sito, unico in Portogallo e rarissimo nel resto del vasto mondo, si dispone su piani sferici tanto da circondare porzioni di roccia che una volta arrivati, a forza di erosione esterna alla superficie dell’affioramento, quando la tensione diminuisce vengono separate dalla roccia madre. Stavo cercando un percorso abbastanza imboscato per collegare la laguna di Aveiro a Belmonte. Ecco trovato l’itinerario fino ad Arouca, dove la chiesa barocca del monastero non scalda affatto il mio cuore.  Le costruzioni massicce di granito, scuro e umido, le inferriate e le possenti croci piantate sul pavimento stradale di altrettanto granito. che proiettano le loro scure ombre non mi fanno rimanere in città che il tempo per chiedere la strada per le pedras parideiras. Lo domando ad un gendarme della GNR. Mi dice: 
“saranno almeno una trentina di chilometri di strade secondarie. Le  conviene chiedere più avanti. Intanto torni indietro e alla prima  rotatoria segua la strada verso sud e poi buona fortuna”.
Il viaggio verso las pedras parideiras è un calvario di relazioni sociali, nella mia carta Michelin 1:800.000 non c’è nemmeno una delle mille strade che dovrò percorrere. Che questo posto sia davvero in capo al mondo? Dopo la rotatoria vado verso sud, poco più in la un’altra rotatoria da dove prendo a caso una rampa in salita che mi  immette in una strada grande e nuova, evidentemente non adatta alla mia ricerca. Torno indietro, di nuovo al paese in un parcheggio-piazza-mercato, molto animato, chiedo ad un signore che, salito già sulla sua automobile si accinge ad andare via. Sbaglio sempre interlocutore, penso appena fatta la domanda, questo signore magari si scoccia della mia richiesta. Invece scende dall’auto e  molto precisamente e con dovizia di particolari descrive tutto il percorso. Ascolto attento ma riesco a recepire solo le prime due indicazioni e due o tre nomi di località sul percorso. Vado avanti, mi fermo di nuovo. Una signora dentro un garage mi dice
“deve salire molto fino a “lassù in cima”
“è una strada molto lunga ed in ripida salita. Deve oltrepassare  Albergarla da Serra”.
Albergaria da serra? Forse un grande albergo, un residence o una struttura dell’INATUR, sulla mia carta Michelin 1:800.000 non c’è nulla. Vado su, vado su, arrivo ai mille metri di altezza sopra il livello del mare che per il Portogallo è montagna seria. Di sotto tra i pini che segnano il bordo della strada, si scorgono paesetti e foreste. Paesetti e foreste fino al fondo dell’orizzonte. Vado ancora avanti, oltre il passo una grande antenna televisiva e un piano dove la vegetazione di alto fusto lascia lo spazio ad arbusti e praterie e sassaie di granito. Dentro l’altopiano spoglio e brullo non arriva il segnale della rete dei telefoni cellulari. In questo tempo di sms e chiamate selvagge, nei luoghi dove il cellulare  non può funzionare, almeno nella nostra Europa, ci si dovrebbe sentire fuori dal mondo, magari caduti in intersezioni tra spazio normale e spazio dove il mondo è altro. Tasche oscure dello spazio collettivo e conosciuto. Arrivo ad Albergaria da Serra. E’ un grosso villaggio, un paese di case basse di granito e legno. All’inizio dell’abitato tre donne stanno lavando i panni ad una fonte. La nonna in vestito rigorosamente nero con la sottana a balze di più strati, le calze fino al ginocchio, le ciavatte e i due cappelli d’ordinanza guarda la mia automobile che passa. La figlia avverte apprensiva la bambina del passaggio della mia automobile.
“O CARRO !!!”
Il pericolo, straziante e rumoroso sopra il gorgoglio antico della fonte e la risacca morbida dell’acqua saponata strizzata dai panni.
“O CARRO!!!”
Maleodorante di gasolio. Inizio ad avvertire il disagio di essere capitato importuno, rumoroso e troppo veloce in un posto a cui non sono preparato, un Portogallo arcaico  e  troppo intimo. Vado avanti con la mia macchina con il minimo rumore possibile per una stretto acciottolato, in ripida discesa,  tra le case basse di granito. La strada non è più strada, è sentiero di montagna, è stradina pedonale di paese. La macchina passa sopra il sentiero acciottolato tra le case medievali di Albergaria sa Serra. Il cane giallo sta sdraiato in mezzo alla via e non accenna a togliersi, mi fermo, lui sta ancora immobile sdraiato sotto il muso della macchina, non si sposta, spengo il motore, tiro il freno a mano e scendo per spostarlo.  Mi avvicino al cane. E' immobile solo un leggero movimento delle costole riscaldate dal sole mi informano che è vivo. Arrivo quasi a toccarlo quando finalmente si degna di spostarsi. Mi sembra che vada via brontolando sottovoce rasentando a testa bassa i conci di granito. A questo punto, ho bisogno di sapere se è la strada giusta, se magari vale la pena di proseguire oltre, di entrare ancora dentro la casa della gente incauto e impreparato, di importunare ancora gente e ancora cani gialli. Più avanti, in uno slargo della via fermo di nuovo la macchina e chiedo ad una signora anziana che armeggia davanti alla sua casa.
“Dove devo andare per las pedras parideiras?”.       
La signora forse non è anziana come avevo creduto a prima vista, ma il suo portamento e la roba che porta addosso la rendono vecchia. Veste una lunga sottanona scura, quasi nera e un corpetto di lana nera, e sopra una vestaglia da lavoro di cotone stampato tutta sporca e incrostata, credo di pomodoro. Ha in evidenza una brutta dentatura con denti mancanti e rotti. Esce anche una ragazza giovane, sotto i venti anni, con un vestito lungo di lana grigia,  tutto sporco. Ha i denti altrettanto mal messi. Ho avuto subito l’impressione di essere tornato in Ladak, una valle Himalaiana al confine tra India, Pakistan e Cina. Gli stessi vestiti lunghi, gli stessi denti, la stessa curiosità per il forestiero. Non avversione, ne fastidio ma curiosità e interesse.
“Da dove vieni?”
“Dall’Italia.”
La vecchia, con un sospiro mi guarda, dal basso verso l’alto e mi dice
“E si, è così che va il mondo!”
e poi continua in un discorso lungo e articolato di cui capisco solo alcune parole, a tratti. La giovane la interrompe
“il signore è straniero, non è portoghese, non capisce la nostra  lingua”
Comunque mi assicurano che la strada per las pedras parideiras é quella giusta, devo continuare per quella via e salire ancora.
“Quanti chilometri da qui?”
Mi rispondono che non lo sanno.
“E si, è così che va il mondo!” Cosa avrà voluto dire la con quella frase? Da che posto mi viene questa voce? Da che Europa, dove non sono arrivati ne la rete dei telefoni cellulari ne il dentista. Altro che Tras-os-Montes considerato dal vecchie guide turistiche uno dei posti più arcaici dell’Europa.  Dove siamo qui? In che secolo siamo qui?
Fuori dell’abitato di Albergaria da Serra un incrocio con delle indicazioni. A destra in discesa si va a Mirazela e alla Flecha da Mirazela, una cascata di circa 80 metri di salto. A sinistra in salita a xxx. Salgo verso sinistra, e appena subito un cartello marrone, quello delle indicazioni turistiche avvisa della presenza del villaggio di xxx. Dal cartello sembra che sia un villaggio trogloditico al pari di quelli che ho visto nel sud della Tunisia o un Cappadocia. Ma non facciamoci prendere dalla letteratura e dalle sensazioni di essere esploratori. Lascio la macchina fuori del villaggio. Mi avvicino a piedi verso le case, non vedo dimore trogloditiche. Mi accosto con reverenza e un filo di timore,  i cani gialli sdraiati al sole sollevano le teste mi guardano, si alzano in piedi e iniziano ad abbaiare.  Sotto il portico di una casa un signore seduto è intento a spannocchiare delle piante di mais. Gli vado incontro, i cani che erano tra me e  lui si allargano, si allontanano, mi fanno passare ma continuo ad abbaiare. Il signore gli urla qualcosa addosso per zittirli. I cani gialli se ne stanno finalmente zitti. Lui sta seduto sui gradini che conducono al porticato davanti alla abitazione. Mi avvicino per chiedergli la strada per le pedras parideiras. Ha il cappello e anche lui i denti mal ridotti. Dietro di lui, dalla porta aperta si nota una pentola che borbotta la zuppa su un fornello attaccato alla bombola a gas con un lungo tubo di gomma azzurro.
“No las pedras parideiras non sono qui, devi tornare indietro fino alla strada asfaltata e salire su fino a girare attorno alla collina con le antenne, appena superata la collina delle antenne devi scendere subito a sinistra”
e fa un cenno rapido con la mano come se la discesa dovesse essere una caduta o una picchiata di aereo. Questa ricerca delle pedras parideiras diventa la ricerca delle sorgenti del Nilo, ogni volta non è mai il posto giusto ma ogni volta ho una indicazione più precisa e parlo con persone diverse. Mi sembra di essere dentro un gioco, una caccia al tesoro, dove il tesoro non é tanto l’oggetto della ricerca, le pedras parideiras, ma le sensazioni e le esperienze, le parole dette e sentite durante la sua ricerca. Dall’inizio giù alla Pousada di Torreira dove ho ricevuto le prime indicazioni dal maestro della reception, dal policia da GNR, dal signore molto preciso che è sceso dalla sua macchina nella piazza-parcheggio-mercato di Arouca, dalla signora fuori del garage, dalle due di Albergaria da Serra e adesso da questo signore. Ogni volta compio un salto, un passo indietro rispetto al modo a cui sono abituato, al moderno, al tempo.
Finalmente dopo la collina un cartello di legno indica un sentiero in discesa di 30 minuti di percorrenza per il villaggio di xxxx. A piedi? Provo più avanti con la macchina. Trovo un cartello che indica una strada asfaltata per xxxx. Dall’alto sembra un villaggio del Ladak con case basse di roccia e legno, campi terrazzati verdi. La strada lambisce l’abitato  da sopra e poi finisce  in uno spiazzo sterrato, dei pilastri di granito piantati per terra fermano la macchina. In fondo si vede la cascata di Mirazela, un salto di ottanta metri che sarebbe ben più scenografica se il corso d’acqua fosse di portata adeguata ma il filo d’acqua che scende da lontano e difficilmente visibile. Torno indietro e parcheggio la macchina sopra il villaggio, La macchina mi diventa un peso insostenibile quando mi accorgo del cartello con su scritto “Aldeia de xxxxx, lascia il tuo carro qui e vai a piedi e rispetta la xx di questo posto”. Scendo, in questo vallone è caldo, il clima è diverso da quello dell’altopiano di prima. Discendo la stretta strada lastricata, tra case costruite in puro stile Beira con grossi conci di granito, scale esterne senza ringhiera e tetto di scisto scuro.
A destra avverto delle voci, vado verso le voci. Un uomo e una donna stanno trafficando attorno ad un carro a cui è attaccato un asino dalle orecchie smisurate.
Quelle immagini mi fanno ricordare un mio vecchio libro dell’università di geografia umana stampato nel 1983 (circa della stessa età del mio Vinho do Porto). Nel libro, scritto da un professore di geografia a Genova i cui principali lavori riguardano la Liguria e il Portogallo, si dibatteva se l’arretratezza del sud dell’Europa fosse un mito o un problema. Tra le didascalie delle foto :
“Le povere case dei villaggi della Beira possono essere indicative  dei rapporti tra uomini e territorio, non semplice supporto della loro  presenza e attività, ma da essi trasformato”2
Ed ancora, in relazione alla foto di un analogo carro con asino, sempre ripresa in Portogallo, questa volta in Algarve:
“ Lentezza dei trasporti …….: mali comuni del Mezzogiorno  d’Europa”3.
Lei è bellissima sotto il doppio cappello e dentro l’uniforme nera. Lei non parla, lei sta li muta con il sorriso sdentato e la sua faccia rugosa e assolata, incorniciata dai suoi due cappelli. Sopra un grande fazzoletto nero che le avvolge la testa e le spalle e le lascia scoperto solo il viso tiene calzato ben in testa fino a coprire tutta la fronte e a fissare il fazzoletto sottostante un cappello di feltro a larga tesa, nero, grande, grandissimo, da uomo. Il fazzolettone nero davanti copre il collo e scende infilato sotto una maglia di lana nera a V allacciata da piccoli bottoni, una gonna nera scende fino al sotto il ginocchio, le gambe sono altrettanto coperte da spesse calze nere e per finire scarpe nere.  I suoi occhi sono chiari, lo sguardo dolce e mansueto, condiscendente con la bocca accenna ad un sorriso quasi complice. Una complicità talmente diversa  da quella che esprime l’ultima stellina del fado, che comunque non impedisce che si metta li a cantare con i riccioli biondi che le escono da sotto il cappellone nero, con le braccia talmente nude tintinnanti e scintillanti di bracciali di vetro e di metallo, con le caviglie sottili e le scarpe rosse col tacco alto e con i seni talmente chiari da sembrare una vera visione stregata in mezzo a quei graniti scuri e rugosi.
“Nao é desgraça ser pobre, nao è desgraça ser louca, desgraça è  trazer o fado, no coraçao e na boca, nesta vida desvairada, ser feliz  è coisa pouca, nao è desgraça ser louca, se as loucas nao sentem  nada, ao nascer trouxe uma estrela, nela o destino traçado, nao foi  desgraça trazè-la, desgraça è trazer o fado, desgraça è andar a  gente, de tanto cantar ja rouca, e o fado teimosamente, no coraçao e  na boca 4.
Finita la canzone, lei ritorna a caricare le sue cose sul carretto, lui appoggia la chitarra a terra e mi indica con il braccio: 
  “Las pedras parideiras” proprio qui sopra”.
“Ma ci devo andare con la macchina?”
“Ma nooo! Saranno solo  50 metri, c’è una rete,  non puoi  sbagliare”.
Eccomi  quindi giunto all’obiettivo eccomi all’oggetto della ricerca e di questo viaggio nel viaggio.
Las pedras parideiras…… ………
Ritorno sopra l’altopiano dove oltre ai graniti, al vento e al lupo iberico sopravvivono diverse sepolture preistoriche, las Antas
……….
Alla fine ritorno al consueto, un brutto cartello indica S. Pedro do Sul e una brutta strada in discesa mi condurrà a S. Pedro do Sul. Ci sono stato l'anno scorso: un meraviglioso centro termale sul fiume Vouga di cui il Sul è un affluente di sinistra.

 

Turisti

“Senhor Agostini venga, la prego, c'è qui un suo connazionale che ha bisogno di aiuto”.
E' quasi sera quando mi telefonano dalla reception. Scendo e il maestro mi dice che c'é li uno strano signore, italiano. Che lui non capisce quello che dice ma non solo per la lingua anche perchè non sa proprio cosa dire  sembra pazzo.
“ O senhor esta louco”
Seduto in pizzo su una poltrona della sala, seduto forse sulle uova o sugli spini c'è un giovane dall'aspetto curato, con la barba precisa e scolpita sul mento, dai capelli corti e pettinati con accuratezza, occhiali con la leggera montatura di metallo. Il tutto inserito in un maglione che una volta da noi faceva tanto intellettuale di sinistra.  Mi sembra un.........
Sta aspettando qualcuno. Appena si accorge che mi avvicino a lui mi chiede in italiano
“Lei è della polizia?”
“No sono solo un turista di passaggio. Perché crede di avere bisogno della polizia?”
Mi guarda in un misto di confusione, smarrimento e mi dice concitato e tutto di un fiato senza che io fossi riuscito a controbbattergli alcuna parola.
“Mi chiamo Gino Heppal-Pisi. Si lo so, un ben strano cognome doppio e con la lineetta tra Heppal, con l’acca iniziale e Pisi. La parte Heppal deriva dalla Prussia........ e la parte Pisi dalla bassa emiliana, tra le province di Reggio e Parma. Abito proprio a Parma sono venuto qui in Portogallo con mia moglie Lara. Anzi io ho seguito fino qui in Portogallo mia moglie Lara. Ho problemi con la lingua. Sono successi degli accadimenti terribili. Ho problemi con la lingua. devo andare alla polizia. Devo denunciare la scomparsa di mia moglie. Ho problemi con la lingua”.
“La Policia de segurança publica di Evora è qui vicino, nel lato nord della piazza su cui si apre la Pousada, il Largo do Conde de Vila Flor” 
Mi sento recitare il percorso come una guida turistica: sotto il serbatoio dell'acqua, dopo il parcheggio delle biciclette.
“Se vuole la posso accompagnare”.
“Si. La ringrazio”
Inizia a raccontare una storia senza capo ne coda in un continuo sussulto di azioni iperboliche ed eroiche tra pirati e predoni nomadi, e lunghe fughe drammatiche e terrorizzate a piedi o in macchina su distese polverose. 
Non sono preparato a quella cosa, mi difendo come posso fino a che non usciamo nella tranquilla serata della grande acropoli della città. La  piazza é vuota, quasi deserta di persone, solo alcune auto sono parcheggiate sotto il museu regional e davanti alla Pousada. Addossato allo zoccolo di base  del tempio romano, nel lato ovest sta appoggiato un vecchio che suona la fisarmonica. Il mio connazionale, scavalca la catena e va verso il tempio romano, non sale su come avevo temuto ma gli gira intorno in senso antiorario, va verso il vecchio e la fisarmonica. Sta suonando una vecchia milonga argentina. Lo ascolta attento e pensieroso, osserva il tempio e urla:
“Colonne corinzie di granito. tra quei conci di roccia vivono ancora le aure dei nostri compagni di viaggio, vivono ancora i sogni dei nostri antenati, il tango non è altro che un sogno dei sensi, scolpiti nell'odore del sangue, nel fruscio della seta, dal sapore della carne, nella tensione dei muscoli e del ventre, la luce del tramonto che riverbera dietro il lobo dell'orecchio”.
Mima un ballo da solo in mezzo alla piazza sulle note di quella milonga o quel tango e continua ad urlare.
“Il tango è un sogno di musica. la musica è sogno. la vita non è altro che sogno”.
Percorre la piazza verso nord di corsa fino al bordo della spianata, fino a sporgersi dalla balaustrata di ferro battuto verso la città che ci sta sotto, ancona appena rischiarata dalle ultime luci del giorno.
Questa volta parla piano, sussurra appena come in un lamento
“Questa città è troppo bianca, tutte queste città sono troppo bianche, sembrano denti al sole in una spiaggia di fango e polvere senza  mare alcuno”
Si accascia stremato e sudato  su una panchina degli esili giardinetti. Ci fermiamo. Un attimo del suo silenzio mi fa pensare che quel tipo con la barbetta è completamente suonato.
Sta muto, ansima per alcuni minuti. Infine riavvolge il nastro del suo racconto e ricomincia
“Hanno violentato mia moglie li in mezzo alla strada e poi l'hanno lasciata li buttata sulle mura della città come uno straccio sporco, coperto di sporchi  insetti neri. Hanno ucciso Lara, Le hanno tagliato la gola come a una gallina.
“Hanno rapito mia moglie. L'hanno portata via una banda di predoni andalusi che avevano varcato la frontiera.”
“Ho venduto mia moglie a dei mercanti stranieri. Mercanti di schiavi, trafficanti d'armi. Non la sopportavo più. Ero veramente stanco, sfinito delle sue angherie. E vieni di qua e fai questo, e no, questo non è il caso, non ci pensare per niente. Lei aveva sempre ragione lei sapeva sempre tutto e io ero una merda secca.”
“Mia moglie è fuggita con uno zingaro. Quella zoccola. Uno zingaro con i capelli lunghi sopra un cavallo nero. Uno zingaro alto e profumato di legno di sandalo”
Il racconto è a lampi, frammentato... non è un racconto ma una allucinazione, forse l'espressione di un desiderio, un bisogno, una aspettativa ricercata da tanto tempo. Forse la liberazione, uno sfogo.
“Ho sognato di sognare un sogno”...
Lara spense il motore della Renaul Modus della Europcar che aveva fermato sull’acciottolato sconnesso della piazzetta, costretta tra le mura esterne del paese e il vecchio castello.
Lara, dal posto di guida,  le ordinò:
“Mi passi la Lonely per favore”.
Lui che era seduto accanto, le porse la guida del Portogallo che aveva nella sua borsa da viaggio, come il ferrista in sala operatoria porge al chirurgo uno strumento. Ormai quel momento era automatico, ormai non si curava troppo di quel movimento che  faceva spesso nei loro viaggi.
Nei loro viaggi guidava sempre lei.
“Se non guido dormo”
Appena arrivavano in un paese da esplorare quello era il rito.
“Mi passi la Lonely per favore”. La Lonely era la sua bibbia.
Lui intanto guardava in silenzio attorno a se, fuori dalla macchina. Quel modo di fare lo indispettiva, lo faceva infuriare ma non lo aveva mai detto. Lo rendeva assente. Si rendeva assente per bisogno di non attaccare briga, per continuare a vivere tranquillo. E si che aveva bisogno di essere tranquillo  e quel viaggio non lo rendeva tranquillo affatto: una terra così strana, con i paesaggi che a tratti sembravano familiari ma nella realtà erano troppo decisi, troppo arcaici e rudi. Quel viaggio stava diventando troppo faticoso. Non riusciva a seguire sua moglie, era stanco delle sue voglie, dei suoi interessi mutevoli e temporanei, delle sua bizzarrie e dei suoi tempi troppo veloci, dei repentini spostamenti. Non riusciva ad abituarsi ad un luogo che era già ora di andare in un altro. Tornato a casa sarebbero stati necessari almeno tre giorni per riprendersi. Uno per fare i conti, uno per rimettere a posto i ricordi e uno per riposarsi.
In quel momento, non era tranquillo affatto. Era ancora meno tranquillo del solito e non sapeva il perché. Quel paese aveva qualcosa di inquietante. Fossero solo stati gli zingari che armeggiavano attorno a delle carcasse di vecchie automobili li su quello spiazzo di polvere e fango seccato. Fosse stato solo quel bianco accecante con cui era tutto completamente ricoperto senza lasciare nemmeno le cornici, colorate di blu o di giallo, attorno alle porte e alle finestre. Nulla poteva mitigare la sua ansia, tutto bianco calcinato, anche il contrafforte che costituiva il muro esterno del castello, ora interrotto da pertugi chiusi da tende di stoffa e scale che conducono ad antri bui dove furono ricavate abitazioni precarie e popolari. Il castello gli risultava come un tronco di ulivo tagliato molto basso e attaccato da parassiti neri che vi avevano scavato le loro tane da cui fuoriescono solo neri fili.
Dove era finita l'eleganza bucolica dell'Alentejo? Altro che la parte più spagnola del Portogallo, qui il Portogallo si stempera nel deserto orientale ne iberico ne andaluso ma arabico.
Ripensa al penetrante odore dei fiori di arancio e alle fontane di Vila Viçosa, al profilo aristocratico ed elegante del castello e della cittadella alta di Estremoz.  Ripensa al laghetto e il giardino ben verde e curato che le stava attorno al parcheggio di Borba, che si, aveva il pavimento un poco sconnesso, ma era fatto del più cristallino marmo che avesse visto. Ripensa  al colloqui che avevano avuto dentro la Modus a  Borba.
“Mi passi la Lonely per favore”
“Ecco la guida........... Ma non trovi che il luogo comune che  l'Alentejo deve essere sempre arido e secco e caldo, sia un poco una leggenda da guida turistica, basterebbe essere un pochino critici ed osservare con la propria sensibiltà........”
Lei no lo stava ad ascoltare impegnata a scorrere velocemente le indicazioni  scritte sulla guida.
“In questo posto non c’è nulla da vedere.  Andiamo!”
Se ne erano andati via, veloci, senza guardarsi attorno. Se ne erano andati per venire in questo posto cha sa di copertoni bruciati e che è troppo bianco, troppo orientale troppo duro.
Poco dopo risuona ancora una volta la voce dell'oracolo.
“ Questo posto è interessante, senti cosa dice la Lonely:  il paese, passato definitivamente al Portogallo solo in periodo recente, merita una deviazione. Interessanti i suoi  balconi di ferro battuto in stile sivigliano e la cappella dos ossos interamente rivestita di ossa umane. Dal castello in cima alla collina interessante vista della chiesa principale, dell'intrico dei vicoli delle case bianche e dei tetti rossi e dell'arida campagna ondulata seminata a grano.”
“Sarà pure interessante ma mi pare poco raccomandabile. Hai visto che brutta gente che c'é in giro. Poi le ossa le abbiamo viste ad Evora, abbiamo visto migliaia di ossa a tappezzare intere stanze, e non sono certo una visione elegante, e poi i balconi andalusi. Ma che bisogno c'e di scannarsi in mezzo a questo deserto di civiltà per vedere delle cose che assomigliano all'Andalusia?”
“Hai  paura? Non ti facevo così moscio”.
“Non è tanto la paura, paura di cosa poi? Di farci derubare o di morire?
E' che non ho voglia di girare per questo posto. Preferisco rimanere qui.”
“Va bene vado. Da sola”
“ E Vai. Io aspetto in macchina. Così sono sicuro che non ce la fregheranno”
“Fifone”
“E vai”...
non parlò più ma continuò a pensare: ma vai a farti fottere. vai e non tornare più vai a farti sbattere dove diavolo ti pare.
Pensò che la loro storia sarebbe finita li in quel paese di frontiera tra Alentejo e Estremadura spagnola. Pensò di andarsene e di lasciarla li da sola con le sue ossa e i balconi sivigliani di ferro battuto. Di lasciarla una volta per tutte alla sua certezza di essere una leader, una arrivata, una adeguata ai tempi, dominatrice delle cose, delle persone che gli stanno attorno e dei sentimenti degli umani. 
“Addio Lara”.
Si senti tranquillo, quella decisione da tanto attesa era finalmente venuta. Poteva riposarsi prima di agire. Era talmente tranquillo che si assopì, dentro l’automobile, cullata dal sole, osservando quelle bianche mura e quel bianchissimo castello. Non aveva voglia di fare nulla, solo aspettare tranquillo che gli eventi andassero a compimento.
Lara si attardò per le stradine del centro fino ad arrivare alla cappella delle ossa. Era chiusa, si attardò a scovare chi avesse la chiave. Domandò in giro chi avesse la chiave per aprire la cappella. Cercò la signora che aveva la chiave per farsi aprire. Ella abitava in una mansarda con le scale di legno, era indaffarata a cucinare l'agnello pasquale, l'agnello del sacrificio che stava dentro il suo bel forno a legna a sfregolare nel suo unto. Non aveva ne la possibilità ne la voglia di uscire, le diede la chiave, una chiave molto grande e di foggia antica. Infine entrò nella cappella delle ossa con ancora addosso l'odore dell'agnello al forno. Aprì la porta non senza difficoltà e rumori di molle e serrature  e con sorpresa si accorse che dentro c'era già qualcuno. Come aveva fatto ad entrare? Se la chiave ce le aveva lei? L'interno non era ben illuminato e le sembrò che quell'individuo armeggiasse con un pesante sacco e stesse prendendo i candelabri dell'altare. No, con un candelabro, che usava come un grande martello stava battendo sulle ossa che tappezzavano le pareti di quel locale.  Quell'uomo si accorse della sua presenza e le si avvicinò veloce. Era un giovane gitano, dal forte profumo di legno di sandalo....
Lui intanto, dentro la sua auto, continuava ad essere cullato dal sole e dai sui sogni, la lieve brezza muoveva le cime degli alberi, le alte erbe della prateria  e a volte anche lievemente l’auto. Sognava, mandriani a cavallo  nella Pampa argentina che portavano vacche verso sud, carovane di cammelli che in fila indiana attraversavano le colline, carovane di mercanti di schiavi. Esseri umani che camminavano a piedi dietro ai predoni a cammello quattro per ogni cammello e predone. Erano tutte donne. Tutte donne la maggior parte nere ma alcune bianche. Riconobbe una di esse, era Lara. Con i capelli rapati a zero, e lo sguardo sottomesso, con le vesti stracciate. Lei era sola dietro al suo padrone cammello e cammelliere. Un giovane non dalle parvenze berbere, ma gitane dalla pelle comunque scura del sole. Un giovane forte dalle linee decise. Un giovane che emanava forza e possanza, un  giovane bellissimo e profumato di sandalo.
Pensò che forse quella era la fine che si meritava quella zoccola di sua moglie. La sottomissione ad un predone padrone che magari non la vendeva ma la teneva come sua concubina in lande desolate e deserte di un qualsiasi oriente, o nelle fredde lande della Patagonia.
Sua moglie invece, era in terra coperta del suo sangue, aveva in mano una grande chiave di foggia antica. Il pavimento a piastrelle era anche tutto sporco di sangue.  Il  sangue era dappertutto.
Si svegliò infine e scese dalla macchina. Non aveva più le ruote. Erano state  rubate, era su delle pietre. Altro che brezza a cullare il suo sogno.
“Ladri porci, zingari”
Si adirò e corse sbraitando e imprecando verso quelli che armeggiavano attorno alle auto vecchie. Era entrato come in un accampamento, i panni stesi a fili e a pali malamente stabili, era il confine di quel mondo. Dentro un fuoco di copertoni amnmorbava l'aria e copriva l'odore del fumo che si levava dalle sardine che arrostivano dentro fusti di metallo tagliati a metà. Qua è la ancora pozzanghere e fango. C'erano solo ragazzi, addirittura bambini, che con emozione ancora dormiente strattona e spintona con violenza. Le megere, grasse e dai capelli neri e unti, iniziano allora a ciavattare a gambe larghe verso di lui e a sbraitare in una lingua incomprensibil, la Garigonza che non era ne portoghese ne castigliano. Venne allora un uomo, più grande e più forte di quei ragazzi che c'erano, che brandendo un lungo coltello lo affrontò con decisione.
“Ma che minchia vuoi? Ti scippo o cannarozzo come a  na gaddina”.
Il gitano era lo stesso che teneva sua moglie. Era il gitano del suo sogno dentro la macchia. Molto bello e profumato di sandalo e di fiori.
Le venne in mente così, d'intuito, osservando quel volto e sentendo il suo profumo presente e penetrante.
“Facciamo un patto, ti vendo mia moglie, fanne quello che vuoi, é giù in paese alla cripta delle ossa o a fotografare le ringhiere sivigliane ei balconi. Ridammi solo le ruote della macchina. So che le avete prese voi.”
“Vattene iarruso (perchè parlano in dialetto siciliano?) vattene non voglio la tua porca moglie e anche se la volessi non avrei bisogno di fare un patto con un imbecille pauroso come te. Vattene e non mi scassare la minchia”.
Gli assestò un colpo sulla faccia di traverso con la mano e con il piatto del coltello tanto da fargli male, ma non da ferirlo.
Gli sembrò di morire, cadde in terra. Si tastò la faccia che non sanguinava come aveva pensato terrorizzato. Rimase con la faccia sul fango, che almeno lo proteggeva da quello che gli sarebbe successo. In quei momenti credette di ricevere quali altri maltrattamenti e vessazioni. Pensò di essere rapinato, rapito, addirittura sodomizzato. Rimase li sul fango, immobile e assente  come uno scorpione paralizzato dalla luce e dalla paura.
Vattene, vattene, vattene.....
Si mise a correre per la discesa acciottolata, senza guardarsi mai indietro. Uscì dalla porta ad arco della città e si buttò di corsa tra gli ulivi a nascondersi con la faccia sprofondata nella terra per non vedere più nulla, per non fare più nulla per non sognare più nulla.
Dopo alcune ore,  appena fatto buio, tornò indietro. La macchina aveva di nuovo le ruote, o forse le aveva sempre avute. La accese, andò via, lontano, viaggiò per tutta la notte fino a non si sa dove. Arrivò comunque fino al mare, oltre non si poteva più andare. Ritorno infine all’albergo, aprì la sua camera con la grande chiave di foggia antica. Si buttò sul letto, con la faccia sprofondata sul cuscino profumato. E dormì di un sonno pesante e senza sogni, finalmente senza sogni e senza ricordi fino a metà pomeriggio.
Alla PSP racconta una storia meno mirabolante. Sua moglie è scomparsa mentre lui si era addormentato in macchina. Ha il presentimento che sia stata rapita o forse uccisa. Se aveva sospetti su qualcuno?
Forse un gruppo di  gitani, di zingari.
Il poliziotto che prende la denuncia inserisce i dati della persona scomparsa nel computer. Dice che informeranno la PSP di Portalegre, competente per territorio, la Polizia Judiciaria di Lisboa e la Guarda Nacional Republicana che ha un posto nel luogo dove la signora Lara è scomparsa e il Consolato Italiano di Lisboa. Poi dice con soddisfazione
“I computer di tutte le polizie dell'Europa sono praticamente uno solo. Tutte le polizie d'Europa sono praticamente una sola. In qualche modo e in qualche luogo la troveremo”

 

Beatriz Pais

“Sono la nipote, Martim Pais, potrò vestirmi come mi pare in questo paese che ancora si chiama Portogallo. E ormai trentanni che questo paese è in mano ai comunisti ma il nome non lo hanno ancora cambiato. Questo paese è ancora il Portogallo e il nonno del nonno di mio nonno è un padre del Portogallo. La mia famiglia ha fatto il Portogallo. Sono Beatriz de Mello Pais. Non posso mica essere trattata così da una stupida cameriera. Non sarà mica una stupida cameriera a dirmi come si deve vestire una signora appartenente ad una delle famiglie più nobili del Portogallo”.
Il ristorante è pieno in quella sera del 5 ottobre festa nazionale. La Pousada de S. Clara è piena di ospiti. Solo portoghesi ad eccezione di me e di una famiglia di inglesi.
I commensali sono tutti molto riservati e non sembra che siano attenti alla scenata. Le due coppie di signori anziani che occupano il tavolo vicino al mio continuano a chiacchierare tra loro. La giovane mamma in elegante abito da sera scuro e scollato continua ad andare su e giù davanti alla vetrata che da sulla grande terrazza. Ha in braccio il suo piccolissimo figlio e tiene con la mano destra il biberon. La sorellina un poco più grande sta seduta composta con il padre. L'altra mamma, tutta tirata dentro i suoi pantaloni leopardati attillatissimi, cerca di sfuggire alle mire di suo figlio piccolo che la chiama in continuazione. La coppia seduta vicino al camino acceso è impegnata nel rito dell'assaggio del vino con il cameriere che lo stappa e depone il tappo sul piattino, lo versa all'uomo e spetta la risposta impettito e con la bottiglia in mano con l'etichetta rivolta verso chi deve assaggiare il vino. Gli inglesi...........
La grande sala............
Fuori il lago è tranquillo come il paesaggio di boschi di eucalipti e conifere che bordano le acque e coprono le placide colline di questo Alentejo del sud, così stranamente verde e così stranamente poco drammatico. In fondo qui si viene per trovare la tranquillità e magari per nascondersi un poco dalle mondanità di Lisboa o di Porto, o anche per sfuggire ai turisti che riempiono il resto dell’Alentejo, o per sfuggire al roboante Algarve, che sta proprio qui sotto oltre la serra de Monchique.
Beatriz, continua nella sua arringa, non si cura della poca attenzione che i commensali le dimostrano e le fanno credere di dimostrare.
“Oggi è il 5 ottobbre festa nazionale del Portogallo, anniversario del giorno della riscossa contro i dominatori stranieri. Come festeggia il mio popolo la sua ritrovata libertà e la liberazione dal giogo castigliano?
Ecco come festeggia la mia gente, con la testa bassa di sempre, ecco i miei pavidi portoghesi, tenete la testa bassa, tenete gli occhi fissi sui vostri piatti, sulle vostre povere sopas, sulle vostre sardinas e sui vostri bacalhaaus mentre gli stranieri si mangiano ancora una volta il nostro Portogallo. Sono tornati ancora gli stranieri in combutta con il governo di comunisti che fa comandare ai camerieri”.
Beatriz è grassa e orribilmente conciata. Ha un tatuaggio sulla gamba destra e sul braccio sinistro, porta i capelli ossigenati, bianchissimi, e occhiali rettangolari con la montatura di plastica spessa e colorata di bianco. La gonna di tela jeans cortissima, le lascia in evidenza le gambe grosse, la camicetta di un tessuto leggero, bianco e troppo trasparente, non copre i seni, ne solidi ne floridi, rivolti all'esterno, troppo evidenti senza il reggiseno e sotto quel tessuto leggero e trasparente.
La cameriera passa e va senza replicare. Il marito sembra anche lui non curarsi della moglie. Magari è abituato alle intemperanza stilistiche e anche alle bizzarrie comportamentali della sua signora. Probabilmente non è tutto a posto nemmeno lui se non si sarebbe sposato con un diavolo del genere e non se ne andrebbe in giro per il corridoio del secondo piano, quello delle camere, muovendosi come un piccione. Il marito non ha nome, ha una corporatura normale ed è vestito completamente di nero a partire dalle scarpe grandissime e di pelle nera lucidissima di foggia classica con le stringhe sottili, ai pantaloni con la piega stretti in fondo e anche corti che lasciano a vista le calze nere, alla maglia attillata con il collo a lupetto nerissima e lucida. Gli sproloqui della moglie lo oltrepassano e lo scavalcano, apparentemente indenne.
“Guardate l'Algarve, che con tanta fatica e sacrifici i nostri valorosi antenati hanno liberato dai mori. Guardate l'Algarve cosa è diventato. La puttana portoghese dell'Europa. La grande zoccola lusitana, sempre con le gambe aperte, che non parla più la sua lingua. Guardate le insegne dei negozi, guardate le liste dei ristoranti. Entrate in un negozio a chiedere qualcosa nella nostra lingua portoghese, vi risponderanno, SORRY, vi diranno che non hanno capito. Sorry. Inglesi comunisti. Maledetto il Marchese di Pombal, schiavo dei comunisti, che ha fatto firmare al nostro valoroso re il trattato di Meuthen. Andate a Lagos. Da li è partita la sacra spedizione di Dom Sebastiao alla conquista dell'impero d'Africa. A Lagos, ora, il miglior ristorante delle guide è il un ristorante danese. Andate in giro alla sera per le strade di Albufeira, Portimao, Silves dove orde di norvegesi, svedesi, finlandesi, tedeschi, olandesi e inglesi lasciano milioni di lattine di birra. Guardate la costa imbrattata per sempre da grattacieli di laido, grigio cemento, da resorts, campi da golf, beauty farms. Cosa ci rimarrà nel tempo. Nulla, solo le vie ricolme di lattine di birra, di scatolette di plastica del fish end cips e preservativi usati.
Dov'é il Portogallo di mio nonno, dov'è sono le nostre sfere armillari, le nostre insegne, la nostra bandiera coperta ormai da quella inglese, americana o da quella blu con le stelle gialle di quei comunisti, camerieri, cocchieri della Comunità Europea?”
La sala rimane ingessata, muta, assente. Nulla si muove, nulla si sente. Solo l'inno nazionale portoghese cantato piangendo da Beatriz e lo sciabordio dello scarico del troppo pieno del lago, nemmeno i bambini si danno segni di reazione al loro inno nazionale.
Heróis do mar, nobre povo,
Nação valente, imortal,
Levantai hoje de novo
O esplendor de Portugal!
Entre as brumas da memória,
Ó Pátria, sente-se a voz
Dos teus egrégios avós,
Que há-de guiar-te à vitória!
Às armas, às armas!
Sobre a terra, sobre o mar,
Às armas, às armas!
Pela Pátria lutar
Contra os canhões marchar, marchar!

Sembriamo tutti come i vecchi che stanno seduti, appesi a grappoli, o a in fila come gli uccelli sui fili prima di partire per il sud, giù a S. Clara a Velha sull'incrocio con la strada principale, o alla fermata della corriera o al parcheggio dell'unico taxi o al distributore di benzina. File e grappoli di vecchi che il mondo sovrappassa, file e grappoli di vecchi che stanno ad osservare il mondo che, per caso passa di li. Non partiranno mai quei vecchi, non sono come gli uccelli sul filo. Così siamo noi li in quella sala, come quei vecchi che non partiranno mai. Stiamo ad ascoltare, facendo finta di non ascoltare, una matta che parla, canta, piange, urla sopra le nostre teste e le nostre certezze di uomini e donne tranquilli, corretti, rispettosi delle leggi e delle tradizioni, rispettosi degli altri e delle opinioni degli altri. Così rispettosi degli altri e delle opinioni altrui che non ce ne importa nulla. Chi è Beatriz? Cosa fa li con il suo strano marito?
Finalmente il silenzio, ora solo il lago si muove, e i vento sulle alte piante attorno alla collina su cui è costruita la pousada. Betariz torna a sedere in silenzio, ancora tremando, piangendo e guardando il marito, cercando in lui un consenso che non arriverà.
Quel matrimonio non fu mai ne benedetto ne approvato dalla famiglia di lei, una delle famiglie più importanti del Portogallo. Il nonno del nonno del nonno di Beatriz aveva veramente fatto il Portogallo. Aveva guidato la cavalleria portoghese in una pazza e disperata carica contro i castigliani, aveva dato fervore divino e ai cavalieri portoghesi che l'esito della battaglia che stava andando per il peggio fu rovesciato e i castigliani furono sconfitti, inseguiti, fatti a pezzi, catturati e venduti come schiavi ai mori. Con quell’eroismo il Portogallo potè essere il Portogallo. Il re elevò ai massimi livelli il rango della famiglia, le concesse ricchissimi feudi e estesissime terre e castelli e privilegi che ancora mantiene nel Minho e nel Tras-os-Montes e attorno al fiume Douro. La famiglia, in seguito fu in prima linea nella reconquista e nella cacciata dei mori dal resto del paese e acquisì ancora terre e castelli e privilegi nelle Beiras e in Alentejo e in Algarve. L'epoca dei viaggi vide la famiglia arricchirsi a dismisura prima con il commercio degli schiavi, delle spezie e poi anche, con le piantagioni di canna e di caffè, con le pietre preziose e l'oro di Sao Tomè e Principe, della Guinea, del Brasile. Nel 900 gli affari gli interessi della famiglia si estesero al petrolio e ai diamanti dell'Angola e agli smeraldi del Mozambico e alle banche in territorio metropolitano. La perdita dei territori ultramarini e la fine delle guerre coloniali hanno fatto registrare una relativa statica nell'arricchimento e nel potere che sono state considerate dalla famiglia come degli eventi di drammatica crisi e di perdita di prestigio e visibilità. un periodo che ha segnato la storia della famiglia. Ora, la crisi è superata, e la famiglia continua a essere una delle prime del Portogallo, il suo potere le deriva sia dalla vecchia ricchezza terriera con quinte e produzione di Porto (tra le poche non in mano agli inglesi), del Moscatel de Setubal e sughero e olio di oliva, ma anche da attività e interessi moderni e come le telecomunicazioni, i servizi finanziari e il turismo. E padrona assoluta di una delle più grandi banche del Portogallo, ha partecipazioni in molte altre, possiede alberghi e villaggi turistici e campi di golf e persino campeggi in Agarve, Sao Tomè, Cabo Verde, Mozambico, Sudafrica e in Brasile. Recentemente la loro società di telecomnunicazioni ha lanciato una offerta pubblica di acquisto su Portugal Telecom S.A.
La storia di Beatriz è molto conosciuta in tutto il Portogallo è ha tenuto le pagine dei giornali pettegoli per numeri e numeri. Me lo sta dicendo una signora molto chiacchierona al bar, con minuzia di particolari, agganci storici e pettegoli. La signora é una dei quattro che cenavano al tavolo vicino al mio. Suo marito ha una fabbrica di scarpe vicino a Guimaraes, suo marito è del Minho ma lei no.
“Quelli del Minho sono troppo seri, sono del nord, sanno fare tutto loro, lavorare, pregare Dio, perfino parlare. Loro hanno inventato il portogese che tutti parliamo, loro hanno fatto il Portogallo che tutti viviamo, loro hanno cacciato i mori dal sud e colonizzato il sud con la loro civiltà del nord. loro sono il Portogallo e noi siamo ancora Mori”
“Loro sono seri. Io sono dell'Algarve, sono una del sud, una chiacchierona. Sa la nostra fabbrica prima faceva scarpe anche per i fratelli Clarks e per Timberland. Ora fanno tutto in estremo oriente ma non ci lamentiamo. Beatriz è la spina nel fianco della dinastia, il caso sfortunato che non gli permette di raggiungere la perfezione divina”
Fin da piccola Beatriz aveva dimostrato i suoi problemi intellettivi, non gravi, ma inauditi e improponibili in quella famiglia. Nessuno di quella famiglia poteva essere meno che il massimo. Fu subito isolata, nascosta. Non la scuola con gli altri ma insegnanti a casa, non il liceo, non l'università. non sarebbe riuscita a farla. Nessun amico con cui giocare, parlare, sognare, nulla.
Fu sempre tenuta nascosta al mondo, non frequentò la mondanità a cui apparteneva, nulla. Visse praticamente con la nonna materna. Una vecchia arcigna, misantropa, autoritaria e acida in un palazzo del quartiere di Lapa a Lisboa. La permanenza forzata in quella situazione e l'educazione di sua nonna rovinò definitivamente Beatriz. Magari integrata in una famiglia normale, con amici normali e con le attenzioni di cui aveva bisogno Beatriz sarebbe riuscita ad avere una vita normale. Ma lei era chiusa dentro quella famiglia, così troppo portoghese. E la sua storia è veramente troppo portoghese. La nonna, aveva il vezzo di andare vestita, alla moda delle contadine delle Beiras, per quanto si facesse fare i vestiti di stoffe pregiate ma erano sempre e comunque neri e tagliati come quelli delle contadine dalla Beira. La nonna costringeva anche Beatriz a quel castigo. Da ragazza Betariz non era brutta ne grassa, ma forse per ripagare la nonna e la famiglia dei torti subiti diventò brutta, grassa e antipatica e dispettosa. La madre, il padre e i suoi fratelli l'avevano praticamente abbandonata a quella megera vestita di nero in quel palazzo da cui non usciva mai. La sua memoria era solo sua nonna vestita di nero e quel palazzo. Al raggiungimento della maggiore età Beatriz si conquistò la sua autonomia. Un pò per la sua voglia di rivincita un pò per la poca intelligenza si trovo a girare per Lisboa con vestiti assurdi, come quelli di stasera. Si ficcò in situazioni sempre più imbarazzanti a volte coperti e attutite dal potere della famiglia. Era sempre sulle prime pagine dei giornali pettegoli. Praticamente si comportava da ereditiera stupida, quello che realmente era. Stava sputtanando sia l'onore sia le sostanze della famiglia. A quel punto la famiglia tentò di interdirla e di farle togliere la capacità di intendere e di volere ma per quanto influente e connessa a tutti poteri costituiti non riuscì in quel intento anzi alla fine del procedimento Beatriz tirò fuori dal cilindro il suo coniglio bianco: quello strano marito.
Il matrimonio fu il suo capolavoro. Alla fine di un periodo di comportamenti a dire poco picareschi, e a dispetti acri, si accordò con la famiglia. Pretese che sua madre suo padre i suoi fratelli e tutti i parenti partecipassero al suo matrimonio in pompa magna alla chiesa del Paço National di Mafra. Il matrimonio fu una farsa improbabile, con tanto di decine coppie di paggetti vestiti di rosa e di azzurro a spargere fiori sulla piazza e dentro la chiesa al passaggio del corteo. Lei arrivò, accompagnata dal padre con una automobile d’epoca della Citroen di colore bianco. Tutti i suoi parenti arrivarono a bordo di automobili d’epoca della Citroen, tutte rigorosamente bianche. Beatriz aveva un vestito da sposa bianco con lo strascico, leggero e trasparente che non risparmiò a nessuno la sua estetica non adeguata. Quello stralunato del marito arrivò da solo su un cavallo nero, senza sella, vestito completamente di nero come ora. Non aveva nessuno che lo accompagnasse. Beatriz scelse Mafra come simbolo. Monumento nazionale, la più grande costruzione della penisola iberica, l'ultimo palazzo abitato da un re del Portogallo. Il deposto re Manoel II ci abitò solo una notte prima di imbarcarsi da Ericeira per fuggire in esilio a Gibilterrra e in Inghilterra. Il padre e il fratello erano stati ammazzati poco prima a Lisboa. Re Carlos non era male e poi era anche un bravo pittore. I termini dell'accordo non vennero mai saputi nemmeno dalle gole più profonde del pettegolezzo lusitano. Dopo il matrimonio se ne andarono in Mozambico per due anni, quindi in giro per il vecchio impero portoghese: Brasile, Angola, Capo Verde, S. Tomè. Ora sembra che si siano stabiliti da qualche tempo a Madeira. I loro passaggi in Portogallo sono molto ridotti, forse è questo uno dei termini dell'accordo, ma ogni tanto saltano fuori e il cinema è sempre assicurato.