VERSO LE BEIRAS
(una ricerca, un pellegrinaggio)


Gennaio 2005

 

 

 foto: http://www.flickr.com/photos/84442834@N03/sets/72157632240708059/

 

Cosa vado a fare un’altra volta in Portogallo? Vado verso le Beiras, “rive” dell’oceano ma anche montagne e fiumi e foreste e storia...Alla ricerca di cosa? 
Prima di tutto alla ricerca di luoghi che siano delle discontinuità della sfera sensibile dello spazio-tempo, delle incrinature del mondo da cui si possa uscire temporaneamente e dalle quali raggiungere, magari solo percepire nuove, altre sensibilità, connessioni. Luoghi che siano collegati dai miei interessi di ora, magari ritenuti marginale ai più, come le antiche culture visigotiche e mozarabiche, ma che, in questo tempo di guerre e di assolutismi morali e religiosi, sono  un necessario ripensamento alla contaminazione.
Una ricerca, un percorso nei siti della memoria attraverso un viaggio in luoghi lontani ma, ma che per affinità sepolte e sconosciute, ritrovino il mio passato. Un raggomitolarsi all’indietro del tempo in una terra lontana ma familiare e amata. Una ricerca di un rifugio personale, unico, nascosto, certo.
Una sorta di pellegrinaggio verso luoghi che rappresentino le valenze appena elencate e che, attraverso la loro sedimentazione e macerazione nella mente, in questi tempi di studio e preparazione, hanno assunto concatenazioni e valenze nuove, addirittura diversi significati (ma questo processo non avrà mai fine), diventando mete mitiche e sovrannaturali da raggiungere a tutti i costi.


LA PREPARAZIONE

Questo sarà il secondo viaggio in Portogallo da solo. Un viaggio già pensato e sedimentato che ho potuto preparare e posso preparare con metodo assolutamente personale, asservito ai soli miei interessi di questo tempo. Viaggio adeguato maniacalmente non solo nella predilezione delle cose da vedere e i luoghi di pellegrinaggio da eleggere ma anche  nella scelta delle dimore per la sosta, delle stanze d’albergo, nei mezzi di trasporto e dei numi tutelari, nei compagni di viaggio. Parto con Saramago. E’ famoso, è portoghese, conosce il Portogallo, conosce la storia e l’arte e la gente, è tanto brontolone, ma ha avuto anche il premio Nobel per la letteratura. Parto con Cees Noteboom, uno strano, tangente, lupo solitario olandese, viaggiatore e scrittore, intimo conoscitore dell’Iberia e delle culture iberiche.
Questo viaggio sarà anche preparato, con devozione, sui libri in francese della Zodiaque,  una estesa ed esaustiva raccolta di monografie sul romanico europeo edito dal monastero benedettino di “S. Marie de la Pierre qui Vire” in Borgogna. Faccio la mia richiesta a frére Guillaume e lui per posta mi manda i volumi, per questa occasione: i due tomi di Portugal Romane, i due tomi di Castille romane, L’art Mozarabe e L’Espagne Preromane.
Questa volta i mie interessi mi portano a eleggere luogo di pellegrinaggio principale Lourosa, villaggio rurale della Beiras, ad est di Coimbra, sulle prime pendici occidentali della Serra da Estrela, isolata che basta per i miei gusti. Lourosa con la chiesa de Sao Pedro mantiene l’unica testimonianza mozarabica di tutto il Portogallo. Manco a farlo apposta a soli 8 chilometri la Pousada do Convento do Desagravio diventerà la mia dimora per la maggior parte dei giorni in Portogallo. Il filo rosso del viaggio  sia dunque la cultura mozarabica, e quella visigotica ma anche l’architettura romanica quindi l’altro luogo di pellegrinaggio eletto diventi il “mitico” portale della chiesa di Bravaes nel Minho tra Ponte de Lima e Ponte da Barca sul corso del fiume Lima.  La Pousada di elezione sia l’ex convento cistercense di S Maria do Bouro sulle colline che lambiscono il parco nazionale di Geres. Si vada anche alla Cappella Visigotica de Sao Fruttuoso de Montelio nella periferia di Braga sempre nel Minho.
Gli altri interessi in Portogallo saranno
La cappella di Sao Pedro das Aguias, a sud del Douro, incassato nella valle del Tavora suo affluente di sinistra: eremo romanico che manda in visibilio la mia guida Saramago Jose.
Il Monastero di Travança tra Porto e Amarante, ora adibito a ospedale psichiatrico.
Il diruto monastero di Castro de Avela in un villaggio alla periferia di Bragança, stranamente costruito in mattoni e distrutto dalla popolazione stanca delle soverchierie dei monaci.
La città di Trancoso per il suo figlio Bandarra, stralunato e le testimonianze sefardite che allignano tra le vie e le case.
La “Mata National de Bussaco”, emblema di tutte le foreste lusitane e anche per il suo Palace Bussaco Hotel tanto decantato dalla letteratura di viaggio di tutto il XX secolo.
Coimbra,  anche se il Museu National De Machado de Castro riaprirà solo nel 2007, ci dovrò tornare.
L’acqua e le terme di Luso, e Sao Pedro do Sul, imboscatissimo e antico centro termale lungo il corso del fiume Vouga. 
Avo imboscato paese tra le pieghe della Serra de Estrela alla confluenza di fiumi affluenti del Mondego.
Piodao, anche se questa ultima località mi suona già come Monsanto, troppo oleata, troppo celebrata, troppo presente nelle guide, troppo ufficiale.
Viseu e il pittore del 1500 Grao Vasco. E da molto tempo che gli giro attorno e faccio la posta a questi due obiettivi, questa è la volta giusta.
A Nelas mi chiama Antonio Lobo Antunes dal suo romanzo  “Trattato sulle passioni dell’anima”.  Il protagonista, il giudice istruttore è originario di quel paese della Beira Superior dove in inverno sulla piazza  bolinano  branchetti di lupi.
“Os lobos, de garrula arrepiada pela chuva, surgiam en alcateias de sete e oito a bolinar das negruras do pinhal de Zé Reselo, davam un giro lento no adro medindo o pavor dos animais trancados e o sobressalto dos caes, esphiolavan o celeiro do mudo e o arame dos pombai, e sumian-se a trote, cabisbaixos, numa moita de silvas, poupando o doido que discursava nos degraus do pelourinh, repetindo os seus titulos à bruma.
Eu sou o Dom Joao, imperador de todos os reinos do mundo”1   
Per la parte spagnola, almeno per il viaggio di andata dalla stazione ferroviaria Sants di Barcellona a Bragança, avrò queste tappe primarie.
Per il mozarabo, il monastero superiore “de suso o de arriba” di  San Millan de la Cogolla, nella Rioja, lungo il percorso del pellegrinaggio per Santiago de Compostela.
Per il Romanico a Santo Domingo de Silos in provincia di Burgos in Castiglia, luogo di sosta sarà il Parador di Lerma, lo avevo visto anno scorso di notte illuminato su in alto, in cima alla collina e alla città, con le sue quattro torrette, mentre percorrevo l’autostrada tra Madrid e Burgos. E’ il vecchio palazzo ducale fatto su modello dell’ Escorial, ho scelto proprio la camera in cima ad uno dei quattro aguzzi torricini dal tetto di ardesia,  un monolocale,  quadrato con quattro finestrine e 36 scalini per accedervi. 
Per la cultura visigotica ci sarebbe tanto da fare e vedere: Quintanilla de la Vinha vicino a Santo Domingo de Silos, S Juan Bautista de Banos de Cerrado vicino a Palencia e S. Pedro de la Nave sulla strada che va da Zamora a Bragança. Questo ultimo sito è irrinunciabile, sarebbe la terza volta che percorro quella strada e se non mi fermo a quella chiesa sarò un bandito per sempre. Dovrò rinunciare ad una delle altre due tappe.
Per il viaggio di ritorno da Viana Do Castelo. Si da Viana, già si cambia il programma,  perché a Santa Maria do Bouro non c’era posto per tutti i giorni che mi servono e la notte tra il venerdì e il sabato la devo passare alla Pousada del Monte di Santa Lucia che troneggia su Viana, sulla ultima parte del fiume Lima e sull’Oceano Atlantico. Questo cambio non mi spiace affatto. Ritornare per la terza volta a Viana mi interessa. Dicevo da Viana al confine portoghese-galiziano mi fermerò solo a Lindoso, villaggio di frontiera con tanti espingiueiros. In Spagna breve sosta alla cappella visigotica di xxxx de Bande proprio dietro il confine sul bordo del lago artificiale di xxxx e prima del paese di xxxxx e poi grande cavalcata autostradale per la Galizia e la Castiglia fino a lambire la città di Leon, passando in galleria la sierra de xx fino a Oviedo dove conto di visitare le chiese pre romaniche di Naranço e di Lilio sulla collina appena fuori della città, quindi ancora autostrada asturiana fino a Santillana del Mar, gioiello medievale della Cantabria (parola della guida Michelin) con il chiostro della collegiata di Santa Giuliana e quindi altra cavalcata autostradale fina a Bilbao, Miranda de Ebro  Zaragoza e Barcellona Sants dove mi aspetta la carrozza n 64 del Salvador Dalì
E’ tutto a posto: le Pousade, i Parador, Il Palace Hotel de Bussaco, la macchina a noleggio alla stazione di Barcellona Sants, questa volta una Seat Leon diesel e non la solita VW Golf. Ho i biglietti del treno per Milano e per il Salvador Dalì da Milano a Barcellona. Ho pianificato perfino le due ore di sosta a Milano che impiegherò alla Basilica di S. Ambrogio (sono solo quattro fermate della metropolitana dalla stazione Centrale).

 

IL SALVATOR DALI’
(a bruxa)

Il Salvator Dalì è un treno meraviglioso, moderno, significativo emblema della eccellenza delle ferrovie spagnole. Parte da Milano Centrale alle 20,00 e arriva a Barcelona Sants alle 09,01del mattino successivo. D’estate tutti i giorni, da metà settembre circa solo tre volte alla settimana. Ferma a Torino Porta Susa, a Figueres (la città di Salvator Dalì) e a Girona in Catalogna. Attraversa morbido tutta la Francia, lenta e illuminata dai lampioni, in silenzio, sommesso. Se rimani attento ti accorgi che a Modane il locomotore italiano lascia la testa del convoglio a quello francese, che a Chambery Ville aspetta il treno che viene da Zurigo, il Paul Casal. I due treni si fondono in un unico lunghissimo convoglio che riparte verso Valence con il verso contrario a quello con cui era arrivato. Se riesci, a stare sveglio vedi i paesaggi francesi cambiare da quello alpino alla pianura del Rodano, attraversi Avignone e le altre città del midì con le loro case basse, con le tegole e il loro colore caldo e rugoso, molto mediterraneo con quell’aria già di Iberia: Nimes, Montpellier, Beziers, Narbonne, Perpignan. Passi sul bordo del Mediterraneo su una lingua di terra tra mare e lunghi e stretti stagni dove dormono i fenicotteri e gli aironi del sud.   Passi attorno a grandi e larghe raffinerie con grandi prati di erba tra un impianto ed un altro e tra un serbatoio ed un altro. Non come quella vicina al paese in cui vivo, aggomitolata, intricata e intristita  su se stessa e attorno alla ferrovia  che la trapassa al centro come una spada, dalla quale mi è successo, alcune volte, anche in questo viaggio purtroppo, di scorgere fiamme ancora vive, serbatoi che divampano,  rottami di autocarri incendiati e il ricordo di persone morte.
Il treno si ferma a Cerbere, l’ultima stazione francese prima di passare in galleria il confine ed arrivare alla prima stazione catalana, Port Bou. Qui avviene una strana operazione, lenta operazione: tutto il treno passa dentro un gabbiotto che provvede, attraverso dei meccanismi che non ho mai visto ma che fanno abbastanza rumore, ad adattare la larghezza delle ruote ai binari della Spagna che sono più distanziati di quelli francesi e italiani. Cerbere è anche un ricordo letterario. Nel suo vecchio romanzo “La Zattera di Pietra”, Saramago vuole trasportare il Portogallo e l’Iberia tutta  alla testa di un terzo mondo provvisorio e vagheggiato. Fa leva sulla cercata deriva comunista della rivolta dell’esercito del 25 aprile 1974. La frattura che dividerà questa nuova l’Iberia dall’Europa, Iberia che come una zattera di pietra prenderà il mare verso le Azzorre e poi verso il Sud,  inizia proprio a Cerbere, all’abbaiare dei cani di Cerbere, città con il nome del cane del nostro inferno. Ora l’unico fastidio di questa frontiere perfettamente intercomunitaria e quella di passare lentamente sopra il rumoroso gabbiotto che allarga le ruote del treno, alla faccia di Josè Saramago che a volte è fuori di ogni grazia di Dio, e di ogni razionalità.
Il Salvator Dalì é un treno comodo, con servizi privati con tanto di doccia nella tua cabina, una carrozza bar  - “sala da estar” e carrozza ristorante. Vi puoi fare incontri interessanti se lo vuoi e anche se non lo vuoi. Alle otto meno dieci salgo sulla carrozza N 64.
- Buenas noches caballero.-
Il conduttore ha gli occhiali dorati, il suo castigliano è caldo e tranquillo, la sua voce è calma e bassa. Mi assegna la cabina, con le informazioni necessarie, mi chiede l’ora della sveglia per domani mattina,  mi da il biglietto per la cena e per la colazione e prima di avviarsi per il corridoio mi annuncia: 
-“la cena  a oto y  media”-
Vado alle otto e mezzo in carrozza ristorante, ma già è pieno di gente che ha preso posto, mi rimane un unico tavolo da quattro a cui mi siedo per il momento solo. Speriamo che non venga nessuno non saprei cosa raccontare, comunque mi guardo attento in giro.
La signora di Siviglia ha ordinato la birra prodotta in Andalusia e fa gli elogi della sua terra con la cameriera. Mi da l’impressione che viaggi per lavoro, per una grande organizzazione o per un ente pubblico, è un po’ grassa e non elegante nel vestire, ha addirittura delle scarpe che non mi piacciono affatto. Sembra una mamma degli altri.
Il signore, serio e segaligno, attento ed elegante, ha un libro che legge a tratti e sottolinea.
Una giovane coppia di lingua inglese é abbastanza uguale ad una altrettanto giovane coppia di italiani. Hanno tutti l’aria di sposi in viaggio di nozze.
Il tavolo in fondo è occupato da un gruppo di quattro ciarlieri e chiassosi spagnoli in allegro convivio etilico aperitivo. 
Jenny, Si siede proprio davanti a me, mi sembrò subito spagnola, l’avevo pensata di Saragozza, minuta, molto bella. Naso piccolo e appuntito, bocca dalle labbra sottili e dai contorni doppiamente arcuati ai lati, neri e lisci i capelli, neri gli occhi,  addirittura eccitante dai suoi seni prominenti che si aprono ai suoi movimenti dentro la sua maglia nera scollata. Giovanissima nei suoi pantaloni bianchi di cotone dal taglio da ragazzo ma non con la vita bassa.  
Jenny è una ragazza di lusso o ragazza da lusso, la lussuosa maglia nera gli avvolge i seni che si muovono come le lune del paradiso, salgono al respiro della terra, ruotano nel cielo al parlare della terra.   Ha la voce esile e minuta come la sua persona, gli occhi appena esotici e antichi dei suoi antenati, solo appena, tanto da non riuscire  ad essere percepito subito il loro lontano viaggio nella storia ma solo mediante il ricordo. Mediante il ricordo di quello che quella ragazza aveva negli occhi neri. E se gli occhi mi fanno ora viaggiare nella storia dell’America, cosa aveva Jenny nella sua voce esile e a tratti roca? Un gentilezza difficile da trovare nelle nostre gesta di oggi, addirittura una tenerezza dolente, ma proveniente da dove e da quando? 
Musone come sono, sto zitto, mi rendo conto che dovrei parlarle se non altro per gentilezza e minima buona educazione visto che siamo faccia a faccia da circa un’ora, ma cosa gli dico? come? In Italiano, in Castigliano, in Inglese? Insomma dopo il salve, detto in latino, del mio saluto, al quale lei ha risposto semplicemente nello stesso salve latino, sto perfettamente zitto e, dopo un sorriso di circostanza, ricambiato,  come il mio amico Fernando Pessoa, mi metto alla finestra, faccio il curioso, la osservo come se osservare quella ragazza fosse un lavoro.
Beve lo spumante Brut dell’aperitivo, non prende l’entrada, e per piatto principale sceglie il pollo, “pollito” dice alla cameriera, soffermandosi molto sulle due “ll” con una  aspirazione roca e delicata. Stranamente non prende il vino della regione della Rioja, che mi ero aspettato, ma  ordina una bottiglia di chianti che beve con sicurezza e competenza. Il chianti?  Potrebbe essere l’oggetto di un discorso. Il chianti è un vino della mia Italia Centrale, lo conosco abbastanza bene, ma lei tirata com’è con il vino magari mi frega, continuo a stare zitto. Mi lambicco con il governo toscano, con il vitigno Sangiovese e il Canaiolo e con la notizia dell’inserto del Sole 24 ore di qualche domenica passata: Il microclima della Toscana sta cambiando, tra venti anni la zona del Chiantischire produrrà vino come il Primitivo di Manduria o il Nero d’Avola. Il Chianti vero sarà prodotto in Baden Wuertemberg o nella vera Inghilterra.
Il treno intanto continua ad andare, tranquillo e silenzioso, verso ovest, è passato sopra le buie risaie e le città lampeggianti di luci, sopra la pianura.  Si susseguono i piatti sulla tavola, se ne va il gaspacho. Tintinnano di tanto in tanto i bicchieri, ai sussulti della carrozza, il mio Rioja tinto se ne va assieme al Magret de pato. Se ne va la torta di mele e il café.  Il condizionamento va al massimo, è freddo, mi strofino le braccia per scaldarmi.
Lei mi chiede in italiano, usando la seconda persona
- Hai freddo? -
Idiota hai fatto iniziare lei a parlare, e per giunta nella tua italiana lingua. 
Jenny è colombiana di Cali,  vive e lavora a Roma da sette anni, fa la segretaria amministrativa in un centro estetico, va in vacanza per 15 giorni in Spagna, a Madrid dove la accompagneranno i suoi amici che l’aspettano a Barcellona. Si rivela una compagna di viaggio interessante e di un discorrere gradevolissimo, con molti interessi: dal vino, alla storia, alla politica, alla musica antica. Si parla di terrorismo, di Islam, del Corano, del film di Michael Moore, Fahreneith 9/11, che ha già visto in Spagna. Secondo lei il problema più grande del mondo di oggi è l’ignoranza della gente. Mi da anche un ottimo suggerimento per le mie scorribande iberiche. La prossima volta andrà in nave, da Civitavecchia a Valencia in una sola notte, come con il Salvator Dalì, anche perché il treno gli mette un poco paura,  mi ricorda Donato Bilancia e i borseggi sui treni notturni nel sud della Francia. Gli piace l’Italia, ma gli italiani sono strani, o troppo chiusi o invadenti, non ci sono gli italiani di mezzo. Sorride del nostro capo del governo, non le piace il trapianto dei capelli che si è fatto fare recentemente, né il calcio, né la televisione che rappresenta. Non gli sta simpatico nemmeno il presidente Busch e l’amministrazione USA in carica, come tutti i sudamericani li definisce Gringos, ma ha fiducia nel popolo degli USA.
Parla infine del suo paese con delicata lontananza. La gente è molto ignorante, il voto è solo clientelare e contingente al bisogno, i contrasti politici e intellettuali si superano con l’omicidio del rivale.
- Ma da un paio di anni si è cominciato a respirare anche da noi in Colombia. -
Mi chiede della nostra seconda guerra mondiale, del Fascismo, delle Crociate del medioevo in Palestina. Gli dico quello che so, gli racconto delle mie letture del Corano. Dei precetti che riguardano la donna islamica. Mi piace parlare a quella ragazza, ripenso con una vena di rimpianto a quanto facevo il professore di classi intere di giovani e belle ragazze in fiore, tanto per fare il verso a Marcel Proust. Mi sento, un serio e elegante precettore Ermahessiano di quella ragazza di borghesissima famiglia. Ecco, i mie interessi per Jenny, che dato l’approccio visivo iniziale, avrebbero dovuto essere quelli scontati della sua evidente e magna sensualità e sessualità, non hanno mai seguito quel tracciato ma sono approdati a delle linee di affinità culturale e sentimentale e di estremo rispetto per la sua vitale e guizzante intelligenza. Alle sue richieste di cosa andassi a fare In Spagna e Portogallo mi sono esposto volentieri al suo interesse. Gli ho raccontato del mio innamoramento per la cultura e l’arte mozarabica, felice esperienza di compenetrazione  tra islam e cristianesimo, magari da considerare come cura per il nostro futuro. Del regno dei Visigoti venuti dalle brume della storia e dalle brume delle steppe asiatiche e scomparsi nel nulla in poco tempo. Gli ho raccontato della mia infatuazione ormai decennale per il Portogallo. Gli ho proclamato l’estrema importanza dei monumenti romanici disseminati per la strada del pellegrinaggio fino a Santiago de Compostella, e l’assurda singolarità che ha da oltre mille anni lo stesso “Caminho de Santiago” per interpretare la nostra, Europa di adesso. Non solo integralisti e neocatecumenali, ma laicissime frange della società civile sono attirate da quella meta e da quel viaggio fondato sul nulla. 
Lei ha dimostrato caloroso  compiacimento ed entusiasmo per quei temi che ai più sanno e marginale e di inutile. Sono andato oltre, mi sono aperto a quella ragazza, sul mio passato, sul mio lavoro. Gli ho detto quali sono i miei sogni e della mia scelta di perseguire l’attività incessante di scrittore di racconti non pubblicati e di letteratura di viaggio inutile. E lei con la voce suadente e roca
- continua a scrivere, termina pure il tuo romanzo…. -
E’ quasi mezzanotte, il Salvator Dalì, ha oltrepassato da un pezzo Modane, sta correndo in discesa verso il Rodano, sono stato a chiacchierare con Jenny per più di tre ore.
Ciao Jenny.  Chi eri. Quale arcana metafisica ha permesso la mia confessione. Chi ti ha mandato. Da quale reame veniva la tua voce esile e minuta e nel contempo roca, da che tempo e spazio la tua gentilezza e la tenerezza dolente, da quale mondo il tuo profondo e antico sguardo nel passato, da quale mitologia le tue perfette lune del paradiso.
Non sarai stata forse una “bruxa”. Io le chiamo streghe un poco per dare accento alle loro doti e caratteristiche non ordinarie e un poco per rendere un ricordo alle donne che la nostra cultura ha costretto alla morte e all’oblio. Già le streghe, un’altra mia fissazione, credo di incontrare queste donne straordinarie che mi sono messe sulla strada a darmi dei suggerimenti, a smussare la vita, a segnare comunque il punto.  Dell’anno scorso mi ricordo solo bruxe vecchie. Quella con la capra e gli asini di Castelo Mendo, e quella con cui ho parlato davanti alla fontana della chiesa di S. Vicente a Bragança, che mi ha fatto uno strano discorso sui piccioni e sui loro escrementi, e la vecchia seduta immobile a Monsanto a osservare fissamente il fondo della strada davanti casa sua. 
Già, ci potevo pensare prima. Jenny è una bruxa, la prima giovane e bella che mi è dato di incontrare. A pensarci ora, a mettere insieme le semplici cose non era impossibile scoprirlo.
Le ragazze di adesso non sono eleganti come lei, non vanno a Barcellona con il treno in cabina di “gran clase” ne vorrebbero andare a Valencia in nave, le segretarie non degustano il chianti come un sommellier. Parliamo perfino del mitico Colares. Della tenerezza  e del rispetto che suscita la caparbia antichità di questo vino, e dei vignaioli di mare che scavano fino in fondo alla sabbia delle dune per fare il posto a quelle poche viti, protette una volta dalla Peronospora americana che ha annientato tutte le altre viti d’Europa, protette ora  al nuovo e al peggio che avanza ogni giorno. Il rosso di Colares è fatto con il vitigno Ramisco  che produce dei grappoli, piccoli  arcaici, riservati, silenziosi, serrati, intimi, dagli elegantissimi e poeticissimi acini  di colore azzurro scuro. L’oceano è la mamma di questo vino, le estati temperate e umide, il vento, il sale lo rendono drammaticamente unico. Di colore rubino, aspro e astringente da giovane, cambia tono fino a divenire marrone “casco de cebola”. Dimostra quindi con l’età uno straordinario aroma e delicatezza che gli deriva dalla sua storia, dalla sua memoria e nobiltà.
Nessuna ragazza può avere le tue stesse identiche idee in merito ai più svariati argomenti. Ne si è visto mai una giovane colombiana di Cali interessarsi alla bolla di Clermont Ferrand del papa Urbano II nel 1095 della nostra era o ai Concerto Grossi di Geminiani o ai Vespri della Beata Vergine di Claudio Monteverdi. Diceva l’uso del violino è assolutamente …… E poi ancora Jenny non sarà mica un nome sudamericano.
E assolutamente nessuna donna poteva avere quei seni, per l’appunto, assolutamente metafisici.
E infatti al mattino dopo, Jenny non c’è più. Con la luce del giorno è svanita. Ci eravamo dati l’appuntamento per la colazione alle otto nello stesso tavolo della cena. Io sono puntuale li alle otto, ma lei non c’è ne non verrà. Faccio colazione da solo, seduto con la faccia rivolta al verso di marcia. Fuori, scorre ai bordi della nave, o del treno, la campagna catalana, anche lei silenziosa e sola. 
E’ ormai tardi, sono le nove, dovremmo essere gia a Barcellona ma ci sono stati dei ritardi al passaggio di Cerbere, i cani di Saramago avranno di nuovo abbaiato e ringhiato sui binari per non far passare il treni dall’Europa all’Iberia.
Il conduttore mi dice proprio così:
- abbiamo avuto ancora problemi alla frontiera -
La frontiera, quel suono mi risale dal passato, dal deserto dei tartari, dalla legione straniera, la frontiera e i problemi  per passare la frontiera come centinaia di anni fa della nostra storia. Risalgono anche dal mio passato, divise sporche, facce stanche e rapaci, documenti e carte che passano di mano, lampadine che pendolano pelose da soffitti lontani e scuri, attese…. Interminabili righe gialle da non superare, soldati dai capelli a spazzola, libroni su cui il tizio ti cerca sull’elenco dei cattivi, bagagli aperti, gabellieri, dazieri, polizia.
-  il mio passaporto, dov’è il mio passaporto?? No, non è scaduto… No, il timbro é su una pagina interna. La data di emissione?.... il visto? Ecco il visto….. Del consolato di Roma, in Italia. -  
Baschi, cappelli con visiere nere e lisce, vecchi caschi di metallo da guerra,  bolli, timbri, visti. sonno.
- 10 dollari, 20 dollari, 50 dollari…… -
- non ho il resto  -
Paura…. pistole che ballonzolano sotto pance prominenti e baffi, baffi di ogni tipo, ragazzini con la faccia ebete con il fucile mitragliatore troppo grosso per loro e con assurdi machetes sulla schiena.
- Il mio passaporto, ridatemi il mio passaporto, non posso fare a meno del mio prezioso passaporto - 
Abbiamo avuto ancora problemi alla frontiera, ancora problemi, non è una cosa straordinaria. Ma l’Unione Europea, l’Euro??????              
La carrozza ristorante è quasi vuota, solo il terzo tavolo da quello su cui sto è occupato da una coppia di statunitensi.
Lei è ancora giovane ma già devastata dal grasso, enorme, debordante dai pantaloni e dal reggiseno. Dai pantaloni corti fuoriescono delle cosce oscenamente grosse e le gambe terminano in minuscole, rispetto all’insieme, scarpe basse di rete nera.
Lui è piccolo, con i capelli stempiati. Sembra Topolino, quello dei fumetti di Walt Disney. Lo differenzia dal personaggio il pizzetto da Hidalgo. Ha in mano una guida di Barcellona e la sta leggendo.
Sopra il tavolo hanno tanti barattoli di medicine, forse integratori o vitamine, comunque pastiglie e compresse molto colorate. Sta passando il cameriere. Lui gli chiede un supplemento di cibo, poi si rimette a leggere la guida di Barcellona, lei continua a mangiare.   


CASTIGLIA
(una delle tante Spagne)

Scappo di nuovo a Bragança, via col treno e via con la macchina da Barcellona a Bragança ci sono quasi mille chilometri di Spagna. E’ la quarta volta che attraverso la Spagna per andare in Portogallo o per incontrare il resto della mia famiglia a Lisboa o a Madrid. L’ultima  volta sono passato sicuramente per El Burgo de Osma. Perché per il Burgo? Sempre per seguire i suggerimenti di Cees Nootebom, e lui mi ha convinto della assoluta valenza di posti come: El Burgo de Osma, Santo Domingo della Calzada, Siguenza, ……Soria,  S. Millan de la Cogolla, S. Baudelio de Berlanga.
Ho cominciato ad avere interesse per la vecchia Castiglia e le sue regine e i sui imperatori, la sua polvere importante e le sue cattedrali esagerate per quei borghi polverosi, e ancora per il romanico esaltante e nascosto, e addirittura l’introvabile e perduto mozarabico e le vecchie visigoterie.
La Spagna, prima, era il tappo del Portogallo, quasi un ostacolo al viaggio, per anni l’ho oltrepassata dall’alto, con l’asettico e sordo siluro a diecimila metri di altezza. Era una terra gialla, vagamente punteggiata da città, da fiumi e da laghi artificiali. Ora, con il treno, la Spagna è divenuta, più presente, necessaria, ha rivelato una sua peculiarità, anzi tante differenti peculiarità di paesaggi e di genti, di colori e di storie. A poco a poco, a viaggio a viaggio, disvela le sue differenze: non è tutto  chitarra e flamenco, e gitani dell’Andalusia, e processioni della Settimana Santa. Non è tutto modernismo ed efficienza e autonomia come, da lontano, la Catalogna e Barcellona mi avevano fatto pensare. Ho trovato invece una Spagna mediana, una Spagna seria, precisa  ed efficiente, addirittura teutonica. Ho trovato tante Spagne a volte lontane e intime, a tratti difficili, intrusive. Quali sono queste Spagne? L’ho detto prima… aggiungerei Oviedo e le Asturie, una regione plurale lei stessa. Un principato di alte montagne e oceano, nascosto e arcaico. La celtica Galizia, la Cantabria, l’inarrivabile Paese Basco, l’Aragona, l’Estremadura……

Pragmatismo stradale spagnolo, sulle strade normali puoi andare a 100 e ci vai, quando c’è il divieto di sorpasso non  sorpassi, ma quando non serve, il divieto non esiste,  non come da noi che è sempre divieto e poi tutti fanno come gli pare.
La provincia di Soria è barocca come questa musica di Villa Lobos che sto ascoltando, ora, mentre arrivo sull’orlo del vallone del Rio Jalon. Sotto scorrono l’autostrada e la strada statale. Questo ciglio erboso è occupato al centro da un campo dove i bambini giocano a calcio e forano l’aria con le loro grida dietro al pallone, a sinistra una chiesa e forse l’annesso convento, sulla destra l’arco romano, isolato in fronte alla Castiglia, credo un po’ assurdo sopra questo colle. Parcheggio la macchina sull’acciottolato vicino ad un muro pericolante, transennato da transenne anche loro pericolanti. Oltre, prima del prato e del campo di calcio, un chiosco di legno occupato per metà dall’ufficio del turismo, ora chiuso, e per metà da un bar attorno al quale alcuni giovani, sui loro motorini, mangiano il gelato e si scambiano messaggi elettrici con i telefoni cellulari. Guardo il prato verde e i bambini e più a sud la meseta e la Castiglia in vero dissonanti con la V Bachiana Brasileira di Heitor Villa Lobos che evoca umori languidi della selva, un intreccio di contrabbassi, viole e violini quasi a vedere i rami e le radici degli alberi amazzonici, la voce in portoghese anche lei barocca.
No non è affatto barocca questa Castiglia che ha inventato il barocco e ha esportato il barocco nella nostra Italia. Eccola la Spagna che ha esportato il mal governo e il latifondo nella  nostra povera Italia del Sud,  rimasta arretrata a causa della dominazione spagnola. Perfino il tecnologico ducato di Milano sotto l’arretratezza e la corruzione spagnola era caduto nel quarto mondo. Quanta di questa letteratura e quanti mediocri maestri mi hanno raccontato per anni e anni  questo pianto storico e hanno anestetizzato i miei interessi per decenni. Ma cosa é questo barocco? Chi sa cosa è il BAROCCO?   Non c’é barocco in questa Castiglia: verde, piatta, glabra, assoluta e decisa, precisa e secca, non c’è il fluido della lingua portoghese ma queste “j” che raschiano la gola. Mi sono trascinato in un piccolo equivoco creato dall’unico cd che ho portato con me in macchina da Barcellona. Da Barcellona a questo posto, la città di Medinaceli (strano nome metà arabo e metà latino per questa località) ci ho messo sei ore e per tutto il tempo ho ascoltato sempre Bachiane di Villa Lobos. Sono qui, solo, alle sette di sera, ho appuntamento con la moglie e i figli alle 22,45 all’aeroporto di Madrid, loro stanno venendo con l’aereo da casa, andremo insieme a Segovia, Tordesillas, Leon, a Zamora, forse a Salamanca e ad Avila.
Davanti a me la Castiglia, dietro le case antiche di arenaria di Medinaceli, alcune abbandonate e pericolanti, altre rimesse a nuovo e irrimediabilmente chiuse. Sembra che ci abiti poca gente, per le strade quasi nessuno, una famiglia di turisti spagnoli: padre, madre e figlia piccola, si aggira sotto le insegne di negozi antiquari, anche loro chiusi. Due ragazzi escono di corsa da una porta del centro sociale della parrocchia. Seguo una strada in salita, una giovane signora chiama la sua figlia ripetutamente: 
-“vieni a merendare”- 
sono le sette e mezzo di sera ci si gingilla prima della merenda, la cena sarà a notte fonda.


SAN MILLAN DE LA COGOLLA
(l’infatuazione per i Mozarabi)

Sono incappato, per caso, nell’arte mozaraba nell’aprile di quattro anni fa, a San Miguel de la Escalada, ad est della città di Leon. Ho pensato, quei quattro anni fa:  strana chiesa, con gli archi degli arabi e il cesello scolpito  degli arabi, strano luogo isolato, strano convento impirato su questa bassa collina in mezzo ad una campagna che più di Castiglia sa di niente.  Poi basta, i Mozarabi sono tornati a dormire nel loro tenero limbo e dimenticati dal mondo intero. E appunto per questo io non li dimentico, chi si cura di loro se non io, Ho un debole, a volte una infatuazione per le cose a cui non interessa nulla a nessuno e un interesse lancinante per queste ricerche dell’inutile.
Intanto, di nuovo, corre via l’autostrada Vasco-Aragonesa. In questo tratto l’Aragona, benché percorsa dal fiume Ebro, sembra un deserto sassoso e di sale, è un orizzonte invisibile. Puoi non osservare il mondo e pensare ad altro.
La penisola Iberica dopo la fine dell’impero Romano d’occidente e l’arrivo di nuove popolazioni, gode di una effimera stabilità sotto il regno dei Visigoti. Nell’anno 711 della nostra era arrivano gli arabi dall’Africa, occupano tutta la penisola fino a Covadonga, lasciano fuori solo le Asturie, i Paesi Baschi, la Navarra e stabiliscono il loro protettorato, dominio, impero ancora non sono riuscito a capire, anche perché nostre categorie non sempre funzionano con il loro modo di fare.
I nuovi padroni, almeno a detta dei miei insegnanti di storia, di storia dell’arte (sic) di filosofia, sono abbastanza tolleranti verso la popolazione che non si vuole convertire e continua a rimanere cristiana.  I cristiani che rimangono in mezzo agli arabi vengono chiamati “Mozarabi” il significato della parola originale in castigliano “Mozarabe” o in Portoghese “Moçarabe”, potrebbe essere quello di “In mezzo agli Arabi” magari chi vive in mezzo agli arabi, circondati dagli arabi, osteggiati dagli arabi. Magari sono fanatici che a volte si fanno uccidere per il solo gusto di essere dei martiri e diventare famosi tra i cristiani delle montagne del  nord che si contendono le reliquie di tante ragazzine, per fondare le loro nuove chiese. O forse potrebbe avere il significato di “mezzi Arabi” misti, con una cultura doppia, con una lingua mista, con una idea mista della religione e della vita, del mondo e del futuro.
Le comunità cristiane mantengono, costruiscono il loro monasteri perfino  attorno alla capitale Cordoba ma per forza di cose: sono contaminati dalla cultura araba, dall’arte araba, e da un cristianesimo antico, orientale, siriano, persiano, proveniente da quei luoghi attraverso l’Africa ancora praticabile e non più dall’Europa occluso dalla fine dei viaggi dai continui movimenti delle nuove popolazioni dalle steppe siberiane.
I Mozarabi si amministrano in autonomia con loro magistrati, loro tasse e eccetera. Possono scrivere in latino anche se è normale il bilinguismo arabo/latino. Per questo i giovani ricevono il rimprovero dei vecchi  che mugugnano contro le nuove abitudini e mode venute dall’estero. Hanno una loro produzione letteraria, artistica, iconografica, pittorica peculiare e interessantissima. Come tutti o cristiani attorno ai ultimi due secoli del primo millennio attendevano la fine del mondo, e l’apocalisse andando indietro a leggere via via San Giovanni Apostolo e il profeta Ezechiele e ancora dietro e miniando commentari  sull’Apocalisse che ora sono disseminati in tutta la Iberia: da Gerona al Burgo de Osma, a Seu de Urgell, a Madrid, all’Escorial, ma anche a Torino e New York. Miniature colorate con svolazzi di angeli dalle ali nere. Piante esotiche, indubbiamente orientali. Bestie esotiche e strane che si possono fare risalire a dromedari, cammelli, elefanti. Ma anche animali domestici e più conosciuti alla nostra civiltà: polli, pecore, capre, mucche, asini, piccioni. Bestie mitologiche miste dai colori vivi sul rosso, azzurro, giallo, verde. E Arcangeli neri che come meteoriti ti precipitano le tavole della legge o ti annunciano annunciazione.  Arcangeli che combattono le bestie, e La Bestia, L’Arcangelo Michele che precipita il Dragone, l’antico serpente, ancora il nerissimo Arcangelo Michele che incatena per altri mille anni l’antico serpente, il demonio, il dragone. (ma perché per soli altri mille anni). E ancora Gesù Pantocratore,  Gesù Giudice Finale assiso sul trono, Gesù in Mandorla, Gesù sul suo cavallo bianco alla testa dei suoi eserciti. E la città meretrice, Babilonia distrutta, o è forse  la Gerusalemme celeste assaltata dalle orde dell’Anticristo, ma sempre città raffigurate con gli archi oltrepassati alla maniera araba. E sugli spalti personaggi che sembrano uscire dai nostri film sugli assedi di Aleppo, Damasco, ecc. ecc.
Nel X secolo il regno Asturiano, il regno di Navarra  e tutti i cristiani del nord iniziano la Riconquista.  Truppe, cavalieri, predoni, banditi, pellegrini, scendono dalle loro montagne verso il sud e tappa dopo tappa prendono città e campagne, fondano eremi, chiese, monasteri. Le nuove terre occupate, cacciati i Mori, rimasero con meno popolazione. Dal re vennero chiamati i Mozarabi dal sud ancora Islamico che colonizzarono tutta la fascia che attraversa la penisola dalla Beira portoghese passando per la provincia di Orense, Leon, la Castiglia lungo il corso del fiume Duero, e la Rioja per finire in Catalogna e addirittura fino alla Linguadoca ora francese.
Ecco dunque che tra il 900 e il mille sorgono Sao Pedro de Lourosa, Penalba, San Miguel de la Escalada, Wamba e Mazote vicino a Valladolid, San Baudelio de Berlanga e  San Millan de la Cogolla dove sono diretto ora.
Tipicissime struttura architettoniche di questi edifici. L’arco a ferro di cavallo.  Arche outrepassé o arco de ferradura, a secondo della lingua in cui hai letto le informazioni. I modiglioni e le finestre bifore (Alfiz).
Oltre Saragozza il percorso dell’autostrada piega verso nord sempre a seguire il fiume, il paesaggio non è più ghiaioso e bianco di sale, e in lontananza, oltre campi di centinaia di tecnologici mulini a vento, l’orizzonte diventa presente con le alte e brune  Sierre tra Soria e la regione del Rioja. La valle sale decisamente verso nord, oltrepasso Logrono, punto a sud verso le montagne, verso San Millan de la Cogolla, Santo Emiliano della Cicala.
Questa landa della Rioja è decisamente ondulata, seghettata in fondo al paesaggio da creste rocciose, con piogge copiose già atlantiche e neve invernale.  E’ coperta di vegetazione viva e vigorosa, boscosa con grandi alberi, e montagne, foreste di conifere, rocce che risaltano su pendii di vario verde. Un salto notevole dal deserto dell’Aragona e dal classico paesaggio della meseta iberica. Ti sembra un angolo dell’Umbria del sud o del Lazio orientale, altre terra di eremi e eremitaggi arditi e rupestri, santi, anacoreti, fuggiaschi e ruspanti abitatori di grotte fin dal 400, fin proprio da San Benedetto e da sua sorella Santa Scolastica.
Solamente nel secolo successivo a quello di San Benedetto, il nostro Emiliano (Millan), romano (inteso come non Goto), povero che viveva dalle parti di XXXXX, pastore, figlio di pastori, si addormentò mentre attendeva alle sue greggi, e in quel sonno fu toccato dalla grazia della conversione ascetica. Si rifugiò in queste grotte, scavò la tenera arenaria sotto banchi di più dura puddinga che fece da solido tetto alla sua dimora. Visse da Santo, fece numerosi miracoli di carità, lottò contro il demonio, fece penitenza e ammaestrò i suoi discepoli: Aselo, Geroncio, Cotonato, Sofromio, Potamia. Morì il 12 novembre 574 e diede vita in questo luogo a 15 secoli di monachesimo e alla sedimentazione di tutta l’architettura iberica. Dai visigoti ai mozarabi, al romanico e a quello che è venuto di successivo, anche con la costruzione di un nuovo grande monastero più in basso, San Millan de Yuso, a partire dal XI secolo. Monastero che oggi ha una sistemazione barocca e neoclassica e che conserva il primo testo in Castigliano. Questo luogo è anche la culla della lingua Spagnola.
La strada asfaltata per salire all’eremo originario di San Millan, il Monastero de Suso è sbarrata, la visita alla chiesa è consentita a piccoli gruppi di turisti con un massimo di venticinque persone ad orari definiti, ed è necessario prenotare la visita all’oficina de turismo che sta giù nel Convento de Yuso e che sta chiudendo. Mi assale un senso di apprensione, fretta, rabbia,  con tutta questa strada a rotta di collo per mezza Spagna  non dovrò rinunciare per  mancanza della prenotazione o per il ritardo di alcuni minuti. L’ultima visita è prevista per le 16.45 e sono già le 16. 30. Chiedo dov’è l’ufficio del turismo, cerco l’ufficio, scendo le scale, arrivo nella grande piazza,  la a sinistra l’ufficio del turismo, oltre quelle porte a vetri,  è ancora aperto, entro non ci sono turisti, solo l’addetta, lei, tranquilla, mi stampa la prenotazione col computer, la mia visita è fissata per le 16.45. Un piccolo autobus partirà dalla piazza superiore e accompagnerà il gruppo su a Suso, gratis. Devo salire un’altra rampa di scale, questa volta  stretta e buia, per  tornare sopra. Sono le 16,43, qui sono molto precisi con gli orari, non farò in tempo  a passare all’automobile per prendere la fotocamera ne il taccuino degli appunti ne il registratore ne la borsa. La salita con il bus è breve. Alcuni tornanti e il piccolo mezzo, bianco e azzurro, guidato dall’autista con i baffi, si ferma a cinquanta metri dalla chiesa, piantata ancora più in alto sulla linea frastagliata della collina. E’ piccola addossata alla roccia, è in continuità con la roccia della montagna, semplice e liscia all’esterno, risaltano solo i bei modiglioni scolpiti nella tenera roccia con i teneri disegnini, dei Visigoti. Dall’entrata si accede in un porticato ad archi che danno sulla valle ubertosa e verde,  porticato rugoso e rosa  che è un cimitero di tombe: i sette giovani di Lara e tre regine di Navarra. A destra verso il nord verso il monte la porta ad arco ribassato conduce direttamente in un ambiente oscuro, fresco che da subito un’impressione di altezza estrema,  un ambiente altissimo, fatto costruire nel primo trentennio del secolo XI regnante Sancho III, di due sole navate, dalla linea spezzata per adeguarsi alla forma della montagna,  di roccia semplice tenuta da slanciati archi mozarabi che sostengono una lontanissima copertura a capriata. Su questo ambiente si aprono verso il monte, anzi dentro il monte una serie di grotte illuminate da una luce gialla. Le prime due a sinistra, le più antiche, dalla forma più tortuosa e che si insinuano profondamente nella montagna, sono il ricovero tombale di urne di monaci poste in apparente casualità e disordine. Nella terza, di fronte all’altare Visigotico di San Millan,  vi è l’arca scolpita dello stesso Santo. Verso destra, verso oriente, sempre attraverso altri archi mozarabi, si perviene alla navata della prima metà del 900, posta ortogonalmente alla precedente e formata da due ambienti a cupola. Oltre, ancora una grotta scavata verso l’alto e entro la montagna: è la Cappella Angelica.  L’interno è tutto qua, se la velocità della descrizione può significare il flusso delle immagini che ti pervengono durante il rapido voltare la testa e l’attenzione alla prima ricognizione di quello spazio nuovo e strano, spazio che ti attira inevitabilmente verso l’alto e verso livelli esagerati di elevazione sebbene la costruzione dall’esterno sia veramente piccola.  Ma la mia sensibilità è spinta verso l’alto magari serpeggiante su per le colonne degli archi mozarabi che a pensarci non sono ne slanciate ne esili ma alquanto tozze, massicce, rocciose con i capitello lisci e massicci e piantate su basamenti altrettanto tozzi e massicci. Uno spazio strano questo, che ti attira anche verso il fondo di quegli anfratti dove sono ammassate le urne di roccia direttamente sull’arenaria e dove non riconosci la colonna o il muro costruito dal  muro o dalla colonna scolpiti direttamente sulla roccia della montagna dagli eremiti. Mi sforzo di ricercare ora i particolari, mi adeguo alla debole luce dell’interno, non mi ricordo finestre evidenti. Come sarà penetrata la luce? Le finestre sono importanti eventi architettonici delle chiese ma qui le finestre non sono importanti, si le aperture del porticato sono evidenti ma quelle dell’ambiente interno, non hanno ne evidenza ne importanza. Alla fine comunque risaltano i particolari. Una scala sale verso il muro ad ovest fino ad una porta che da forse sull’esterno. L’arco che protegge il tumulo del santo è finemente scolpito nei capitelli, nella tenera maniere visigotica, l’ urna è addirittura cesellata, sembra di albastro gessoso tanto è stato reso lucida dalla lavorazione e dalle mani dei fedeli che hanno evidentemente strisciato lucidato queste reliquie. Lui è li che dorme e prega tra scene di monaci oranti e in ginocchio che percorrono pellegrinaggi trainati da cani al guinzaglio e supportati da bastoni da viaggio o da preghiera.  Una colonna è ricoperta da azulejos e attraverso una apertura degli stessi si vede il bastone di legno ingrandito da un miracolo di San Millan. 
La guida, una ragazza seria e preparata, che ha subito messo in regola alcuni turisti che si erano seduti sulle tombe del portico, spiega e dice. Io, un po’ per la lingua, un po’ per mia decisione mi estranio dalla spiegazione preferisco percepire direttamente da me senza mediazione il messaggio di quegli ambienti, anche se mi mancheranno le conoscenze tecniche. Devo alterare le mie normali capacità sensitive, mi metto in ricezione,  in presintonia con l’ambiente, per quello che verrà. 
Fermati pellegrino e ascolta. Abbassa il tuo capo e impara, attendi con umiltà il segno.
Presto rimango solo, quel luogo mitico e atteso, rimane tutto per me per un tempo esageratamente lussuoso e lungo, inaspettato e insperato.
Frantumato, spalmato, dilaniato, vibrato lungo un lungo tratto di tempo del passato (dal 400 al 1000). Sospeso nello spazio tra cielo e roccia, aria e terra,  luce e buio.
Di nuovo gli opposti della luce e del buio: più si tende al buio e più ci si illumina, più si tende al limite è più si sa, ancora una volta i contorni si saldano, gli estremi si uniscono. La solitudine trova il tutto e l’universo si racchiude in questa piccola chiesa rupestre che diventa una bolla trillante che si chiude su se stessa con me pensante dentro.
Intricato, assatanato, incartato nel cervello sibilante e teso tra fede e arte, cristianesimo e islam, storia e vita, andare e restare, fare e non fare, rimango in attesa.  Attendo. 
Alla fine della giornata…… Scendo a piedi,  lentamente, stancamente, fino al centro abitato e al monastero de Yuso. Acquisto il biglietto per la visita guidata, questa si paga, la visita inizierà tra venti minuti. Bighellono davanti ai portali della chiesa, all’entrata principale, mi siedo sugli scalini ad un bordo della grande piazza. Mi assale la sindrome del Marinaio di Pessoa, vorrei essere da un’altra parte, dove? Ancora dentro il l’eremo de Suso, o in mezzo alla foresta di conifere, non ci sono stato abbastanza prima per venire a vedere questo monastero che ora non mi interessa più, ma sarà vero e necessario che non mi interessa più?
Prima dell’inizio della visita guidata, con il biglietto già acquistato, sono in viaggio per la festa patronale in onore alla nascita della Madonna a Lerma.
Lerma è in Castiglia, non più nella Rioja, un altro mondo, alla faccia di chi chiama questi posti semplicemente Spagna.
Mi aspettano atracciones y música. Salame piccante e frittelle, lo zucchero filato e il croccante di quando ero ragazzino, gli autoscontri con i colori vivi e con gli azzurri lampi elettici sulla rete sopra le macchinine, il toro di metallo a cui stringere le corna per misurare la forza, i cortei di figuranti e la banda musicale e i fuochi di artificio e tanta gente e confusione hasta altas horas de la noche. 

 

LERMA

Da  lerma@parador.es
A gattovince@catmail.it
Estimado Sr. Agostini.  
Nos ponemos en contacto con usted para informarle que entre el 6 y el 11 de Septiembre, el pueblo de Lerma organiza sus Fiestas Patronales de la Natividad de Nuestra Señora con atracciones y música por los alrededores del Parador hasta altas horas de la noche, razón por lo cual  el Parador  no puede comprometerse a ofrecerles la tranquilidad que de nuestro establecimiento se espera.
Le informamos que el tipo de habitación que usted ha reservado (con cama de matrimonio y vistas) se encuentra en una de las torres del Parador. Para acceder a esta habitación, tiene que subir 36 escaleras y la única separación entre el cuarto de baño y el dormitorio es una pared de un metro de alto.
Si desea cambiar el tipo de habitación, no dude ponerse en contacto con nosotros lo antes posible
Lamentando de antemano el inconveniente que este evento les pueda causar nos ponemos a su disposición ante cualquier duda o consulta que desee realizar.
Aprovechamos la ocasión para enviarles nuestro más cordial saludo.
Atentamente 

Va bene così. Va bene l’eremo, ardito, faticoso da raggiungere, angusto e promiscuo con il bagno, in cima al torricino, solo sotto allo spiovente tetto di ardesia e le quattro finestrine, minute ma che danno la vista promessa. Va bene la festa padronale con la confusione parossistica della notte. Potrò scegliere tra questo e quello, è la mia solita tattica. Isolato sulla guglia, magari potrei fare l’eremita,  studiare, mettere apposto gli appunti, scrivere, pensare a San Millan  che ancora non mi sono mai immaginato. Potrei scendere nella sottostante Plaza Mayor dove si sta tenendo la festa della città, immergermi nella festa, cercare magari il  Duca di Lerma che adesso mi immagino come uno di quei dignitari reali dipinti da El Greco, con tanto di gorgiera azzimata e bianca come lo zucchero filato della piazza Maggiore. Magari potrei rimanere in una tensione attiva e provocatoria di nuovo tra questo e quello o farmi fregare dalla sindrome del Marinaio di Pessoa.
La cena si muove sulla linea di questa dicotomia. L’entrada, tipica di questa landa della Castiglia, è quanto mai ascetica e strana, essenziale, bizzarra, addirittura penitente: Sopa fria. Arriva la cameriera e mi porta un piatto di grande diametro, bianco, con sul fondo solo alcuni piccoli pezzi di trota affumicata, aglio e alcune virgole di erba, poi da una grande brocca versa sopra i pezzetti di pesce un liquido, acquoso, bianco, freddissimo.
Mentre il piatto principale, anche lui tipicissimo della Castiglia, è l’arrosto di maialino da latte cotto nel forno a legna. Grasso, ricco nel suo bagno bruno. Caldo, croccante sulla superficie brunita e tesa; umorale, vaporoso, tenerissimo e bianco nella polpa innocente che recido con il grosso coltello, fino a scalfire le tenere e gentili ossa interne dell’animale. A pensarlo così diviene un rituale troppo intenso e sacrificale. Nutrirsi a questo punto diviene motivo di ripensamento e di ammenda, una attività lussuriosa e uno eccessivo spreco di materia, energia vitale, di vita e di assurdo non rispetto, anzi di un aberrante  assoluto dominio verso l’altro essere anche, se in questo caso, animale e da sempre, culturalmente asservito all’uomo.
Il maestro del ristorante,  approva la mia scelta doppia mentre mi consiglia il vino per l’arrosto. Lo vedo compiaciuto, potrei essere  soddisfatto, potrei dire di avere fatto un passo avanti nella conoscenza di questa Castiglia, di aver percepito  attraverso la sua cultura materiale, le due anime estreme che sono di questa terra e che vivono in questa terra. Anime estreme che a volte si manifestano con tutta la loro forza tragica.  Ripenso alla guerra civile del 1936 – 1939 quando tra persone della stessa città, dello stesso paese, tra persone che si conoscevano da decenni,  si sono avute delle soprafazioni, delle violenze e degli assassini che ancora oggi, nonostante la pazzia della seconda guerra mondiale, la Bosnia-Erzegovina e l’Iraq, mi risultano assolutamente raccapriccianti e ho paura a rileggere quei fatti.

 

SANTO DOMINGO DE SILOS

L’altipiano appena ondulato del centro dell’Iberia, la meseta,  a sud di Burgos si muove attorno agli 800 metri di altezza. Le lontane Sierre a sud allontanano pensieri repentini e verticali, idee argute. Il paesaggio ti aiuta alla tranquillità ella meditazione lenta, alla estetica del vuoto e del poco. La scarsa vegetazione acuisce l’allargamento degli spazi, non c’è quasi nulla da fissare, non boschi intensi, non alberi isolati, non città paesi, nulla. Le rocce di un colore dai toni grigi e debolmente verdi riflettono, trasmettono una luce piatta, radente, semplice che non drammatizza i contorni e i pur presenti risalti del paesaggio. Il cielo, ora questo cielo di settembre, pulito e trasparente non incombe e rende questa landa del vasto mondo estesissima, univoca e perfettamente serena. Il luogo appare ora, e apparve a maggior misura nel passato, adeguato alla contemplazione e alla meditazione. Fin dal primo cristianesimo vi sorsero e luoghi di ritiro per monaci e anacoreti. Durante il regno dei goti  divennero eremi e monasteri. L’occupazione islamica non fece cessare la vocazione di questi luoghi, i monasteri rimasero attivi, anzi si arricchirono di essenze e culture provenienti dall’oriente, dalla Siria, dalla Mesopotamia. Si generarono dei complessi architettonici e contemplativi  Mozarabi di unica possibilità.   Alcuni torrenti  incidono blandamente la terra e in questi solchi allignano villaggi, borghi nascosti, cittadine. Il fiume Arlanza riunisce questi rivi, attorno all’anno mille nella nostro modo di contare il tempo era il confine tra le terre cristiane del nord e quelle more del sud. Esiste una leggenda, esistono sempre le storie del tempo eroico della Riconquista, in cui si narra che il condottiero Fernando Gonzales, al servizio del Re cristiano di Oviedo, avesse occupato con la sua cavalleria una moschea. Fernando entrò a cavallo dentro il luogo di culto per profanarlo e si accorse che era una chiesa cristiana e che i monaci erano suoi correligionari.
A diciasette chilometri dal corso dell’Arlanza e dalla cittadina di Covarrubias incassata nel suo bordo, quasi alla sommità di un vallone che prende inizio dalla strada che da Burgos conduce a Sòria, esisteva a Silos un eremo antico.  Quando S. Domenico proveniente dal più vecchio sito de San Millan de la Cogolla vi si stabilì, attorno al 1041, dopo la definitiva conquista cristiana, il Santo si diede tanto da fare che il vecchio monastero  visigotico e mozarabo di Silos diventò il monastero emblema di questa terra, emblema della Castiglia, e il più singolare e stupefacente monastero romanico di tutta Europa. Purtroppo la storia fino a questo punto, docile, addirittura mamma e maestra per il nostro monumento e per la cultura che vi si era elaborata da tanto tempo, divenne diversa. L’orrido impulso del neoclassicismo, rifece parte del complesso.  Si distrussero  il monastero e la chiesa romanica, rimase solo il chiostro, salvo per una miracolosa mancanza di fondi per il proseguimento dei lavori.  Nel XIX secolo vennero soppressi gli ordini monastici in tutta la Spagna e il monastero di Silos venne chiuso, nel 1880 dei monaci provenienti dalla Francia (di nuovo, dalla Francia, dal nord, come all’inizio) restaurarono la vita benedettina a Silos.
Queste sculture nei capitelli del chiostro di Silos sono degli specchi. Queste pietre sono delle sensibilità che riflettono te stesso, dei motori di liberazione di idee. Motori di liberazione. Motore di ricerca, questo ultimo suono mi rimanda nel pieno del nostro tronfio e autocelebrante agio tecnologico, ma non è strano che mille anni fa eravamo uguali ad ora, con le stesse possibilità di ora. Dov’è la differenza? Tutte le  immagini di Silos le hanno generate i monaci del 1000 ma, ora sono per me presenti, magari nella mia prima impressione non mediata da nulla. Magari all’inizio potrò attribuire il nome di “picciona gravida” ad una figura mitologica che non conosco e che a minima documentazione avvenuta, diventa un’arpia, ma le sensazioni sono presenti e fervide: paura, raccapriccio, monito. Sono dunque dentro una fantastica vetrina di simulacri di animali che non sono animali ma le tue stesse idee che ti fanno la guardia. Che fanno la guardia alle tue pulsioni, ai tuoi desideri e alle tue paure.
Vai pellegrino, vai, cammina attorno al chiostro, ruota su quelle immagini, ruota ancora, magari ad una distanza diversa dal bordo, o ad una velocità minore, ruota nel senso inverso di quello precedente, fermati, ascolta, fissa, respira. Anche le sfingi gravide al prossimo giro non saranno più tali. 
Dove sono volati quei piccioni con la faccia di donna? Donna dalla fronte aperta con i capelli biondi, lunghi e morbidi che contornano l’incantevole, attraente, avvenente viso, il naso garbatamente lineato, gli occhi grandi e profondi.  Dalla bocca, dolcemente aperta e fluida, fuoriescono dei serpenti finemente scolpiti. Quella mia bella donna è diventata un’arpia, un essere di cui avere paura, un’ essere da temere e da fuggire. Questo chiostro è un motore di domande, un mondo di enigmi. 
Ma non è un mondo di monaci? Come mai tutte queste figure di donne, saranno simulacri, ologrammi del maligno o cosa? La donna è il nemico del monaco, dell’uomo, dell’umanità, del mondo intero. E quei  colli lunghi e lascivi che ad ogni giro diventano più caldi,  e i pavoni che si baciano e i densi seni delle sirene che sono proprio uguali a quelli di Jenny? Ma come fanno i frati di 1000 anni fa a conoscere Jenny. O quello che suscita la bellezza femminile potrà essere considerato il nemico. La dea madre, la divinità femminile delle civiltà antiche ormai seppellite sotto divinità solo maschili.
Attento! Ora da quel capitello laggiù, ancora in ombra, si leva in volo un essere gigantesco: un uccello, un’aquila, un angelo o il demonio. Mi passerà accanto con il suo fetido alito o il suo  delicato profumo? Mi struscerà malamente la spalla con la sua ala pendula e nera, untuosa o mi accarezzerà sulla guancia con il dorso delicato e morbido della mano. 
Puoi scegliere a Silos: piangere o ridere,  pregare o peccare. Amare o odiare. Puoi scegliere tra le tue divisioni, magari già fatte e sedimentate.  Ma è una scelta personale o oggettiva? Si sceglie secondo la propria preparazione, cultura storia o fato o destino? Questo luogo è una serie infinita di domande, una ricerca. Questo luogo è un libro,  una lezione infinita. Questo girare continuo nel chiostro è la stessa peregrinazione della vita ma ad una velocità e ad una intensità inimmaginabile.  Questo chiostro è un ponte verso una conoscenza infinita che viene di la dal mondo e da dentro la nostra testa.
Ma allora la testa di chi ha fatto questo è come la mia.
Vai pellegrino, compi ancora un giro scegli se ridere o piangere, la paura o lo slancio, le lune del paradiso o la penitenza. Scegli i numeri. Si, i numeri: il tre di Dio, il quattro della Terra. E il numero dell’uomo? Quale é  il numero dell’uomo? Non c’è numero per l’umanità.  Insieme fanno il sette. Il quattro dei pilastri della Terra e il tre, la unità e la divisione di Dio.
E ad un certo punto del tuo percorso, arrivi a quella colonna ritorta su se stessa, a quelle quattro più piccole colonne avviluppate su di loro, attorcigliate a sorreggere la Terra intera. Ecco i quattro pilastri della Terra. Arrivi a quella discontinuità che divide il chiostro in due, lo divide nelle forme, nello  spazio e nel tempo. Da una parte il secolo XI e dall’altra il secolo XII.  Divide gli animali e gli uomini e la terra e i frati stessi che l’hanno pensato.  Quale mente può avere pensato una singolarità così evidente e assoluta che da sola spartisce l’uni-verso in   di-versi, che da sola divide, fraziona, analizza, frantuma il tempo in cui si é.
Riemergi un attimo nel razionale, pensa a quello che hai letto a casa,  non ti far prendere dall’emozione di essere finalmente impigliato in una via d’uscita dal mondo.
Nei capitelli più recenti non ci sono più animali che ti guardano storto, cani cammelli leoni con le facce cattive, uccelli rapaci che divorano alberi o fiori (i fiori del peccato) civette e pavoni senza testa e con la coda chiusa, gatti furbi che ti guardano con malocchio dal basso all’alto e con conigli disperati che scavano tane nella terra per paura di chi sa cosa. Scappano dai rapaci o da te che sei un peccatore. E ancora quadrupedi con testa di uccello rapace che si combattono tra loro, e cervi presi dalle reti, prigionieri di chi? E struzzi ipocriti che nascondono la testa sotto l’ala o sotto il suolo, che scappino, almeno, come quei conigli che vorrebbero scavarsi le tane nel suolo, ma è inutile, i loro demoni, strani esseri alati e dal becco ricurvo, li raggiungono e gli divorano già le schiene. E ancora il fenicottero con l’occhio acuto e furbo che ti guarda, ti ammonisce, ti concupisce.  E i pellicani dalle ali aperte che si affrontano o che  affrontano.. affrontano cosa? O piuttosto chi? E le aquile con la testa di leone che sembra ruotino, piroettino su se stessi a coppie come ballerine del sabato sera televisivo delle nostre case satellitate e telecomandate.  Animali costruiti con pezzi di altri animali e ognuno porta sulle spalle il proprio piccolo, teste di scorpioni, code di serpente, gozzi enormi, pustole empie di umori e dolori. Poi avanzano orde vegetali, liane, reti di vegetazioni coprenti questa mondo animale straziato e straziante. Ammantano di sanzione o di pace il mondo precedente abbruttito e peccatore?  Gli acanti di queste colonne hanno la stessa funzione estetica della classicità o no? O sono didascalici anche gli acanti? Nelle sculture più recenti non ci sono più animali. Nessuno, l’umanità ha imparato la lezione, siamo  diventati bravi, nei capitelli della sala capitolare ci sono figure umane, bambini, magari nasuti e dai petti evidenti. Suonano strumenti ad aria o soffiano il vento della purificazione sulla nostra terra. E’ una sensazione repentina, i petti evidenti evocano i seni  della sirena, dell’arpia.
A tratti risaltano i capitelli a soli rami intrecciati. Rami intrecciati  che lo circondano interamente lo circuiscono e lo coprono. Perché quelle reti a coprire il mondo? Perché quegli intrecci irretiscono perfino gli animali mandati per metterci paura a loro volta impauriti come peccatori che vengono irretiti e dissanguati, prosciugati di vita e di intelletto. Sono anche loro delle figurine assenti.
A questo punto cosa devo fare io? Cosa devono fare i pii?  Perché quella liana avvinghia quel collo di donna. Perché questo frati vogliono soffocare le donne??? L’amore è  peccato o elevazione? E i piedi nudi dei santi e degli apostolo sono umiltà o protagonismo o lussuria. Come me la racconti monaco solitario della meseta iberica?
Vai pellegrino vai ad ogni giro aumenta lo stupore e l’interesse, ogni giro scendi o sali è una tua scelta. Ora appaiono delle scritte, saltano fuori scritte sull’intradosso degli archi, cerano anche prima ma ci sono volute decine e decine di giri per vederle.
E capiti ancora attonito di fronte alla colonna della discontinuità assoluta, scolpita ti trovi l’annunciazione e la Madonna, ancora la donna ma questa volta pensata diversa. E’ l’unica volta che la gerarchia della nostra chiesa ha un ripensamento, una donna diventa una divinità minore, e con il passare del tempo acquista nuove capacità fino alla “immacolata concezione” del Papa Pio IX e fino al marianesimo formale di Papa Giovanni Paolo II. Un alibi per la chiesa imperiale romana in questi tempi moderni.
La donna si può solo avvicinare alla divinità. Dio è uomo. UNO o TRINO è maschio il suo numero è UNO. E  l’umanità che numero ha? La terra ha il numero quattro, ancora le quattro colonne torte: la Terra, Adamo ed Eva che compongono il loro nome.
Ma attento poco più in la dalle parti del capitello coperto dalla mefitica rete è all’erta il Basilisco, attenta Eva, Donna, Umanità alla calunnia, al basilisco, attenta Terra, attenta umanità intera.
Da molte occasioni che mi domando cosa ha messo in piedi questo bailamme: i frati, la roccia, la luce, il tempo, non bastano. La religione, la fede dei monaci, non bastano. Qualcosa di Altro ha messo in essere questa struttura. Come lo chiamiamo?
Non mi resta che tornare a girare come un matto sul pavimento acciottolato, ancora, ancora ma non basterà mai: tre tre tre – uno uno uno – quattro quattro quattro – sette sette sette, i numeri di Dio, dell’uomo, della terra.  L’ombra del grande cipresso si è spostata dalla colonna storta della discontinuità e indica qualcos’altro, ora una guida, una ragazza, recita una poesia in casigliano (e in che lingua dovrebbe recitarla?)
-“negratorre ……………….… e nel fervor”.-
Il numero è ordine dice la mia guida.
Ma radice di 2 non finisce mai, ma il P greco non finisce mai, due numeri che incontro sempre ma che non sono ne ordinati ne estetici e mettono in ordine tutti i cerchi e i quadrati.  Il numero è simbolo e il simbolo è ordine, la complessa simbologia del romanico è ordine. Ma qui le donne non venivano, e la donna strozzata dalla liana sarà un monito per gli uomini, per i stessi monaci? 
Sul sedile una croce scolpita, fino ad ora non ci sino state croci, il simbolo del supplizio di Gesù non è molto presente nella iconografia romanica. La croce è scolpita, sento i granelli di roccia fra le dita, la roccia è tenera, un calcare tenero, chiaro. Mi accorgo solo ora del calcare, come mai non mi sono accorto prima,  e pure sono dottore in geologia. E le campane ora suonano, avranno suonato anche prima? Non lo so. Avranno suonato sicuramente ma non le ho sentite. Ora mi accorgo anche del pavimento a mosaico di sassi arrotondati a formare figure a rombi stelle fiori cerchi, mi accorgo dei podi delle colonne, dell’abaco dei capitelli, degli archivolti dell’imposta.
E’ passata l’una, e finito il tempo della visita sono rimasto in questo chiostro come un pazzo furioso per più di tre ore. Devo andare via con dolore e con la certezza che mi manca ancora molto di questo luogo.
Ancora un giro? –
Si. Grazie. –
Si ora Vado. Addio.- 
Ho dimenticato, saltato, la parte più didascalica gli angeli turibolanti, e le scene agli inizi delle gallerie del chiostro, figure ieratiche, come dice la mia guida, le guide sono sempre troppo veloci e sbrigative. Magari le figure sono anche sottili, lineari, moderne, non sicuramente scontate,  ma gli apostoli e Gesù e la luna e le stelle e il sole sono esattamente  come erano sulle foto del libro Castille Romane della Zodiaque. 
Potrei trovare delle assonanze a Jeronimus Bosch, questi monaci hanno tanto da insegnare a lui e a Dante il nostro primo infernista che ci è dato conoscere nel nostro normale percorso culturale.
Non ho voglia. No.
Esco. La luce di settembre dell’altipiano della Castiglia mi riporta ai miei interessi contingenti: le case a graticcio riempite di terra, le case di roccia, le piazzette di roccia, il pranzo, il parcheggio della macchina e la strada da fare per raggiungere cosa: Quintanilla de la Vinha, S. Juan de Banho Cerrado, S. Pedro della Nave? Non lo so. Per adesso attraverso con sufficienza Covarrubias, mi fermo scaltramente a Covarrubias. Gentile cittadina con la sua collegiata fresca di giardinetti e viali, la torre Mozaraba di Dona Urraca, vie graziosamente guarnite dai balconi fioriti, dall’odore di solommillos sulle braci dei ristoranti. Torno muto e ancora assente per la stessa strada di prima verso Lerma, non potrei percorrerne un’altra. E’ la Carretera Autonomica C 111 della Junta de Castilla y Leon. Penso che nome strano per una strada e vado, non mi fermo a Lerma, non mi fermo a Burgos, non mi fermo a Palencia, non a S, Juan, non a Valladolid, non a Tortesillas, non a Toro nemmeno a Zamora arrivo a metà pomeriggio a El Campillo. Uno sperduto pulcioso borgo isolato in una landa desolata attraversata da elettrodotti dell’alta tensione e con una piazza polverosa piena di cani sdraiati al sole. Perché? Per fare un salto indietro di più di mille anni.


SAN PEDRO DELLA NAVE

In Cima al villaggio, la antica Chiesa de San Pedro, questa volta é letteralmente, precipitata, caduta li, dall’alto come le cattedrali nelle piazze polverose della Castiglia. Ma se per quelle magari sarà una mia bizzarra metafora o un effetto letterario, in questo caso è una certezza da DHL. Dalla sua costruzione attorno alla fine de 900 fino al 1930 rimase in cima ad un villaggio vicino a El Campillo, nella stessa posizione che ha ora. San Pedro de la nave era un villaggio di una trentina di abitazioni di “adobe” al bordo dell’unica strada. Non una strada famosa come la ruta de la plata che portava da Merida a Astorga ma una calcada che menava merci e pellegrini fino a Santiago de Compostela. San Pedro de la Nave era un villaggio al bordo del fiume Esla, alla confluenza di altri due corsi d’acqua. Lo stesso toponimo “Nave”  trae, forse,  origine da una chiatta o barca ancorata li per attraversare l’Esla. Ora il villaggio non c’è più, la diga, le acque del lago artificiale hanno sommerso case, scacciato abitanti, le pietre visigotiche sono scappate, smontate, trasportate e rimontate.
Eccoli di nuovo i miei visigoti, la loro costruzione è piccola, a semplice croce greca. Non sono arrivate fino a noi le grandi basiliche visigotiche della capitale Toledo e delle grandi città del regno: Merida, Cordoba. Dei goti iberici ci sono arrivate solo piccole chiese sparute e nascoste nelle pieghe più remote e isolate della penisola. Quasi una furia distruttiva le avesse cercate per abbatterle e cancellare il loro messaggio e la loro aura. Ma perché? Quale era quel messaggio e quella aura talmente pericolosa per il la nostra civiltà e cristianesimo romanico classico, quello venuto dalla Francia (dal Nord) attraverso la Grecia e Roma. Cosa aveva quel cristianesimo iberico, proveniente da oriente attraverso l’Africa? I Visigoti, come gli Ostrogoti e Franchi dei Merovingi, erano Ariani, eretici. Anche dopo il concilio di Nicea del 315 indetto dall’imperatore romano Costantino. Non credevano che Gesù fosse cogenerato a Dio: “della stessa sostanza del Padre, luce da luce, Dio vero da Dio vero”. Gesù aveva più le caratteristiche di un uomo che della divinità assoluta e lontana, magari per quadrare il cerchio la Divinità assoluta lo poteva aver adottato, altra eresia combattuta sia dalla chiesa di Roma sia dal “Sacro Romano Impero” di Carlo Magno, Sacro Romano Impero carolingio,  usurpatore con la violenza della casata merovingia,  allineato all’ortodossia di Costantino e alla religione di Stato. Ma basta questo per segnare la propria fine culturale e la cancellazione della memoria? Cosa aveva questo popolo, che, arrivato da lontano e abbastanza isolato nell’Iberia, persi i contatti con l’arte classica greca e romana, attinse direttamente all’arte e alla cultura orientale, alla Persia, alla Mesopotamia alla Siria all’Egitto attraverso il la sponda meridionale del Mediterraneo, l’Africa? Perché me li hanno sempre pitturati come barbari, incivili, senza Dio, o con un dio piccolo, gretti, grossi, senza slanci artistici e metafisici.   Sono curioso, gatta ci cova, se tutti dicono una cosa, devo andare a vedere se, come penso, è vero il contrario.
Questi barbari Visigoti li avevo conosciuti in un viaggio precedente, nella cappella di Sao Pedro de Balsemao (sempre San Pietro) vicino a Lamego nella Beira Alta portoghese. Mi avevano fatto l’impressione di bambini, con e loro tenere sculture di disegni geometrici sulla rude roccia granitica. Avevo avvertito il loro sforzo, uno slancio verso la metafisica,  l’interno della cappella vibrava di fede. Erano magari nuovi ma si sentiva la voglia di continuare ad essere, magari anche ad essere presenti nella storia. Avevano il loro regno, la loro capitale,  tenevano i loro concili ecclesiastici, erano cristianissimi, combattevano le eresie come tutti i cristiani di quei tempi. Nel 630 definirono che il libro dell’Apocalisse di San Giovanni, pena la scomunica, dovesse essere letta obbligatoriamente a messa durante il periodo compreso tra Pasqua e Pentecoste.
La iconografia scultorea di S. Pedro è lineata dall’apocalisse di San Giovanni e dai Commentari dell’apocalisse derivanti dal Monaco Beatus di Liebana.
Beatus di Liebana era un monaco Agostiniano che, imboscato in un monastero tra le montagne asturiane dei Picos de Europa aveva miniato e commentato l’apocalisse di San Giovanni. Il Beatus divenne un testo molto celebre e imitato da tanti altri monaci tanto da assurgere a testo “primo in classifica” fino alla fine del millennio. Secondo i conti, fatti sempre sull’Apocalisse di San Giovanni, il mondo doveva finire alla fine dell’anno 800 e non nel 1000 come ora tutti pensano. Lo sapeva anche il grande imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo Magno che si incoronò il giorno di Natale, appena sei giorni prima della fine. Lui sarebbe stato comunque a posto, con tanto di benedizione del Papa. Se Carlo Imperatore credeva nella fine, a maggior ragione tutti gli europei erano pervasi da questa cultura dell’attesa, che rimase il motivo dominante per altre centinaia di anni e anche per la costruzione di tutti gli edifici sacri. Ma questa attesa in Iberia non genera solo paura e penitenza, no, l’afflusso orientale modifica il pianto generale e dona aspetti, guizzi di novità, oltre il canonico ordinario.
Dicevo costruzione a semplice croce di conci di roccia pulita, piccola esile, lineare, leggerissima.
  Entro come un pellegrino di prima dell’anno mille, appoggio il sacco e il bordone nodoso all’esterno del muro, mi tolgo il pesante cappellone rotondo. Entro, emozionato dalla oscurità relativa rispetto a quella esterna. In alto scorrono i fregi, mirabili e appassionanti, fregi intagliati con amore e sapienza che ricordano i precedenti, di alcune centinaia di anni della Cappella de Sao Pedro de Balsemao,  quelli dei giochi dei bambini, ma che raggiungono una precisione e un cesello mirabile e delle forme perfettamente intelligibili e trasferibili nella comprensione. Uccelli che beccano uva, uccelli del paradiso che si cibano di essenze beatificanti: bacche e  pigne. Animali mansueti, positivi, in sintonia con il Bene e con Dio. non sono come gli animali di Silos che sono i tuoi nemici. Ci sono ruote a raggi ricurvi, simboli perfettamente paragonabili ai semi delle carte da gioco: fiori, picche, quadri e cuori. Perché di nuovo l’arcano delle carte e dei tarocchi che ogni tanto incontro in ogni dove (((??????)))) piccole croci, fluenti vegetali, che non intigano* nessuno, non assalgono ma che riempiono lo spazio di grazia geometrica, foglie e fiori che si espandono nell’aria e espandono il loro odore che qui non sa di peccato affatto come l’odore dei fiori di Silos. Felci, piante strane, piante esotiche, palme, ecco l’oriente che fa il suo presente ingresso da sud.
Le altre sculture, le colonne, i capitelli infondono speranza e fede per il raggiungimento della Gerusalemme Celeste, non immagoniscono.
Certo, il Vecchio testamento e pur sempre il vecchio Testamento.
La presenza del Tetramorfo, i quattro simboli poi assegnati agli evangelisti: il leone, il toro, l’angelo e l’aquila segnalano la coesistenza della Bestia, dell’Anticristo, del giudizio finale.
Certo su quel capitello Abramo alza la spada sacrificale sul suo unico figlio Isacco già trascinato sofferente e storto sopra l’altare ma attorno al centro cruento della scena un cervo sta mangiando tranquillo da un arbusto verde li vicino e dall’altra parte   e sopra i soliti uccelli leggiadri si nutrono quasi con lussuria di rosse bacche succose.
E se Abramo non fosse Abramo e Isacco no fosse Isacco ma fosse Gesù cambierebbe qualcosa? La gente avrebbe migliori possibilità.
Dall’altra parte, nell’altro capitello, è scolpito il profeta Daniele nella fossa dei leoni con le braccia alzate  “UBID DANIEL MISSUS EST IN LACUM LEONUM”. La storia del vecchio testamento è nota, il leoni non mangiano Daniele e il profeta viene salvato dall’imperatore babilonese Nabucodonosor. Ma la scena qui è singolarmente più precisa. Si parla di LACUM (viva il latino) e si vede molta acqua addirittura scorrere sulle gambe nude di Daniele, i leoni, gigantesco e dalle criniere chimeriche scendono dentro la fossa, il lago, il fiume, lambiscono con le lingue l’acqua devono l’acqua di Daniele li con le mani alzate. La scena è quella dell’antico battesimo ad immersione, il battesimo di Daniele o addirittura dei Leoni. La scena è quella di Daniele che battezza le fiera, il nemico che non sarà più tale.
E se Daniele non fosse Daniele ma Gesù la scena avrebbe avuto più effetto e più speranza per la gente di quel tempo? E cosa sarebbe cambiato per il nostro cattolicesimo romano?
Ai lati dei due capitelli gli apostoli stanno tra alberi frondosi e ti guardano benevoli con i loro volti aperti e piatti
San Pietro piccolo semplice, non sembra affatto il capo di tutta la chiesa cristiana. Ha sulla destra la croce e sulla sinistra un volume con la grande unica grande semplice scritta “LIBER”.
San Tommaso tiene il libro con tutte due le mani. Ci mostra il suo vangelo che ora nessuno legge, perché ora i vangeli sono rimasti solo quattro, ma quattro è il numero simbolico a cui si è dovuto pervenire decretando o eliminando magari quelli non scritti in greco o quelli che dicevano cose avverse alle correnti dominanti. S Paolo in piedi in mezzo alla strada di Damasco ti aspetta con un rotolo scritto sulla sinistra e con la destra ti fa cenno di fermarti. Aspetta, ascolta pellegrino quello che ho da dirti. 
L’apostolo Filippo è addirittura contento, anche lui evangelista non di lingua greca è un evangelista dimenticato,  è li con le braccia alzate, con una fascia sulla testa,  che sorregge una barca che contiene due gigli e una sola croce. Meno croci ci sono, meglio è, la croce è uno strumento di morte, uno strumento di morte dello Stato, dello Stato imperiale romano, perché è diventato il segno, il simbolo della religione cristiana. Il simbolo di un messaggio di amore, fratellanza, perdono, quello di Gesù, che mai ha parlato di croce. E’ come se la ghigliottina, o la sedia elettrica fossero simboli di un ordine nuovo e della felicità. Filippo era di cultura egizia. Se la barca fosse l’arca dell’alleanza o se addirittura la barca fosse la barca sacra di Osiride e se Osiride fosse anche Gesù, e se la Madonna fosse un poco anche Iside, sarebbe cambiato qualcosa in meglio per la nostra umanità e per la nostra storia?
In questi due capitelli visigotici, gli unici di tutta la Spagna a mostrare figure umane c’è tutto l’infinito di questa piccola chiesa è c’è cristallizzata quella cristianità irripetuta: gli apostoli hanno tutti lo stesso valore, non Pietro il maggiore e non la chiesa di Roma “la Una, Santa, Cattolica, Apostolica”. Anche le chiese di Tommaso, che andò in India, e del copto Filippo hanno la stessa dignità e cittadinanza.
Oltre il transetto, oltre Daniele e Isacco oltre il Tetramorfo ci vengono incontro giuda Taddeo, Andrea, due alberi della vita, il fiume di acqua e la valle della dolce frutta e infine oltre l’arco glorioso un altro albero della vita e il tema del paradiso.
Nascosto a destra nel transetto se si sbagli il percorso, se sei tonto lo puoi fare, si va al cospetto del giudizio supremo e zac ti ritrovi comunque all’inferno.
   Fin qui mi sono imbambolato in un pellegrino di prima dell’anno mille. Il mio mondo è solo quello delle sculture che  mi raccontano le storie delle sacre scritture, Sacre scritture che non so leggere che mi rimbalzano dai pulpiti e non che non sappia leggere perché io sia schiavo e servo o povero, sono un uomo, libero, non povero, non potrei aver intrapreso il pellegrinaggio fino a Santiago de Compostela se fossi povero o servo o schiavo.
Risalgo di mille anni, dovrei riemergere nella Spagna del 2004, che si è scrollata di dosso il puzzolente mantello del barocco che tutta l’Europa gli aveva messa addosso, che dovrebbe aver modificato la fuorviante immagine di esotismo mediterraneo che la maggior parte dei turisti europei gli ha messo addosso. Dovrei  emergere in una Spagna pragmatica, efficiente, tecnologica, precisa, amministrata con assoluta onestà. L’appena trapassato governo di José  Maria Aznar, frantumato, distrutto dalla ignoranza delle bombe nelle nuovissime stazioni bianche e rosse di Madrid e i bellissimi treni bianchi e  rossi del 11 marzo 2004, non ha rubato un euro allo Stato. Ma questo lampo di storia recente mi ha tolto la forza di risalire da questo medioevo, dove si sta meglio, dove si convive più serenamente, dove la religione era migliore di adesso dove l’islam é fratello del cristianesimo e i mozarabi sono tramite e i mudejar sono  tramite speculare, dove i riti gotici contribuivano alla contaminazione. Ma la contaminazione non ha avuto più seguito.
Si continui a celebrare Covadonga e l’undici settembre, si continui a morire per il nulla o peggio per l’ignoranza.
Devo comunque riemergere, ritornare se non altro per prendere la Seat Leon e andare a Bragança.
Dentro la chiesa siamo in due visitatori e la signora, guida e custode, L’altro turista ha l’aspetto di un europeo del nord sta facendo molte foto a tempi lunghi, con il cavalletto e senza lampo. La signora mi accoglie abbastanza bruscamente, alla maniera casigliana e altrettanto bruscamente, di sua iniziativa, a caso e a tratti, mi indica alcuni particolari.
- Quello è Giuda Taddeo - 
- Quelli sono gli uccelli del Paradiso –
- Lassù è il sacrificio di Isacco e dall’altra parte    Daniele nella fossa dei leoni………… -
Non ti da ne tempo ne spazio di rispondere.
Fuori, il prato della spianata artificiale creata per montare la chiesa è circondato da un basso muro di conci di roccia e comprende la porta di entrata che funge anche da campanile costruito da un semplice muro su cui in alto risaltano due aperture per le campane a cui si giunge salendo la scala esterna. Verso nord il brullo altopiano é debolmente e lungamente ondulato e segnato da stradine agricole in cemento armato con rete elettrosaldata che salta su a volte dal pavimento.  poco più in la una costruzione abbandonata da anni e con i resti di un incendio fa da ricettacolo ai rifiuti di ogni genere e alla robaccia portata li dal vento, li vicino è parcheggiato un grande camper.  Verso sud la stessa stradina agricola di cemento, accompagnata dalle catenarie delle vecchie linee aeree della elettricità conduce al paese di case basse, bianche e con i tetti rossi, dove stazionano perennemente sdraiati i cani al sole e gli uomini che guardano i cani sdraiati al sole. La Spagna moderna di adesso è molto lontana, almeno fino agli elettrodotti di lega metallica ad alta conducibilità che corrono sopra i tralicci di alluminio dai bacini dell’Esla e del Duero fino ai più remoti mercati.
Vado via da questo posto con la convinzione che è meglio l’arcaico che il moderno e chi si crogiola in quest’idea meglio di me visto che tra meno di mezzora varcherò il confine del mio Portogallo e arriverò ancora una volta in una delle lande più arcaiche dell’Europa: il Tras-os-Montes.
Dopo tanto ricercare e scavare e stecchiare la mente e incastrare il pensiero in ingranaggi mai mossi, e affanno è necessario riposare in un ambiente familiare, tranquillo. Ancora una volta sosterò a Bragança. Vivrò di nuovo la madrugada sulla cittadella medievale. Mi stanno aspettando. Sto tornando di nuovo in Portogallo. I mio piccolo, tranquillo, uniforme, lento Portogallo.

 

I VOLTI DI BRAGANZA

A Bragança la Libreria di Màrio Péricles, in Rua Combatentes da Grande Guerra è chiusa, svuotata dei libri e degli scaffali, non più le porte di legno scrostato ma serramenti di alluminio anodizzato e moderno, dentro è tutto perfettamente pitturato di bianco nuovo e candido.  al suo posto aprirà una agenzia immobiliare. Bragança sta cambiando. Hanno aperto un grande parcheggio sotterraneo sotto la ex piazza del mercato, allargato il parco fluviale, collegato con stradine pedonali illuminate il borgo nuovo al castello medievale, con ponti di legno sul fiume, percorsi abbarbicati alle pareti rocciose della valle con slarghi e panchine. Tutto il castello medievale é cinto di luci nuove e sapientemente definite nella posizione e nella forma per dare ancora più risalto alle mura, alle loro merlature e alle porte, alle torri delle mura, al maschio e alla torre.
Candida continua a vestire di nero come ha sempre fatto durante i suoi 81 di vita. Sono rimasti in tre fratello sopra gli ottanta anni li al villaggio. Prima erano cinque fratelli, due sono morti. Candida è vestita di nero e si fa fotografare lusingata ma  con un poco di vergogna, quasi da bambina. Si toglie prima il fazzoletto che ha sempre portato sopra la testa durante tutta la sua conversazione con me e lo risistema e lo distribuisce con più grazia e vezzo.
Candida è la mia guida improvvisata, ma cercata, per la visita al dirupato monastero di Castro de Avela. Monastero fiorente e  potentissimo per tutto il medio evo tanto da creare dei problemi di gravi attriti con la popolazione locale e di ingerenza con il potere pubblico. I Monaci erano dispotici e possessivi, forse erano andati oltre la loro regola e oltre le regole del vivere civile. Per limitare i monaci intervenne il Duca di Bragança nel 1457 ed intervenne anche il re del Portogallo Joao III.  Ma i monaci non capirono …. infine una bolla del Papa Paolo III nel 1535 soppresse la comunità monastica e cedette i beni del monastero al Vescovo di Bragança creato per la bisogna. A quel punto la popolazione inferocita assaltò il monastero e lo distrusse. Ora Castro de Avela è anche una aldeia, della immediata periferia di Bragança. Vi vivono circa trenta persone, tutti vecchi che curano ancora amorevolmente, a mano i campi attorno alle case abbastanza decrepite. Candida mi domanda da dove vengo?
- Vengo dall’Italia. -
- Sono fortunata questi giorni, ieri –
disse proprio “ontem”
- è venuto un signore norvegese e ora “o senhor” dall’Italia, è un periodo buono per  turisti. Il signore norvegese sapeva la lingua portoghese meglio di Lei. -  (anche i norvegesi mi fregano).
Candida cura amorevolmente il suo campo di mais, le sue patate e i suoi ortaggi come i pellegrini o viaggiatori o turisti che scelgono di venire qui e cura con amore la piccola chiesa imbiancata a calce che è stata ricostruita addossata agli absidi di mattoni della vecchia chiesa abbaziale. Lo spazio dal tetto di tegole all’intradosso dell’arco dell’abside centrale è tamponato da un muro bianco. Da lontano, dal prato verde,  sembra che la piccola chiesa, o cappella, fuoriesca nuova, bianca, liscia, semplice dalla grande abside di mattoni dai toni ambrati, ricca di tre serie di archi ciechi sovrapposti e lesene. Sembra un parto di una figlia semplice e povera da una mamma ricca e pretenziosa. Nell’abside di sinistra vi è stata ricavata la sagrestia, mentre quella di destra è rimasta fuori e aperta al vento, alla pioggia e all’erba.
Candida mi accompagna per la visita. Davanti alla piccola porta di legno verde del lato nord, senza nessuna scultura, ne segno, nulla, sta sdraiato al sole un cane nero, non si muove di li, lo scavalchiamo per poter entrare. Candida gli brontola:
cosa fai sempre qui a dormire, vai ad aiutare il tuo padrone!! -
Apre con la grossa chiave di ferro. Mi fa entrare all’interno, oscuro, ombroso, ingombro di mobili e attrezzature e odoroso di granaio e di fiori freschi. Accende le luci, mi chiama, mi incita.
-  Seguimi! -
Arriva in fondo all’abside tocca il retablo di legno dorato, me lo fa toccare lo batte. 
questa “Tallha Dourada” è del 1600, è indipendente, sta su da sola.- 
Vedi, là - 
Indicando una scala di legno che sale verso una parete interna tra la nave e la sacrestia.
- li una volta c’era il pulpito, ora non più, il vescovo ce lo ha tolto. –
Va veloce e minuta verso la zona dell’altare  dove sono le statue di legno ad altezza naturale della Madonna di Lourdes e della Madonna di Fatima e di Sao Bento. L’altare è ancora pieno di fiori per la celebrazione della festa de Sao Bento di domenica scorsa, appena sei giorni fa, la statua del santo regge una bandiera, fatta fare a Braga. La statua è piena di fiori, con le mani regge fiori odorosi. Guarda la statua con tenerezza, lo indica quasi a toccare e accarezzare il legno, mi guarda negli occhi e dice con aria trasognata. 
  - E’ bello il nostro Sao Bento. -
Usciamo all’esterno della cappella, nella vecchia navata di destra della distrutta chiesa, proprio sotto il fornice absidale restaurato, risalta una arca sepolcrale di granito. Candida mi dice che è la tomba di una ragazza “rapariga” vissuta al tempo del “Conde  Mouro” che la doveva sposare. Ma ci si mette di mezzo “O Conde da Serra de Nogueira”, il signore delle montagne a sud di Bragança. 
Candida aggiunge e sottolinea che La Serra di Nogueira è una catena piccola per chi non sa la geografia non come la Sierra de Estrela che è grande, la più grande del Portogallo e che tutti conoscono.
I due conti si fanno la guerra per la “rapariga”, una battaglia, anzi due. A questo punto il racconto si complica. Mi sa che la battaglia è vinta dal conte cattivo, che per stavolta non è il moro ma il bianco, si inseriscono nel racconto anche due leoni. Leoni che ora sono scolpiti nel granito in cima alle colonne di entrata del giardino antistante la cappella e che mi sembravano i solito verri del nord del Portogallo.  La ragazza non cede e rimane fedele al conte buono e moro, ma non ho capito bene, ad un cerro punto salta fuori il serpente “uma cobra” che soffoca la ragazza. Alla fine quando finalmente ritorna il conte buono e moro la ragazza è già morta e tumulata nel granito. Le rimase sempre fedele.
Candida conclude il racconto e mi dice che la storia è solo una “lenda”, dentro la tomba non è stata trovata nessuna ragazza. Questa vecchina è meraviglisamente vigorosa e simpatica le chiedo se posso fotografarla li mentre siamo appoggiati  tutti e due su quel sepolcro di granito e su quella leggenda di conti mori e di ragazze.
Candida mi accompagna ancora fino alla piazza che si apre tra il complesso monastico e il villaggio. Mi dice che il monastero era molto grande era tenuta dai benedettini “los monges reza e trabalha” che avevano un albergo, lei dice propriamente “estalagem”, un bel albergo,  per ospitare i pellegrini che andavano su a Santiago de Compostela in Galizia. Ci fermiamo vicino alla mia macchina parcheggiata e con gentile interesse e mi dice
- esto carrinho é do senhor? -
- Sim è o meu carro -
Scorre con le dita la scritta in rilievo nel retro della macchina  - LEON, que lindo carrinho -  
Ma non riconosce la matricola, la targa spagnola, non come Josè di Castelo Mendo. Candidà è meno aderente al moderno e al contingente, più volta al passato e al metafisico. Si assicura che abbia visto le cose belle di Bragança perché Bragança è una bella città lei ci ha frequentato le scuole elementari: il Museo do Abade de Bacal o Castelo  e mi dice:
- visto quanti lavori stanno facendo. -
Infine si congeda, lei va a pranzo, mi augura un buon proseguimento del viaggio e una buona vita, forse non ha detto proprio “boa vida” ma il significato mi rimarrà per sempre quello.
Obrigado. Boa Vida. Adeus Candida.

 

DORMI PELLEGRINO
(la chiave di Saramago)

Primo pomeriggio, di nuovo attraverso il Tras-os-Montes per la IP4 già percorsa, poi giù a sud attraverso le terre di coltivazione delle uve per il Vinho do Porto, ancora Sabrosa, ancora Pinhao sul solco del fiume che attraverso sul ponte di ferro fino alla meno conosciuta sponda della Beira Superior, mi inerpico per la valle del fiume Tavora fino a Tabuaço. Nel territorio di questo comune,  vicino al centro abitato di Granghinha,  infossata dentro il profondo vallone del fiume, sorge la cappella romanica del XII secolo di Sao Pedro das Aguias. E’ per me una meta irrinunciabile, mi ha convinto quel brontolone di Saramago, che comunista, ateo e anticlericale com’è mi scrive queste cose:
“Provoca uma onda de ternura, um desejo de abraçar estes muros, a vontade de apoiar neles o rosto, e assim ficar, como se a carne prudesse defender a pedra e vencer o tempo. Està a tarde em meio, tempo nao falta. Porém, hoje, o viajante decide que tem a sua conta de beleza. Nenhuma imagem deverà sobrepor-se a Sao Pedro das Aguias. Prudesse o viajante nefaria todo o caminho de olhos fechados, daqui até à Guarda, onde vai ficar”.2
Cosa avrà colpito il mio vecchio  maestro a tal punto da mandarlo in così stemperato visibilio, cosa avranno di singolare e eccezionale quei graniti scolpiti da quasi mille anni e da quasi mille anni immobili sotto la pioggia, il vento e i lanci del tempo.  La strada scende, scende oltre il piccolo paese, si fa sempre più stretta e con l’asfalto via via sempre più precario, resistono comunque i cartelli indicatori, mi viene da pensare che sia un monumento ne abbandonato ne non visitato. La strada si allarga in un spiazzo-parcheggio.
La fondazione di questo eremitaggio risale all’XI secolo. La leggenda che vive attorno alla nascita del monumento è la stessa di tanti altri monumenti cristiani di quella epoca di riconquista. I condottiero Tedone  discendente della famiglia del re Ramiro II di Leon conquista con una fortunata battaglia questa terra alla cristianità togliendola ai Mori. Il pio fratello di Tedone  fa costruire il tempio a ringraziamento al Signore e ancora maggiormente per difendere il prezzo della battaglia fatta. Per molto tempo la chiesa avrà visto Templari, Ospitalieri, monaci soldato o soldati entro i suoi graniti. La scritta sul portale Nord recita senza dubbio “DNS EXERCITUM : CUSTODI  / AT HUIUS TEMPLI INTROIT  / UM ET EXITUM”.  Tradotto  dai benedettini della Zodiaque:  “Che Dio delle armi protegga l’entrata a l’uscita da questo tempio”. Trovo questa enfasi di guerra molto fuori luogo e poco consona ad una costruzione religiosa. Ma è una costruzione religiosa o una costruzione per la guerra? Che tempo strano quello della Riconquista. A tratti tempo di odio, sangue e stragi a volte intese profonde. Che sia stata la casa della guerra. Ma ancora una volta le due religioni sono intercambiabili, uguali. L’islam aveva dedicato questo luogo alla contemplazione del sovrannaturale ed a Dio, non alla guerra. Anche i Mori vi tenevano un xxx e quindi ecco ancora una volta  una continuità, semplicissima di intenti tra i due nemici.
La odierna sistemazione è ancora quella del XII secolo operata dai monaci benedettini che tennero il luogo.
La cappella è 30 metri ancora più in la e ancora più in basso. Piccola, piccolissima, formata da due locali rettangolari che seguono la pendenza della valle. La parte absidale, ancora più piccola della parte occidentale è più in basso e più verso il fiume. La parte dell’ingresso principale, quello occidentale è addossata, attaccata, ancorata alla parete di roccia della montagna. Dalla parete verticale della montagna al portale ovest ci saranno meno di due metri e per arrivare alla porta si deve passare per un pertugio ancora più stretto.  I canoni costruttivi, sono rigidissimi. Bisogna orientare la costruzione con l’abside ad oriente  E sia, anche se l’entrata principale sarà oppressa dalla montagna incombente. Questa incombenza e questa assenza di spazio ti costringono a rimanere al cospetto dell’ingresso ad un distanza più ravvicinata e forzata di quella che useresti per guardare la parte ovest di una chiesa romanica. La prospettiva è diversa a quella che ti sei preparato, le bestie non solo incombono su di te, grandi e scolpite, saltano anche fuori dalla roccia verso di te, rimbalzano miagolando sulla parete della montagna e ti graffiano ti sbramano ti perturonano. Sono talmente irrequieti che ancora nel granito della cappella si azzuffano tra loro. A sinistra piccolo leone ne morde uno più grande, a destra alcuni leoni si arrampicano in verticale verso l’alto ancorandosi con le unghie al granito.  Sei costretto con la schiena addossata, puntata alla parete di calcare della montagna,  non puoi fare a meno di sentire il respiro dei leoni alati, dei felini maculati (leopardi, o cosa) che stazione in quel ambiente costretto dalla roccia e gravido di umori e sensazioni. Lo spazio è ulteriormente chiuso da un arco che circonda una piccola apertura che conduce in uno spiazzo, oltre la cappella, uno spazio piano a sbalzo sul fiume collega l’antro di una grotta alla piccola porta nord della cappella. In mezzo al prato sassoso, punteggiato da  radi alberelli,  un’arca funeraria di granito senza coperchio e in parte rotta su di un lato, a destra oltre il muro scorre il Tavora. L’impressione è quello della solitudine, solida solitudine della roccia, quella di un eremitaggio cercato e assoluto: il solo rumore del fiume che scava la roccia, la sola compagnia del sibilo del vento che lambisce la roccia, il solo aiuto della pioggia che imbibisce la roccia, la muta forza di gravità che logora, fa crollare la roccia e i pinnacoli di calcare che incombono sopra la nostra testa. 
“lascia che la  sola roccia sia il tramite tra l’uomo e il sovrannaturale”  mi continua a dire il Monaco Anselmo dell’Abazia Cistercense di Casamari, nella nostra Ciociaria.
Faccio il giro della chiesa e ritorno nel pertugio. Le fiere si sono accucciate, sono rientrate nel granito, i loro lineamenti smussati dal tempo e dall’attesa non graffiano non mordono, gli animali sono mansueti come il lupo di San Francesco. Ma basta un giro della Ermida per cambiare la faccia della roccia, o della storia, o basta un giro dell’Ermida per cambiare io. 
E l’entrata da nord dell’Ermida cosa mi dirà. Quella nord quella di solito meno didascalica, meno paurosa, accomodante e salvifica,  come sarà, sarà abbastanza aggraziato l’Agnus Dei, l’agnello del sacrificio? So che è li scolpito a grande rilievo sul timpano, incassato profondamente tra il massiccio e liscio architrave e l’archivolto sporgente scolpito e scritto, della piccola entrata del nord.  Sull’archivolto forse la percezione di faccette triangolari, demoniache che mi guardavano dall’alto, forse il fluido ventre della Sirena sul capitello di sinistra. Ecco di nuovo quella voce  strana, roca, la voce di Jenny, prima Bruxa, ora Sirena e indicatrice di via. Andrò alla entrata nord, più tardi, ora sto appoggiato con la schiena alla roccia ad osservare il portale ovest. I capitelli, i fregi e gli animali scolpiti sopra i capitelli, le figure dell’archivolto sono molto deteriorati dal tempo e forse anche dalla stupidità della gente. Le facce dei leoni quasi non si riconoscono più, le linee sono smussate e gli spigoli omogenei. Ora la mia contemplazione è pace e tranquillità, non ci sono spigoli, gradini, discontinuità nella mia mente e nella mia percezione-visione di quelle rocce scolpite, di quelle rocce con cui è costruita l’Ermida, di quelle rocce che compongono la gola del fiume, del fiume stesso che, dell’aria, del cielo, di tutto quel mondo.
“lascia che la  sola roccia sia il tramite tra l’uomo e il sovrannaturale” 
E sia. Fermati, pellegrino: sdraiati sulla roccia e avverti le sua essenza penetrare nella carne del tuo corpo, guarda, ascolta, annusa, percepisci attento ogni cosa. Ora lo puoi fare. Fermati. Dormi pellegrino sulla roccia. Fermati, rimodella i tuoi contorni, la tua forma i tuoi limiti, ripensa a te stesso, anzi lascia te stesso pensare a te stesso in libera autonomia e libertà. Dormi come l’eremita di mille anni fa in questo pomeriggio di settembre lontano 2400 chilometri da casa. Dormi Pellegrino hai fatto tanta strada. Sei ora arrivato alla tua meta.
Ma il sonno non può durare.
Mi sveglia il mio maestro, ancora José Saramago. Mi dice abbastanza arrabbiato e brontolone come sempre:  ecco come trattano i monumenti in questo Portogallo di oggi, l’Ermida è chiusa……. devi andare su a Granghinha a prendere la chiave. Ce l’ha una “rapariga” che abita all’entrata superiore del villaggio, precisamente alla terza casa a destra della strada principale che conduce alla chiesa, non puoi sbagliare la casa la riconosci dalla porta “vermella”.
Vado in paese, le indicazioni del mio maestro sono perfette, solo che la ragazza  “rapariga” ha l’età di mia madre. La sorprendo in un’ampia terrazza prospiciente all’entrata di casa subito varcato il cancello “vermello”. E’ li con la figlia, il marito ed una amica. E’ la solita festa: 
- da dove viene il Signore? -
- Vengo dall’Italia. -
- Il signore parla strano per essere un italiano, da come parla il signore sembra essere un brasiliano. -
La “rapariga” mi da la chiave di ferro, grande almeno una trentina di centimetri, pesante. Riscendo alla Ermida, Saramago non c’è più, lo sapevo, mi tortura e poi se ne va chi sa dove per le sue elucubrazioni. E’ arrivata comunque altra gente, una giovane coppia di turisti portoghesi.  Apro la porta dell’entrata nord. L’interno è buio, spoglio. Le foto sono troppo lontane e i capitelli vengono solo sognati e avvicinati dai lampetti insulsi della mia fotocamera digitale giapponese. Presto poi devo dissolvere l’equivoco in cui erano caduti gli altri turisti che avevano continuato a chiedermi cose sulla Ermida. No non sono il custode o la guida della Ermida, sono solo un turista che ha trovato la chiave su in paese.
E’ sempre pomeriggio, corro con l’automobile verso sud-est attraversando il Planato della Beira Superior verso Trancoso. 
Le tre faccette  scolpite sull’archivolto saranno state quelle del Demonio? Veramente il diavolo, o lupi o gatti? La Sirena del Capitello di sinistra sarà stato il Basilisco?  Tre diavoli e il Basilisco (o peggio) attorno all’Agnello di Dio?  

 

CHI E’ BANDARRA?

Nella piazza della Camara Municipal di Trancoso, sotto la statua di bronzo di Bandarra c’è una statua con su scritto “poeta”
Sonhava, anónimo e disperso,
O Império por Deus mesmo visto,
Confuso como o Universo
E plebeu como Jesus Cristo.
Não foi nem santo nem herói,
Mas Deus sagrou com Seu sinal
Este, cujo coração foi
Não português, mas Portugal.

 

LOUROSA

Questa Beira mozaraba è imboscata e  silenziosa ma non sfìgata e sgarrupata e come me la aspettavo. Il paese è piccolo, con le case basse e dal bianco vecchio e scrostato del Portogallo solitario e umido. Ma la sorpresa più grande è che ho scoperto che i mozarabo non sono espressione del passato, non è un’idea della storia. Da Lourosa i mozarabi non sono mai andati via sono ancora li che si riuniscono prima della messa nelle loro assemblee pubbliche presiedute dal parroco magari ora sono i problemi di cc ma allora.  I mozarabi sono quelli che stanno parlando davanti e dentro il Cafè Cruizero, si sentono anche voci di donne, non solo voci di uomini come nel Portogallo del Sud o come nel Portogallo del Nord. Sono mozarabi quelli che passano piano con il Pik-up con il cassone di legno, e quelle signore alle quali ho chiesto l’ora della messa.
La chiesa di immancabile granito, situata in mezzo al villaggio oltre lo slargo del pelourinho su cui è ricavato anche il parcheggio per il parroco “P – 1 LUGAR – Pàroco”,  la fermata dell’autobus con la panchina coperta per proteggere i viaggiatori dalla pioggia, e sono presenti le bacheche per le informazioni turistiche e gli avvisi pubblici:
IGREJA DE SAO PEDRO (MOÇARABE),
  CAPELA DO ESPIRITO SANTO,
CAPELA DE SANTO ANTONIO,
CAPELA DA S.RA DA ESPERANÇA (ALDEIA DE POMBAL),
CRUIZERO,
FONTE VELLHA,
CAPELA DE SAN JOSÈ, (ALDEIA DE MEDA),
CAPELA DA NOSSA SENHORA (ALDEIA DE CABRESADAS),
CAPELA DA SANTA APOLONIA (ALDEIA DE CASAL DE ABADEL),
CAPELA DE SANTA LUZIA (ALDEIA DE XXXX)……

QUEJO DE SERRA.

EDITAL – IDENTIFICACAO ELECTRONICA DAS CAES
SERVICO SOCIAL - ORARIO

La chiesa mozaraba ha pianta basilicale con un ampio e chiuso protiro al portale occidentale. Non ha finestre ma  alcune feritoie che fanno entrare la luce, solo una alta e sottile bifora sopra l’abside principale e un’altra uguale al lato occidentale. E’ la prima volta che vengo, è domenica mattina, la porta principale occidentale è sprangata, una porticina di servizio sul transetto nord è aperta. Dentro c’è una signora che sta preparando per la funzione del pomeriggio, alle 16.00, invece che alla mattina, oggi ci sarà la “cerimonia speciale”. La signora accende le luci interne, posso stare tranquillo per molto tempo, lei prepara le sue cose io osservo l’interno della chiesa. La chiesa è divisa in tre navate che finiscono a oriente in tre absidi con quella centrale più grande e più alta. Tra le absidi e il breve transetto a croce latina dovrebbe separare  la zona del celebratore dalla zona dell’assemblea sono poste tre statue della Madonna, sotto l’abside centrale la statua del Santo e e nell’absidiola a sud una Pietà. Ci sono ben  tredici archi mozarabi, sorretti da colonne di granito poste su un basamento semplice di altrettanto granito, i capitelli sono semplici listelli di roccia sovrapposti che si allargano verso l’alto, nessuna scultura nessun animale, nessuna iconografia nulla solo la semplicità della roccia. Aleggia nell’ambiente l’odore tipico che amo di queste rocce granitiche e umettate di umidità, permane un’aura rude e rugosa, le stesse panche per l’assemblea e le sedie e le suppellettili di tutta la chiesa so no di legno essenziale semplice legno di carpenteria alla buona. Nella navata nord, verso il lato occidentale sta in piedi una lavagna scolastica dal piano di un colore verdino e anche lei costruita di legno. Tra la lavagna e il fondo occidentale il pavimento è interrotto da buche e scavi, resti di vecchie sepolture preesistenti alla costruzione della chiesa e in relazione alla fonte battesimale. Sul protiro sono appoggiate dei graniti scolpiti alla maniera visigotica con volute, spirali, fiori, quadri, picche, cuori,  una croce a quattro braccia uguali 


CATATONIA
(attendendo l’imbarco)

Oreillas de Porco, aceitunas, sardinhas marinadas,  polvo
quejo de cabra
perna de porco
Vinho tinto reserva dell’Alentejo
Moscatel de Setubal.
Non propriamente una cena ascetica, ne mozaraba, ne conventuale al Convento do Desagravio. Forse mi ha creato dei problemi o forse doveva andare così. 
Al mattino scendo per la colazione ma il bacon  e le uova sono irraggiungibili,  tutto è irraggiungibile, il succo d’arancia, lo yogurt, perfino i biscotti secchi e il semplice te al limone. Scappo di sopra in fretta. La febbre alta e una catatonia invasiva  mi costringono alla immobilità, a letto. L’antipiretico fa poca cosa. Mi telefona la ragazza della reception se può mandare la cameriera a ritirare le camicie da lavare e rifare la stanza.
Va bene per le camicie, che venga pure ma bisogna che stia tranquillo in camera.
Dormo. Verso mezzogiorno mi immergo nella vasca e abbasso la temperatura a livelli ordinari, dormo di nuovo fino alle 17 scendo  per un semplice te al bar con molto zucchero. Ettore si cura di me 
- no biscotti no, è meglio di no. –
E ancora.    
- Si va un poco meglio grazie. -
C’è anche una coppia di spagnoli di San Sebastian, Spagnoli o Baschi non so, parlano in castigliano. Stanno leggendo delle riviste e davanti ad un te con una ricco vassoio di biscotti e pasticcini da te. Vorrebbero parlare, mi chiedono come si dice te in portoghese, ma la mia faccia da pesce lesso e le mie catatoniche risposte li fanno desistere. Non ho voglia di nulla, mi fa male il collo. Torno di sopra, trovo le camicie lavate e stirate, la camera rifatta, le cioccolate sul cuscino scoperto e pronto. Più tardi ragazza della reception mi telefona.
- “Come va senhor Agostini” –
- “Abbastanza Bene grazie” -.
Scende la notte dai cipressi davanti alla mia terrazza e oltre la mia grande finestra, scende la notte dietro i prati e le montagne delle Beiras, senza che io abbia visto nemmeno l’arco del sole disegnato sopra tutto quel mondo. Perché questo giorno di catatonia, la macchina ferma giù nel parcheggio, Il cuore delle Beiras che mi aspetta: cavalli di marmo, treni sbuffanti nella bruma mattutina, matti, somari, lupi, montagne, foreste, quadri, azulejos, sorgenti, fiumi, la pioggia, l’arcobaleno, mi girano intorno e io steso su questo letto per un giorno intero come Curzio di Conrad in Cuore di Tenebra che aspetta l’imbarco.
Io aspetto l’imbarco per il cuore delle Beiras.

 

Il CUORE DELLE BEIRAS

In vano puoi cercare il cuore delle Beiras turista che vieni dall’Italia e ti ritieni un conoscitore della terra lusitana.
E’  forse Oliveira da Ospital, cittadina sfuggente e riservata, antica sede dei guerrieri Ospedalieri?  Non sono riuscito a vedere la scultura del cavaliere del XII secolo conservata dentro la piccola chiesa parrocchiale. La prima volta la chiesa era stracolma  di fedeli per la funzione e per la celebrazione dei riti della prima comunione tanto che c’era una gran quantità di gente tirata ed  elegante anche fuori sul sagrato. La seconda volta la chiesa parrocchiale era irrimediabilmente chiusa.
O è forse la strada per Nelas da Oliveira da Ospital con l’incontro del signore anziano con la camicia a scacchi grandi e il bastone che camminava piano e arcuato sotto la pioggia che stava per terminare e la luce del sole che stava per ritornare a splendere sull’asfalto lucente e nero? L’aria intorno era fresca, appena nuova, il signore aveva il cappello in testa e il portamento e i modi di mio nonno Enrico. Ed è strano e singolare che ancora una volta mi si creano collegamenti con la mia infanzia in questi luoghi portoghesi e in questi strani limes di spazio e di tempo,  in questi lampi, di non ordinarietà. Il Portogallo mi riporta  di nuovo indietro nel tempo, mi fa tornare bambino.
E’ forse Nelas il cuore della  Beira antica e arcaica? A Nelas non ci sono i lupi a bolinare e a terrorizzare gli animali. L’asino cammina lento e tranquillo, davanti al carretto dalle ruote di gomma, nella via in debole discesa verso la stazione. Continua fino in fondo, lo seguo un poco a piedi, poi mi fermo e con lo sguardo vedo scomparire le sue orecchie verso la sinistra della piazza.  Mi siedo su una panchina di legno bagnata, mentre attorno a me due operai del comune stanno riparando senza fretta e con molte chiacchiere le classiche pietre bianche e nere del marciapiede. Hanno un antico trattore Massey Ferguson con attaccato un carretto di metallo con tanto di scritta “Camara Municipal - Nelas”. Ogni tanto battono le pietre con una sorta di mazzabecco costruito con un manico di vanga infilato in un pezzo di tronco d’albero, ogni tanto danno una passata di acqua e spazzolone. Arriva  un pompiere che si ferma a parlare:
- O governo…. 20.000 euros, 16.000 euros -
La stazione di Nelas ha azulejos vecchi e sbeccati, ma anche panchine postmoderne e cestini per i rifiuti di acciaio inossidabile, fuori c’è già movimento di corriere per Viseu,   alle 11.13 arriverà l’intrecidade Lisboa-Guarda, il capostazione lo ha annunciato per altoparlante. Non è più quello con i sedili di legno che ha preso il giudice istruttore. Il locomotore è elettrico di un bel colore arancio e le carrozze di metallo argentato come quelle dei treni americani, le porte si aprono e si chiudono con l’aria compressa che sibila leggermente tra i pochi passeggeri che scendono e che salgono. Il treno se ne va, se ne vanno i passeggeri scesi, rimane il popolo della stazione: Un signore che borbotta con il capostazione, l’altro con la faccia un tantino stranita da “ragazzo matto”, altri con ombrelli vanno e vengono continuamente dal bar e poi il cane giallo (emblema del Portogallo).
Tra poco passerà anche l’inetercidade Guarda-Lisboa. E’ gia arrivata una signora che aspetta il treno in piedi sul marciapiedi con una eleganza urbana. Da come è vestita sembra addirittura di Lisboa. Non è che gli abitanti di Nelas e della Beira Alta siano antichi, arcaici o venuti dalle brume del passato, ma la gente di fuori si nota. La signora ha scarpe bianche, occhiali da sole, un morbido cardigan di lana chiara e borsa a tracolla mentre la gente di qui ha il cappello, la camicia bianca, la giacca scura e i pantaloni scuri e l’ombrello.
La grande città di Viseu é capitale della Beira Superior,  cosmopolita, con il Rossio alberato e allegro di uccelli e persone e begli azulejos, con le vie con la pavimentazione a piastrelle bianche e nere, ortogonali di negozi, banche, uffici che sembra una piccola Lisbona. Si sale anche sulla collina a Viseu, per stradine contorte e anguste fino alla sommità dove si allarga il grande “Andro da Sé”. Granito massiccio per la cattedrale e il museo Grao Vasco, granito per il pavimento e le altre costruzioni, ovunque granito, granito, granito….. me lo hanno sempre detto: è la roccia più comune della crosta terrestre. Ma Viseu non è solo scura della sua roccia che, è colorata anche di verde e rosso e giallo delle bandiere portoghesi che popolano finestre, balconi. Sono attaccate ai fili della corrente elettrica, ai lampioni. Ci sono decine e decine di bandiere per le vie della città, sembrano li da parecchio tempo, è la prima volta che noto questo fervore patriottico in Portogallo, saranno i passati campionati europei di calcio? Sarà una festa importante di Viseu? O la guerra in Irak. Il museo Grao Vasco è dedicato al più famoso pittore del 500 portoghese Vasco Fernandes detto appunto il Grande Vasco.
E se fosse Vouzela il cuore della Beira con la sua splendida luce radente sui lapislazzuli degli azulejos della chiesa e del campanile senza nome che mi hanno accolto sulla strada o la decadente località termale di Sao Pedro Do Sul al bordo del fiume Vouga. Ovunque vecchi che dormono al sole, seduti su semplici sedie di alluminio davanti agli stabilimenti termali, vecchi che affollano le piazze del paese, vecchi a mollo nelle piscine dei centri termali e alberghi, vecchi che passeggiano sui lungofiume ombrosi, enormi gatti bianchi appollaiati sui tetti che si fanno fotografare senza storia. Sao Pedro do Sul è un posto tranquillo, appartato, incassato in fondo alla valle del fiume, l’acqua calda esce da una faglia profonda nel granito a 70 gradi centigradi, vi sono disciolti elementi indicati per il trattamento delle malattie reumatiche e respiratorie.
“Tive séde e vim beber à fonte de S. Martinho; desde entao, para te ver, nao procuro outro caminho »
« mas ao ver-te, a sede passa, ja nao tenho de beber, pois a sede, que eu sentia era apenas de te ver”
La sintonia dei portoghesi con le all’acque di sorgente e le acque termali è singolare. Ognuno ha la sua acqua di elezione perché ogni acqua diversa. Ognuno ha il suo centro termale. In tutto il Portogallo, data anche la sua struttura geologica, ci sono centinaia di sorgenti di acqua minerale, oligominerale e sorgenti termali diverse sia per composizione e per temperatura. Mi piace questa idea della importanza dell’acqua e anche  quella di una personalità dell’acqua e frequento con interesse e i centri termali e le sorgenti del Portogallo ma anche a casa, in Italia.


AVEIRO

E’ costruita al bordo di una grande laguna ed è attraversata da canali, in questa sera fredda e  ventosa non c’è tanta gente in giro, il centro è raccolto tra la ria maggiore e la chiesa massiccia e scura verso il cielo nero e ventoso. 
La churrasqueria è proprio sulla ria. I gestori sono essenziali, pragmatici e un tantino burberi ma il cibo è molto buono e cotto proprio li sulla brace a legna. Il locale è alla buona,  con la classica televisione impiccata in alto, da qualche parte, che trasmette la partita di calcio del F.C. Porto con una squadra estera. I clienti è quel misto di portoghesi di mezza età per lo più soli o in coppia e gruppi più giovani, una tavola di cinque inglesi  e portoghesi. Ordino cherne grellado e intanto che me lo stanno a preparare due metri più in la mi vengono serviti, assieme al solito antipasto di olive, burro salato e acciughe, dei bellissimi e floridissimi  gambas ao alho. Sono li sulla terrina bianca, hanno un aspetto meraviglioso: bel colore vivo, sodi e pieni, giustamente arcuati e addossati tra loro, immersi in parte nel loro condimento e in parte intimamente legati alle rotelline di aglio, ai granelli di pepe dall’olio. Mi avvento con gusto e eccezionale voracità sui gamberi. Apro i teneri carapaci con le dita, ad una ad uno, con devozione e attenzione, e mi porto alla bocca i gamberi in un tripudio di rumori, umori, sapori, odori e vapori………….  È una vera festa per il corpo e per l’anima. Un degno ritorno al cibo e alla vita normale dopo l’arcana catatonica assenza di ieri. Il pur ottimo e guarnitissimo cherne grellhado non raggiunge la metafisica dei gamberi.
Subito dopo cena compro un profumo per mia moglie, con le mani che ancora sanno di gamberi all’aglio. Il Burberry whek end  non è forte, ha una tono leggero, aereo, non è un sufficiente antidoto ai gamberi. Le due giovani commesse della profumeria, sono abbastanza stranite da questo cliente, che parla male il portoghese, che sa di aglio e un tantino imbranato tanto da sbagliare scatola.
- ma il signore è proprio sicuro di voler acquistare il latte  detergente? - 
- nao, desculpe, preciso de eau de parfum  -
Mi vanno a prendere la confezione giusta e mi chiedono anche se mi serve un pacchetto per un regalo.
- nao, nao preciso. Muito obrigado.- 
I negozi continuano a rimanere aperti, compro anche un blocco di fogli per scrivere lettere e mi soffermo davanti la vetrina di VISTA ALEGRE le mitiche porcellane del Portogallo. Sono stanco della mia tazza per il café  che mi ha regalato il mio libraio. Non si può più bere il café d’orzo su una anonima tazza fatta costruire chissà dove, magari in Cina, chissà con quale argilla, da un editore e regalata da un librario. Che sia Vista Alegre dunque, ma preferisco non entrare con la mia pervasiva presenza di gamberi all’aglio.

 

PIODAO
(appuntamento con la metafisica…….la luce sta passando)

La strada che passa per Arganil  è lunga, dopo Cuja abbandona il fiume xx e sale per belle vegetazioni ma di repente attraversa  lande pelate e scabre. Strana questa serra dos açores, montagna degli astori, si sale senza accorgersi del dislivello percorso, sembrano delle false montagne ma da sopra,  le valli e le strade bianche che ne percorrono il fondo, le case , in basso si fanno piccole e il paesaggio si allarga verso l’ovest, di nuovo basso boscoso fino al mare. Ad est risultano altre e più alte creste calve, simili a questa che continuano fino alla Serra de Estrela, quanto mai lontana o inesistente o assente. Anche questa volta la Serra da Estrela la madre di tutte le montagne del Portogallo mi risulta mitologica, è l’occasione che mi ha permesso la maggiore vicinanza, ma queste montagne non ci sono. Sarà anche  lei  La montagna delle Stelle una montagna finta o una montagna strana. Del resto l’ho sempre saputo. Il Portogallo non è una terra di montagne,  e  non per me e per la mia storia universitaria e il mio passato interessamento all’alpinismo. Ma non si  dia il voto al Portogallo per l’estetica delle sue montagne. Si sa Il Portogallo è un luogo di mare…. Ora la strada, strettissima e ardita percorre il bordo di un altopiano dall’aspetto brullo e freddo, ogni tanto sorgenti a cui la gente attinge acqua con damigiane che poi porta a casa e usa con amore e devozione. I Portoghesi sono fissato con le terme e l’acqua minerale.
La strada è fredda,  lenta e lunga.
L’incontro con il metafisico a Piodao deve essere programmato e organizzato considerando il tramonto del sole e il periodo dell’anno, bisogna essere li nel momento giusto, quando la luce folgorante del tramonto la colpisce e la accende. Piodao sorge sul versante est della  testata di una valle fluviale, profondamente incassata nella serra degli astori. Vi si può arrivare più agevolmente dal basso o, se si è pipicchiotti (come me), dall’alto valicando proprio la testata della valle.
Arrivo con un poco di ritardo all’appuntamento. Scendo con qualche minuto di ritardo dall’altissimo monte terso e pelato che funge da passo verso ovest e da generatore di luce per Piodao, la luce sta attraversando il paese. La tempesta di luce occidentale, compatta, viva, solida, radente, spazza veloce, dal basso all’alto, la scurissima montagna di scisto e i neri conci piatti gli scisto con cui sono costruite le case del paese e la nera lucida ardesia con cui sono costruiti i tetti del paese.  Illumina quel luogo in maniera insolita, sfacciata, assoluta, sarcastica, inebriante. Lo rende fulgido, entusiasmante e orientale nei suoi colori di vivissimo azzurro dei lapislazzuli persiani o afgani, tanto da farti tornare magari in Ladak tra muri di preghiera e fiori azzurri di zafferano e orecchie e occhi e bocche spalancate dallo stupore, e  abbacinante nei fulgidi e madreperlacei iridescenti dei bianchi, le finestre riflettono le migliaia di fiammelle di una luce turibolante  e pregna di significati ammonenti  come un vetro lavorato, le semplici grondaie e discendenti  diventano linee di metallo incandescenti e vibranti che ti stanno a dire, gli insignificanti fili delle antenne televisive diventano delle guizzanti sensazioni che ti punzecchiano la curiosità e l’interesse.
Il raggio sta passando e io sono ancora in macchina.  Quando scendo al parcheggio, il raggio è sopra il paese e sulla montagna senza colore. E’ domenica, non c’ è più nessuno, il raggio è passato, il paese è ritornato macchia scura sullo fondo del monte scuro, sulla piazza che dove si aprono le vie pedonali che conducono alle case e la scalinata che sale alla chiesa, rimangono orecchie e bocche e occhi spalancati, bocche ancore spalancate dallo stupore  ma che non attendono più i compratori del solito ciarpame per i visitatori, ma sono ancora li e stanno su quel limbo temporale di chi sta per smontare, senza entusiasmo, anzi con noia, la bancarella o il negozio, o il piatti o i cestini appesi al nero scisto, in una domenica di settembre sottotono che sta salendo velocemente  verso la cima della montagna.
Entro tra le case, arcigne e scure, si sente addosso un  fascino arcaico ruvido e scuro di una caverna scavata nel carbone. Le case alte incombono sulle vie e sulle scalinate che circondano le costruzioni in pertugi e anfratti senza forme, si e costretti a percorso tortuosi con ripide scalinate in salita e deviazioni sul piano e quindi ripide discese, ci si muove sempre calpestando la stessa roccia scura, sentendo con la pelle la stessa roccia ruvida e fredda. Le costruzioni sono addossate le une alle altre, alte massicce e rocciose come soldati impettiti che fanno la scorta alla montagna, come le carte da gioco e seguono la linea della montagna, la raccordano nella forma nel colore e nella materia in un integrazione parossistica e omologante che la gente per trovare una via d’uscita, una liberazione,  ha dovuto escogitare il trucco del colore azzurro con cui ha pitturato tutto quello che si poteva pitturare. Porte, finestre, contatori dei servizi, pali, lampioni ecc. Per non impazzire nella roccia scura, per non ritornare roccia scura, hanno inventato in questa carbonaia un colore insolito: l’azzurro vivo.
L’unica costruzione a non essere della nera roccia è la chiesa che risalta, assolutamente bianca, come altra via di uscita dall’ordinario verso il metafisico.  
Molto è nuovo e messo a posto, il resto è in costruzione, i fondi della Comunita Europea e del governo portoghese per i villaggi storici sono cospicui. Il risultato si vede come si era visto prima per Monsanto, Sortelha e per le altre aldeie historiche, anche Piodao appare nelle ultime guide del Portogallo, nel capitolo Beiras, di solito un capitolo striminzito, come un posto col bollo, o con la faccetta allegra, insomma un posto da non perdere. A queste topografie non ci sono ne spiagge ne fiumi ma sotto il paese nella forra del torrente si sono fatti dei lavori per la creazione di una spiaggia fluviale. E una fissa di tutti i paesi di questa parte del Portogallo se non  hai la spiaggia fluviale non vale.

 

COIMBRA
(branca….Araba… Africana)

E’ la seconda volta che passo da Coimbra, l’altra volta ci siamo stati con il treno e avevamo i bambini piccoli che facevano tenerezza. Al mercato ci regalavano frutta e formaggio, agli incroci la gente gli accarezzava la testa. Questa sarà una visita veloce. Voglio ritrovare la Cattedrale Vecchia e magari una scritta in arabo di uno scalpellino che ha inciso il suo lamento di dovere edificare una chiesa piuttosto che una moschea o solo il suo chiostro erboso e musicale di acque che scorrono dietro  ai muri giù dalla sommità della collina. O magari solo riconoscere i risalti  mozarabi di questa capitale del Portogallo al centro di una zona dove per molto tempo i mozarabi hanno prosperato e pervaso della loro cultura questa terra di mezzo. La pianura del Mondego, le lagune vicine alla sua foce e le valli dei suoi affluenti sono state sempre ricche di acqua  e ben irrigate  hanno garantito dalla preistoria il sostentamento di comunità stanziali, solide e tradizionali, diciamo di tipo “mediterraneo” poco inclini ai cambiamenti, che hanno sempre resistito alle culture degli invasori e dei nuovi variabili padroni, dalle legioni romane, alle carovane dei popoli del nord. All’arrivo degli arabi dall’Africa, nell’ottavo secolo, la popolazione cristiana negoziò una eccezionale autonomia religiosa e civile e amministrativa. All’arrivo dei cristiani di montagna dal nord, nel dodicesimo secolo, queste culture comunque islamizzate da quattro secoli di storia, mantennero la loro caratteristica “Mudejar”. Gli stessi cristiani armarono violente rivolte urbane per mantenere le tradizioni liturgiche mozarabe invece che adottare la liturgia papale di Roma come da disposizioni del nuovo re del Portogallo. In città e nelle valli orientali, più nascoste e protette, ancora oggi la popolazione è legata a tradizioni “mediterranee” e islamiche, dalle abitudini alimentari, al nome dei luoghi, Mouronho, Arrifana, Almaça, Almalagues, Alfarelos, Abrunheira. alla produzione tessile e alle tecniche costruttive. Insomma Coimbra e la sua zona è un Portogallo di mezzo tra nord e sud, un Portogallo ad alta isteresi storica, vischioso, critico, che reagisce al nuovo, un Portogallo che sta contro. Un Portogallo che media, unisce, mischia, contamina, imbastardisce ………Che Coimbra sia poi la sede più importante per la cultura portoghese possa significare qualcosa di più.
Non ho trovato solo i risalti grigi degli archi mozarabi e i modiglioni e le alfiz e i fregi marroni scolpiti sulla tenera pietra di Ança attorno alle finestre e alle porte delle case  ma i bianchissimi ed estesi calcari, marmi, candidi degli arabi di Africa. 
La restaurata e bianchissima facciata della Chiesa di Santa Cruz  cesellata nel marmo dal Chanterene nel 1500 a colonnine, pinnacoli, statue, archi, archetti, lesene, finestre, guglie e gugliette, respira un’aria nuova e fa respirare una nuova aria cosmopolita e di attesa di nuovo.  Dentro, la relativa oscurità e i sepolcri del primo re del Portogallo Afonso Enriquez e di suo figlio il Re Dom Sancho I° mi fanno tornare di nuovo indietro. Esco, di nuovo agli zampilli della fontana, alla luce bianca del Mediterraneo, dell’Africa.
Fuori ho trovato il suk dai vicoli stretti e ombrosi dove si aprono decine ristoranti, tasche, taverne, negozi, rivendite, di improbabili mercanzie, con prezzi ancora in escudos o diram, tra bancarelle, gatti e cartocci di cibo per gatti e signore che danno da mangiare ai gatti,  verande, tende, tendalini, in mezzo alle case dai balconi aggettanti dai quali drappeggiano ovunque lunghissimi panni stesi, e  alte dalle facciate decrepite, bianche e  scrostate, e tappezzate sui balconi di ferro e alle finestre da mille insegne che gridano il loro messaggio evidente e chiaro. “O Jaime - ponto de incontro - bons vinhos e petiscos”, “café, alomços e jantares”,  cliniche oftalmiche “doenças dos olhos – cirurgia – lentes de contacto” cliniche dentarie “consultorio e laboratorio - odontologia e pròtese dentaria”, “lab. MESQUITA LDA anàlises clìnicas” (lab. LA MOSCHEA S.R.L. – analisi cliniche), laboratori di radiologia “raos X”, “ouvidos, rariz e garganta” (orecchie, naso e gola), parrucchierie, tintorie,  coronate di centinaia di antenne televisive e parabole satellitari e cavi e fili elettrici.
Ho trovato una città brulicante di vita africana, scolpita, cesellata, contorta, avviluppata su di se, umanamente caotica, sovrapposta  COIMBRA… BRANCA… ARABA.   Continuano a ripetere i miei appunti. Coimbra caotica di traffico e di vita moderna, gente giovane e bella. Coimbra medievale, bianca, africana, araba, e questa la sensazione. non un pensiero ne un passaggio culturale.
La cittadella, la Medina, dalla porta di Almedina fino alle scale che conducono allo slargo della Se Vellha e ai pertugi che salgono fino al palazzo reale, ora sede dell’università,  è una città africana, bianca di calce scrostata, piena di fiori odorosi di gelsomino fuori delle porte, con il bianco e le scalinate consunte e  negozi antiquati di materiale elettrico e i cessi a pagamento gestiti dalla signora rintanata nel suo cubicolo che ti chiede trenta centesimi. 
Ho trovato anche la città che si oppone, la città “CONTRO”. La Coimbra delle “repubblicas”, delle residenze degli studenti, o se volete degli studenti stessi, dall’aspetto ricercato di una presa di posizione altera, superiore, contro tutto e tutti definito dalla loro elegante divisa completata dal mantello nero o, il che è lo stesso, dalla loro trasandatezza, dalle erbe che infestano i muri decrepiti  e i tetti delle loro dimore e dall’umido che cola sulle pareti al pari della contrarietà alla politica del governo di Durao Barroso, alla guerra in Iraq, alla guerra in genere. Scritte, disegni sui muri, sedie, vecchi lampadari attaccati sopra i vicoli ai cavi elettrici, segnali stradali di divieto impiccati che dondolano inutili al di sopra delle strade.  Un mondo a parte, teorico, visionario, fatto di cultura umanistica, di scienza, di nodi della rete telematica, di cardiochirurgia famosa nel mondo, di slanci puerili, di terzomondismo socialista mai abbandonato (se ci fosse Saramago sarebbe contento). Un mondo a parte, confusionario e variegato, approssimato e incostante ma attento, ricettivo vitale, intricato, ramificato, compenetrato elettricamente e culturalmente e storicamente con l’altro mondo, con gli altri mondi dell’Africa, dell’Asia, dell’America del Sud. Un mondo a parte che anche senza volerlo è il tramite saldo tra la nostra rinnovata “ortodossia occidentale” ed il resto del mondo passando per forza tra i suk e le medine.
Ho trovato Coimbra, per la sua spiccata caratteristica di città africana, un luogo di perfetto incontro tra Africa ed Europa,  tra noi e loro, tra cristianesimo e islam,  non a caso il centro del mozarabo portoghese è in queste valli tra il Mondego e i suoi affluenti, non a caso Nel monastero di Lorvao è conservato un Beatus e il Monastero di Lorvao era perfettamente mozarabico prima che la solita cancrena della furia architettonica lo modificasse a canoni moderni e lo conducesse alla fine a diventare un ospedale psichiatrico come altri monasteri che potevano avere una sorte migliore. La psichiatria in Portogallo e nemica della storia e dell’architettura. 


BUSSACO
(il richiamo dell’ Oceano)

Oggi sono arrivato presto in albergo, anche perché Il Palace Hotel do Bussaço è l’oggetto della visita ……..
Sono stato costretto anche dal mio maestro di viaggi Jose Saramago, che lo considera come un tempio mefistofelico della borghesia senz’ossi del mondo intero che dal lusso di quelle stanze e da quelle situazioni di prepotenza succhia il sangue a tutti proletari del Portogallo.
Sono anche stato costretto da tanta letteratura di viaggio di tutto il novecento che ha sempre considerato quest’albergo un albergo eccezionale.
- Dietro i merli contrassegnati dalla croce di Cristo, i doccioni, i pinnacoli si aprivano camere spaziose, che bagni ampi e freschi rendevano ancora più grandi e nei quali il comfort di fine secolo moltiplicava i rubinetti, i sanitari, gli specchi lavorati. Il mobilio era di pino americano o di rame, come richiesto dal buon gusto inglese che imperversava persino nel cuore della Russia. Naturalmente c’era ovunque la corrente elettrica. – (TCI)
Il Palace Hotel di Bussaco fu fatto costruire dal re del Portogallo nei primissimi anni del 900, al centro della “mata national de Bussaco” della “foresta nazionale di Bussaco” già luogo singolare ed eccezionale dagli inizi del 1600 quando i carmelitani si impossessarono di questa costiera di colline, già sede di eremitaggi, per costruirvi un monastero e impiantavi una grande foresta anche e soprattutto con piante esotiche importate da tutto il mondo portoghese di quel tempo. La foresta divenne tanto importante e famosa tanto che il Papa Urbano VIII nel 1643 decretò che chiunque avrebbe fatto morire una pianta di quella foresta sarebbe stato scomunicato.  Questo rispetto religioso e maniacale per la foresta è rimasto ancora.  Un alto muro ne circonda il perimetro e quattro varchi possibili hanno orari precisi, sono vigilati e le entrate a pagamento.
L’albergo sembra una Torre di Belem e il Convento di Cristo di Tomar assemblati insieme, traforati da mille aperture e da una complessa e ridondante simbologia neomanuelina, compresa una poderosa sfera armillare in cima all’ardito campanile-torre,  e  impiantati in mezzo alla foresta.
Gli spazi interni sono monumentali, ricchi, ricchissimi di volute, colonne e colonnine, intarsi, statue e sculture. - le sale di rappresentanza sono ampie come piazze d’armi (TCI)

Il grande scalone che sale al primo piano à inondato da una rifulgente vetrata  colorata che illumina giganteschi azulejos con scene eroiche di conquiste e vittorie navali. Le porte bianche delle stanze si aprono su lunghi corridoi dai tappeti di velluto rosso, la sala da bagno è rigorosamente rivestita dal più chiaro e saccaroide marmo di Estremoz.
- La sera, quando l’albergo si illuminava dall’interno come una immensa lampada di alabastro fra le tenebre odorose della foresta, era bellissimo. Sotto gli scialli si rabbrividiva appena. Nelle notti di luna ci si avventurava a piedi sino alla porta di Coimbra (TCI)-


Esco dall’albergo e mi sorprende  proprio li davanti, prima di una fulgida aiuola a fiori rossi illuminati dal caldo sole, una imponente, isolata, massiccia Araucaria del Brasile. Vado anch’io alla porta di Coimbra, un varco pedonale in fondo al viale ombroso che finisce con un triplo arco a strani mosaici a tessere bianche e nere che raffigurano piante in vaso e figure geometriche e due targhe con la scomunica del Papa, oltre e un grande piazzale erboso e quindi il muro e la pianura occidentale. La porta di Coimbra è un balcone verso occidente,  un  invito.
Vago incantato dentro la foresta per sentieri e scalinate e pertugi, percorro in salita la  stretta e serpeggiante e umida  e ombrosa valle delle felci  e di ortensie. Alla testata della “vale dos feitos” svetta un solitario e gigantesco Eucalipto della Tasmania (Eucaliptus Regnans). Ridiscendo alla “fonte fria” per le cascatelle che genera lungo la scalinata fino al laghetto irto di rododendri e camelie giapponesi, un grande Eucalipto Floribundo, più in la una Magnolia del Ponto e un magnifico Cedro dell’Himalaia, e il  Cedro dell’Atlante, e  il Cedro di Bussaco, e le Sequoie e i Pini del Messico,  risaltano da sopra il manto degli altri alberi della foresta che pur se degni tutti di tale nome risultano minori di quelle regine delle piante del nostro vasto mondo. 
Sfuggo a Saramago e ai suoi comandamenti che mi vorrebbe sudato  e affaticato col fiatone ad arrancare su per la Via Sacra, di grotta in grotta, da eremo a eremo, da sorgente a sorgente, fino alla Cruz Alta la cima a oltre 500 metri di altezza. Seguo piuttosto i suggerimenti della giovane signora della Reception, normale, elegante  e portoghesissima ragazza, che mi consiglia di salire in macchina alla Cruz Alta per la strada che passa all’esterno della foresta. Mi precisa anche la differenza tra Floresta e Mata. In quest’ultima le piante sono più fitte.  
Nel tardo pomeriggio dalla cima di tutta quelle serie di colline o montagne si apre un Portogallo mai visto e mai pensato fino ad ora. Un Portogallo boscoso e selvaggio fitto e verde. Proprio sotto dalla fitta coltre verde risalta solo la sfera armillare del re del Portogallo in cima alla torre dell’albergo, verso l’oriente ormai in aria di oscurità non si hanno risalti e quella copertura sembrerebbe continuare come un tappeto che aderisce perfettamente alla crosta di roccia nelle terre più basse, per le valli e per le montagne interne fino alla Sierra da Estrela. Verso l’occidente dove il cielo ancora luminoso, il mondo ha un improvviso gradino verso il basso, non ci sono più alture percepibili come colli e montagne ma solo stradine bianche tra i rami di pino, casette appuntite e bianche che risaltano come stelline di natale in mezzo al verde coriaceo  delle conifere, deboli ondulazioni della terra che sono nulla rispetto al  ripido salto verso la pianura è immediato, sotto il punto dove sono, oltre il verde continuo sopragiace al mare, non lo vedo ma si sente la sua luce e il suo movimento.  Continuo a rifuggire da Saramago, e ora che ci penso, anche alla cena di questa sera nella sala grande dell’Hotel.  Senza passare per l’albergo,  abbandono quel luogo troppo verde e ormai troppo ingombrante di necessità storiche e stilistiche e di etichetta, di portoghese ed impeccabile eleganza di tutto il personale dell’albergo. Portoghese e impeccabile eleganza, purtroppo, ora, a volte offerta, profusa invano per quegli ospiti che giravano con i calzoni corti, le ciavatte e la maglietta.
Non erano sicuramente portoghesi, quegli ospiti inadeguati e sguaiati, ne giapponesi ne indiani che avevo visto rigorosi e consoni, e addirittura uscito da un racconto di Kipling, un signore grande e grosso con la sua giacca d’ordinanza e il copricapo dei Sick.
Saranno europei di oggi: inglesi o francesi? Parchegghiate fuori una auto a targa inglese e ben tre  a targa francese. 
Di nuovo la inadeguata eleganza della Francia nei confronti del Portogallo e volendolo raccontare un nuovo episodio di guerra: nel 1810 le truppe imperiali francesi del Generale Massena subirono una inutile strage durante  l’assalto a queste colline tenute dalle truppe luso-inglesi comandate da Wellington. Da qualche parte, vicino al muro di cinta, c’è anche un museo militare e una colonna che ricorda quella vittoria sui francesi.
Scappo. Ho bisogno di uno slancio generoso e pulsante di gasolio e sangue  e tempo e paesaggio che scorre veloce ai bordi della strada e delle rotatorie. Luso, Meallhada, Cantanedhe, Ança (quella del calcare tenero e scolpibile come il legno) Mira (lo stesso nome del paese di origine di mio padre Mira nella bassa pianura vicino Venezia a qualche chilometro dalla Laguna). Raggiungo l’oceano (è la prima volta quest’anno) a Praia de Mira.
Una linea, una doppia linea  di costruzioni moderne a monte della strada asfaltata e parcheggiabile, e a valle di una laguna interna con barche e battelli ancorati nella tranquillità e nel colore azzurro. Ancora a monte la foresta densa magari quella ancora piantata da Re Dinis nel 1200 spessa e folta e larga. Oltre la strada le bianche righe dei parcheggi a pagamento assurdamente attivi per tutto il mese di settembre anche se a parcheggiare il mezzo siamo in due con la monetina dentro la macchinetta dei biglietti, oltre il muretto di cemento armato con la copertina di cemento liscio dalle sedute, la larghissima spiaggia di sabbia fina e in fondo le onde del mare. Un vento sale teso da ovest e muove piano il mare con le sue onde  lente e lunghe.  A non guardare le costruzioni moderne e popolari da turismo estivo  e pensando che non c’e nessuno in giro ora che ancora è estate  (siamo nella prima metà di settembre) si direbbe un posto selvaggio: le poche tracce di uomini sulla spiaggia, le tante tracce di animali, gli uccelli marini la duna sabbiosa rialzata e inerbita verso sud la laguna dietro ti portano chissà dove in riva all’oceano.
Figuera da Foz, Il fico della foce, la foce è quella del fiume Mondego. Il fiume portoghese, almeno un fiume solo portoghese e non come gli altri a mezzo servizio con i Castigliani, il Mondego è il fiume della Sierra da Estrela il fiume di Coimbra. Da questa spiaggia Figuera è lontana in fondo alla strada  verso sud anche li la terra finisce il Portogallo piega verso est la disconuità è il Cabo Mondego e la Sierra da Boa Viagem una ben piccola serra alta soltanto 200 metri.
Arrivo di notte per il solito gioco, vado  di qui o di la, vado in città o vado sulla serra o passo prima al Cabo. Faccio tutto e non faccio nulla. La città è forse un fantasma, sono alla ricerca di un ristorante, il paese vero non c’è. E’ solo un lungo fiume largo e ampio con piazze e parcheggi, ma non ristoranti come mi ero immaginato di trovare, eppure questo luogo è uno di più visitati siti di vacanza estiva di tutto il Portogallo, specialmente visitato e abitato dagli spagnoli. Ci sono anche gli alberghi della grandi catene internazionali come il Mercure e l’Ibis. Vedo delle luci di lampioni rossi come quelli che identificano i ristoranti cinesi, non è un ristorante cinese ma l’inizio di una via in salita che mi permette di salire al paese normale con le case gli alberghi le pensioni e i negozi.
Il ristorante è doppio, da una parte i tavoli dove stanno i turisti, dall’altra il grande bancone, alto, di metallo a ferro di cavallo dove stanno persone del posto sedute sui giraffeschi sgabelli. Faccio questa distinzione. Alcune persone del posto sono singolari, virago possenti e dalla faccia scolpita che fumano piccole sigarette senza filtro,  signori di età indefinita, dal viso vissuto assolato e salato, uomini di mare, dai capelli lunghi legati a ciuccio, pirati o pescatori. Uno particolarmente ha colpito la mia attenzione è lo avrei definito, almeno dall’aspetto, come un nomade sedentarizzato li a fare lavori saltuari, dall’aspetto equivoco e poco raccomandabile,  che so un giostraio, un mago, o quello che pare a voi. Più in la siede un tipo corpulento dall’eloquio forzato e discontinuo con un che da “doido” da scemo del villaggio. Seduti ai tavoli,  invece,  gli spettatori sono sicuramente Spagnoli, si, ma anche portoghesi di altri Portogalli.  Coppie di mariti e mogli, in questo periodo, già di fuori stagione avanzata, comunque spettatori di quella fauna locale che si comportava in maniera interessante e osservabile al pari dei granchi e delle aragoste della grande vasca che mi stava proprio sopra la testa tra il mio tavolo e le scale che salgono alla porta di ingresso.
Arriva il cameriere con un fare veloce e svolazzante, inizi a parlare da lontano, in movimento. Parla in castigliano, anche io  non posso essere altro che castigliano. Del resto qui finisce l’autostrada di Salamanca. La Castiglia non ha il mare. questo è il mare della Castiglia. Finiscono tutti qui a Figuera da Foz.
Gli chiedo un caldo verde e un pesce, un pesce qualsiasi alla griglia.
- Te gusta el robalo………… torero? –
-  Si me gusta el robalo -
Il Robalo è un pesce grosso si cucina a tranci.
Nel corso della serata arriva uno strano chitarrista, conosciuto agli avventori, con i blue jeans, la testa quasi pelata e i baffi scuri,  conduce dietro una signora che suona le maracas. Suonano e cantano delle specie di stornelli verso il signore che avevo considerato equivoco,  giostraio o cosa. E’ il su compleanno. Il chitarrista ha iniziato dai 40 anni ma credo che debba andare avanti almeno fio a sessanta e ogni volta tutti devono applaudire e il festeggiato. Ogni volta il festeggiato deve baciare il chitarrista. Non ci capisco più nulla il chitarrista canta in castigliano, il giostraio, il guappo del nostro sud, il camorrista,   è diventato lo zio grande di tutti, o il nonno giovane che bacia tutti e stringe la mani di qua e di  là.  E di dove sarà? Castigliano o portogesese o …… Non lo saprò mai e  non è un mancanza di poco conto. E allora le virago e il corpulento stronato di dove sono. Chi sono?
In fondo alla via una grande terrazza sulla spiaggia tecnologica e larghissima, circa 800 metri di sabbia dalla strada marginale all’oceano,  spiaggia dei castigliani, tecnologica come la moderna Castiglia: illuminata come un aeroporto, con dentro campi da calcio, campi da tennis, passerelle di legno per i pedoni e passerelle di legno per le biciclette, piste da scate ecc.  L’Avenida Marginal limita grandi costruzioni moderne, di cemento armato, residence altissimi e condomini. I due forti medievali, uno proprio sullo spigolo spiaggia-Mondego e l’altro in riva al mare sopraelevato verso il Cabo Mondego, quasi di nascondono tra le costruzioni moderne e balneari. Passo davanti all’albergo Mercure che ha tutto il piano terreno a grandi vetrate e nella grande sala da pranzo un gruppo in abiti tradizionali sta inscenando un ballo tradizionale accompagnato con i strumenti tradizionali. Assomiglia ai lenti  giro dei pescatori di Madeira con i grandi cappelli di lana  a casco.
Per misurare la spiaggia mi inoltro sulla passerella pedonale, voglio raggiungere il mare e contare i passi percorsi, scendo alla spiaggia e vado, vado, vado, vado, 100, 200, 300, solo.. 400, 500, la luce cala. Le case si allontanano, nessuno in giro, è notte fonda, nessuno in giro, in fondo ancora, molto in fondo, vado, vado, vado 600, 700 ….. sento le onde ancora lontane, non le vedo, le luci non arrivano più fino a quaggiù. Che stia cercando rogna? Forse. Ho il dubbio di aver esagerato. 750. mi fermo torno indietro, stavolta veloce, apprensivo, una montante insicurezza mi morde dietro, per ritornare alla Avenida Marginal ci vorranno minuti e minuti e minuti. Pipicchiotto, va bene, il Portogallo, fiducia e sicurezza, ma stavolta ho esagerato. Accelero il passo, non c’è nessuno in giro, stringo la borsa che ho sempre a tracolla. Due persone stanno venendo verso di me. Due ragazzi, giovani, grossi, sono ancora lontani, vengono, non veloci, ma vengono verso di me. Ciccia!!!!!! Ma forse si fanno gli affari loro, che affari? Saranno drogati, ubriachi, balordi? Sarebbe peggio. C’è sempre la possibilità che misurino la spiaggia. Non mi pare. O che vadano ad un appuntamento con delle ragazze. Magari !! Idiota!! Questa me la sono cercata. Magari me la passo con poco, o magari mi prendo qualche ciuffolotto, quanti soldi ho nel portafoglio, che palle. La polizia, La GNR.  Prendo il telefono in mano. C’è segnale…..in caso estremo … il numero da fare è il 112. Rimetto il telefono nella tasca destra di dietro dei pantaloni, al suo posto preciso dove deve stare. Vado avanti. Vengono avanti. A opporsi manco a pensarci. Sei un idiota, un fifone, se hai paura sta a casa, cosa vuoi che gli freghi di te alla gente e poi i Portoghesi non sono eleganti e gentili? E il Portogallo non è il miglior posto del mondo? Ma anche il Portogallo è pieno di galere e di banditi, di discoteche che bruciano, di sbandati, di maniaci, di pedofili. Cosa c’entrano i pedofili adesso? Come non hai saputo del viscido caso dell’orfanotrofio di Belem. E la polizia è corrotta e mafiosa, e ancora intrigata col fascismo di Salazar. Non hai letto “La testa perduta di Damasceno Monteiro” di Tabucchi, non hai letto “Una piccola morte a Lisbona” di Robert Wilson. La letteratura, anche qui. E basta!!! Ora che stai per morire di paura. Ma è forse la letteratura che ti salva. I due girano verso destra per un percorso a mattonelle piatte verso alcuni capanni lontani. Non sono stati mai stati ad una distanza inferiore ai cinquanta metri.

 

SAO FRUTUOSO DE MONTELIO

Real alla periferia di Braga è calda,  la chiesa bianca, barocca  e francescana annuncia il coro polveroso, i suoi legni tarlati rovinati dal tempo e dall’assenza di ogni cura. Ma qui a Real è conservata una delle 4 costruzioni del settimo secolo di tutto il Portogallo.
La costruzione è sopraelevata, affiancata alla chiesa. Vi si arriva con difficoltà estetica, il monumento appare sovrapposto, inquinato o sovrapponente e inquinatore, un binomio non funzionale con la chiesa dei frati. Difficile da guardare da solo nella sua interezza. L’esterno richiama in maniera immediata il mausoleo di Galla Placidia di Ravenna. L’impero d’oriente, cristianesimo di stato, intrighi, burocrazia, etichette imperiali, vesti e paludamenti, mosaici, Dio lontano e asservito al sovrano, Gesù assente. Onorio e la Sorella, e i barbari Goti, questa volta gli Ostrogoti fratellissimi dei Goti di qui i Visigoti.  Com’èra piccolo il mondo anche 15 secoli fa, come fu veloce lo spirito che da Bisanzio a Ravenna trasferì questa architettura fino al limite occidentale dell’Impero. Di nuovo questi strani Visigoti, che più che barbari delle steppe del nord, sembrano degli orientali che hanno imparato l’arte a Bisanzio e trasferita in Iberia, attraverso l’Africa.  Non a caso vi hanno portato l’arco ribassato prima degli arabi.
Il monumento è una cappella funeraria a croce greca, costruita attorno all’anno 660 per ospitare il corpo del vescovo di Braga.  Divenne Santo e talmente discreto che, per rispettare il gioiello che si era fatto costruire, dispose di venire inumato non dentro ma al di fuori di esso, in un sarcofago bianco posto sotto un semplice arco che non lo avrebbe riparato nemmeno dalla pioggia obliqua e battente. Stani questi vescovi santi.
Una semplice cappella funeraria di XX metri di lato, costruita in semplici conci di granito di qui, con un semplice tetto a capriate di castagno e tegole, una elevazione alla crociera che nasconde una piccola cupola interna. L’esterno è semplice, decorato da un fregio calcareo scolpito nella pietra di Ança con decorazioni di corde, semicerchi, rosette a sei punte e fiori di giglio. Le facciate sono animate da archi ciechi  alternativamente a volta perfetta e a volta triangolare, interrotte da uno sottile fregio calcareo a corda. Le facciate della torre del crociera sono percorse in alto, proprio sotto le tegole, da delle lesene alternate da doppi archi ribassati e da archi triangolari, presentano una piccola finestra per la  illuminazione dell’ interno. La facciata principale è orientata e addossata, saldata alla chiesa da cui si ha l’accesso attraverso l’interno della stessa per mezzo di un grande arco a volta, una scala e una grande cancellata in  ferro.  L’esterno è accessibile, sostenibile e descrivibile, l’interno sarebbe altrettanto descrivibile, ma non altrettanto sostenibile e razionalizzabile  ne sostenibile.
Appena passato il cancello di ferro, saliti i pochi gradini e si entra, il luogo appare come un unicum di spazio e luce dove gli elementi architettonici vari, che ho comunque osservato attentamente, perdono la loro valenza e il loro significato singolo per fare parte di un unico fiotto di sensazioni. Il disegno è semplice e disarmante, inaspettato. Disegno di chi? Progetto di chi, di quale mente del 650 barbaro e iberico.  Il luogo è saturo, pieno energia, di aria e di spazio, é permeato da una aura XXXX che guizza, serpeggia, rimbalza, rifrange, diffrange, si riflette,  vive, viaggia tra gli archi ribassati di avvertito slancio, tra le colonne sottili  ardite di basso granito e efebico marmo che salgono dal pavimento altrettanto aspro granitico,  e le loro ombre sottili, diafane  e ardite che intrecciano le loro forme agli acanti classici dei capitelli, scolpiti nel calcare tenero, e la luce che rimbalza sui fregi, ragiona con le ombre e si fraziona non in luce ed ombra ma in sensazione luminosa costantemente tenera. La luce delle finestrine, risuona  di se stessa sulle pareti rugose, sul pavimento di granito, potente e roccoso. La cupola bianca non sembra emanare luce, l’energia non scende dall’alto. Non esistono luoghi dove si genera la sensibilità, punti più importanti per l’estetica,  punti di partenza del pensiero, della ricerca, della osservazione, o di qualsiasi altra azione. Si sta in un tumulto  costante e continuo di flusso totale. Non si fraziona il messaggio, non si quantizza, non c’è possibilità scelta, non dicotomia tra bene e male, donna e peccato e penitenza, odio e amore, non più il dualismo a cui ero abituato da quello che avevo visto fino i ad ora e sentito fino ad ora.
Non più gli estremi di Silos e il pozzo infinito che li divide. Non più luce e buio come a San Millan della Cogolla, alto e basso, conoscenza e ignoranza, e ancora gli estremi che si toccano e racchiudono l’essere pensante. Non c’e scelta tra  gli estremi, non devi scegliere dolorosamente cosa fare: andare restare, amare odiare, islam cristianesimo. Non libero arbitrio, ma nemmeno imposizione, non è didascalico, non ti insegna nulla, non ammaestra. Non riesci a percorrere una strada, non ti puoi muovere come   in un chiostro, non c’è spazio ne tempo ne il bisogno di spazio e di tempo. Non sei tu ad andare ma loro a venire. Loro chi?
Il mondo non è discreto, atomico, ma continuo. Non riesco a dire se è un passo avanti percettivo mio o del mondo. Possibile che non debba cercare più le discontinuità ma le continuità, ossia luoghi totali e totalizzanti che sono comunque dei luoghi straordinari dove non conta più nemmeno la religione e la fede dove anche tu osservatore e vivente non  sei più come essere pensante dentro il luogo, perché sei nel continuum, ti sei annullato nella continuità.
Bisogna dunque CERCARE LA CONTINUITA’ un luogo che non ti fraziona non ti analizza ma sintetizza.  Ho ricevuto una grande lezione da questo piccolo artificio del 600 costruito dai miei stranissimi Visigoti. CERCARE LA CONTINUITA’.

 

RITORNO AL MINHO

- Obrigado pela visita.  Ponte da Barca –
E’ il cartello pubblicitario, credo di una banca, che ringrazia il turista per la visita al paese Ponte da Barca. Nel cuore del Minho sulle rive del fiume Lima. Anch’io saluto Ponte da Barca e il suo parco fluviale pulito e verde con le panchine e il barbecue e le signore come mia madre che fanno lo jogging e i ragazzi che giocano a scacchi e quelli che scendono il fiume con la canoa. Sembra un luogo lontano, troppo tranquillo e bucolico. Sul ponte, che ha sostituito la chiatta per attraversare il fiume Lima “a barca”, il traffico è scarso, passano i trattori che trainano carretti pieni di contenitori pieni di uva per il vinho verde. Il centro urbano e la igreja matriz sono dignitosi, con poche  emergenze artistiche nel pelourinho e in un porticato ad archi e in alcune case. La gente in giro per il paese è tranquilla e mostra una pacata eleganza di campagna. Incontro un “giovane viaggiatore” francese con la guida “routard” di ordinanza in mano, poco più in la incontro anche il suo omologo anglosassone con in mano la guida “Lonely Planet” anche lei di ordinanza. Tutti e due hanno i calzoni corti e gli scarponi da montagna di pelle, e tutti e due trascinano una grossa bottiglia da plastica da cinque litri di acqua minerale. Sono un tantino fuori luogo con la loro aria da Bruce Catwin in Afganistan. E poi anche sulle loro guide, lo so per certo, c’è scritto che l’acqua dei rubinetti e delle fontane si può bere in tutto il Portogallo.
A Bravaes, invece incontro due inglesi veri, un uomo ed una donna, ho pensato marito e moglie. Non sono giovani e non viaggiatori, non hanno la Lonely Planet. Stanno seduti sulle panche di legno della chiesetta romanica di S. Salvador e stanno osservando l’interno.  Più tardi seduti sullo zoccoletto esterno all’edificio, mangiano panini che prendono dai loro zaini lasciati appoggiati al muro assieme ai loro bastoni. Il  pranzo è veloce e frugale, consultano una carta e poi se ne vanno a piedi verso ovest, con i loro zaini compatti e con dentro, forse la loro borraccia da un litro di alluminio tutta ammaccata.
Rimango ancora una volta solo a confrontarmi con l’oggetto della mia presenza in quel luogo, la chiesa di S. Salvador e il suo mitico portale.


IL LUOGO DA CUI SI RITORNA
(o della saudade)

Da giorni aspetto di imbattermi nel luogo da cui si ritorna di mettere il paletto, il segnale  e via. Finalmente questo assillo si è pacificato. Il momento è arrivato mentre sto passando dopo cena in debole discesa verso il fiume a Viana do Castelo,  dopo la chiesa barocca di xxx. Sto passando davanti ad un ristorante per turisti che non ci sono, dal locale esce il suono di una canzone di Amalia. Un fado da un ristorante per turisti. Ma che immagine scontata per iniziare la saudade. Non c’è immagine più oleografica che tratti del Portogallo e della sua nostalgia. Ed io che mi picco di essere un lusofilo ricercato cado nell’ordinario senza metafisica e senza eleganza. Lo so e scontato, addirittura drammatico, ma la è cosi. 
La tenerezza del buio, la dolcezza della notte mi assalgono, non c’è nessuno in giro, proseguo la strada in discesa fino alla marginale  di alberi pieni  di uccelli canterini e cagatori. Viana do Castelo, ormai la terza o quarta volta che vengo. Il primo incontro ci ha fatto scappare. Abbiamo preso il primo treno della mattina per Braga e Guimaraes. Avevamo preso una stanza, attraverso il nano del turismo, da una signora gentile ma possessiva che ci ha ospitato nella sua casa. Noi avevamo i bambini piccoli, eravamo in una stanza piccola con il balconcino e i cassetti pieni di libri in inglese e medicine, con nell’altra stanza il vecchio malato a letto, il padre o il marito, con il bagno in comune e il sanitari rivestiti da tappeti rosa e pelosi. E meravigliosi lulas estufadosa in un ristorante del centro che  non ho più ritrovato.  E la commessa della libreria Bertrand che mi ha corretto la mia pronunci di “Fernando Pessoa” e de “O livro do dessassossego”. E il parcheggiatore giù al parcheggio del porto che vede le nostre mille lire di metallo:
- guarda come i nostri  200 escudos.  -
Ora Viana esprime tenerezza infinita, dalle sue vie deserte e notturne, dal suo lungo fiume erboso, con “as gaivotas” in fila e le panchine e le navi che sostano e passano sul fiume. La collina alta e luminosa, la bruma alla mattina e l’oceano ardito e chiaro.
La saudade ti prende alla gola quanto meno te la aspetti. Ti salta sulla schiena di botto come un gatto, avverti il colpo, sposta il tuo corpo, ti si avventa al collo ti graffia a sangue ti entra nella gola. Ed è strano li proprio vicino ad una chiesa barocca, davanti ad un ristorante per turisti, vuoto dove suona una canzone di Amalia.

 

LAS ASTURIAS

Las Asturias sono un ricordo veloce di autostrade, di colline verdi e madide di acqua, di pioggia copiosa oltre il parabrezza e i tergicristalli,  e vere montagne di roccia, arcigne, verticali, spigolose e brumose dietro la notte lucida, con valli che salgono a improbabili grandi battaglie del passato e a più possibili eremi e monasteri. Oviedo è una città percepita dalla macchina alla ricerca della vecchia chiesa preromanica di Naranco su nella collina, una città di ragazze alla moda con gli stivali e la minigonna che attraversano le vie del centro, di cornamuse suonate davanti a un grande chiesa. E ancora: sidrerie, il respiro dell’oceano di Biscaglia, spiagge rocciose e piccole mezze lune di sabbia fredda tra promontori di granito e mare spumoso.

 

CANTABRIA

Piove a Santillana del Mar è già buio, è sabato sera e c’è tanta gente in giro, questo luogo è uno dei più visitati di Spagna: gioiello urbanistico medievale, la collegiata romanica e il suo chiostro mirabile, le grotte di Altamira con i loro affreschi.  Il parador Gil Blas è nella piazza centrale, il paese appare piccolo, mi infilo con l’auto dentro una strada lastricata che promette bene, ma la strada è pedonale. Una pesante catena di ferro ferma l’auto tra strepiti di lamiere e sguardi divertiti e sorpresi dei passanti. Mi arrangio in qualche modo trovo a piedi il parador, in seguito recupero l’auto e facendo retromarcia urto un cavallo. Un cavallo vero che assieme ad altri cavalli e a pecore e a capre percorreva la via lastricata. Strano posto questa Santillana del Mar. Posto di tendenza turistica o villaggio rurale?  Il paese è costruito su una cresta collinare, attorno a due sole vie lastricate belle case signorili di granito e legno mostrano la loro perfette ristrutturazioni, alcune sono diventate alberghi e pensioni. Ai due estremi le costruzioni si allargano attorno alla collegiata di Santa Giuliana con i suoi due campanili rotondi ad est e attorno alla piazza del potere civile con le sue torri quadrate e i palazzi massicci di granito e i portici a ovest. Piove incessantemente e copiosamente sui graniti, la mia stanza è accogliente e calda di legno scuro e lucido.
La pioggia continua per tutta la domenica mattina, Santillana del Mar continua a mostrare le sue due valenze opposte. Alla messa poche vecchie vestite di nero e poca gente tra i banchi di legno le colonne e i muri scuri di granito che sanno del classico odore di muffa delle chiese romaniche. Dall’altra parte in piazza, risaltano tra i pochi ombrelli i rossi e i gialli traslucidi di pioggia di una decina  di rombanti automobili Ferrari tutte con targa inglese.  Sono sproprio inglesi, questi inglesi a fare un raduno di Ferrari quaggiù in Cantabria.
E’ tempo di andare a Barcellona
 

IL PERIPLO DELLA SPAGNA DA MONFORTINHO A S DOMINGO DELLA CALZADA.

Le stelle gialle della comunità europea a 300 metri ESPANHA poi il fiume e subito il mondo si allarga le montagne si alzano, gli orizzonti si allontanano, compare, improvvisa, dal nulla, per riffo una tetra plaza de toros municipale. Ma è possibile non è nemmeno 30 secondi che sono entrato in Spagna e già devo fare i conto con le corride. Devo arrivare a Barcellona a prendere il treno e visto che sono le 4 del pomeriggio, anzi le 5, perché la Spagna si ostina a tenere un fuso orario che non è il suo,  dovrò trovare un albergo a modo per passare la notte. Non ho prenotato perché non sapevo da quale Portogallo sarei uscito e a che ora quindi “sono alla ventura” come dice il padre di Mauro. Intanto penso che passando veloce per Caceres e Madrid con l’autostrada potrei  arrivare a Siguenza in un tempo passabilmente elegante. Sono anni che devo tornare a Siguenza, mi ricordo solo della esagerata cattedrale piantata li in mezzo alla città e la strada che dalla piazza della cattedrale va dritta tra piccoli negozi dall’aria provinciale, passata e abbandonata in un presente e antichissimo odore di baccalà, domani potrò andare alla messa in cattedrale e salutare il Doncell. Sono le cinque e mezzo quasi le sei, telefono al Parador,  non c’é posto, non ce c’è un buco, che tortura oggi e sabato e gli spagnoli sono tutti in giro. Va bene, vado avanti fino a dove arrivo e poi trovo un motel un albergo sulla strada ma dove rimane l’eleganza, che tortura. Ripenso… Posso arrivare più avanti, la strada fatta oggi non la faccio domani, telefono al parador di Olite, tutto completo. Vado avanti per questo paesaggio drammatico, assoluto per raggiungere l’autostrada dell’Estremadura,  intanto ho passato Caceres di cui ho visto solo la periferia e il Carrefour senza pistacchi “Son Sancez” non mi e parsa una bella periferia, chiaramente per via dell’assenza degli amati pistacchi. Il casco storico non l’ho nemmeno intuito. Trujllo invece mi è sembrata incantevole lassù,  alta nella luce del tramonto  estemenho. Ci dovremmo tornare. In autostrada intanto comincia a fare buio, passo il Tago ancora una volta questa volta da sud a nord. Penso allora di fermarmi a Madrid, cosi vado a fare una visita al Greco e a Bosch, telefono al Rex Ambassador, almeno so dov’e e so dove parcheggiare la macchina, mi fermo e gli telefono, mi risponde una signorina gentile e dalla voce sensuale, ma nulla, non c’e un buco. Poi  ogni volta che devo telefonare mi devo fermare scendere guardare il numero davanti al faro della macchina perché dentro la luce  non mi è sufficiente, è una impresa epocale. Intanto  parlo al telefono con mia moglie a casa, mi dice vai al parador dove siamo andati a Pasqua scorsa a Tordesillas, ma moglie è dall’altra parte del mondo.  Però quel suggerimento mi ha aperto gli orizzonti mi ha allargato i confini,  tanto e notte, si viaggia bene e domani si farà meno strada, posso allargare il terreno di ricerca, allargare il bersaglio. Intanto il gasolio va sotto la metà del serbatoio, se bastava per arrivare a Madrid non è sufficiente per arrivare in nessun altro posto, visto che potrei arrivare anche in capo al mondo e poi è ora di mettere la goccia per la pressione all’occhio destro, che tortura, esco dall’autostrada, per caso vedo li sull’alto illuminato da bella luce gialla la città e il castello di Oropesa, il castello è il parador, sembra adatto alla bisogna di fermarsi, ma risulta troppo lontano da Barcellona, allora tanto valeva fermarsi a Truillo o a Guadalupe. No si va avanti ma fino a dove. Telefono in rapida successione al parador di Toledo, ciccia, Segovia riciccia ad Avila non mi va di andarci troppo imboscato. Ormai le distanze si sono ridotte, avessi potuto arrivare solo fino a Siguenza, magari, un’altra volta bisogna che pianifico anche l’avventura. SIGUENZA SIGUENZA.
Finalmente trovo il posto, ma sarà troppo lontano, no, al parador de Santo Domingo della Calzada hanno una abitacion superior, dice l’uomo che mi risponde al telefono, va bene la prendo, gli dico il nome e che arriverò molto tardi, questo posto è veramente in capo alla Castiglia, è addirittura fuori della Castiglia, l’uomo vuole il numero della carta di credito, la cerco, intanto mi cade il telefono in terra, si stacca l’auricolare, faccio una delle mie figurine perfette: l’uomo continua a chiamarmi senhor Agostini, senhor… alla fine è tutto apposto …. americanexpress …005 caducidad noviembre 2004. buenas noces. Vado avanti come un treno fino alla tangenziale di Madrid, incappo in  un’ora di fila per non so cosa, poi forse sbaglio autostrada, piglio la M40 invece che la M30, imbocco l’autostrada per La Coruna, avanti, avanti, poi si dovrebbe trovare il diverticolo per raggiungere l’autostrada di Burgos. Avanti, ora in giro non c’è nessuno, dove sono andati tutti quelli di prima? Per arrivare a S. Domingo della Calzada si va verso Burgos. Anzi prima di Burgos si dovrebbe prendere una bella Carretera National forse con la faccia di autostrada, ma di notte le statali, da solo, mai viste anche se sembrano autostrade, é meglio non usarle, mordono. Allora autostrada fino a lambire Vitoria, girare giù verso sud A Miranda de Ebro per Logronho, ad Hero uscire  e dopo 15 chilometri si è arrivati. Lo scrivo ora che la strada è fatta ma quella notte ogni tanto bisognava scendere e piazzarsi davanti al faro con la carta che è una schifezza (l’ho comprata dalla Fagiana). L’autostrada di Burgos, poi, è lunga, fredda e buia, a tratti nemmeno tanto per la quale, diventa una strada normale con gente che si immette, con i luoghi dove ci sono le zoccole e altri inghippi che non mi sono curato tanto di sindacare. Si passa evidentemente in montagna, ecco la galleria e il passo, e chi se la ricordava. Di la si va a Segovia, di la a Soria, Soria mi tortura. Avanti Aranda del Douro, ancora un grande fiume iberico,  e ancora strade per Soria. SORIA IL CENTRO DELLA SPAGNA. Ad un tratto a destra Lerma esagerata e illuminata una visione nella notte di luce e di sfarzo ancora non possibile da vedere - RITORNARE A LERMA. Dopo Burgos ancora strade  per Soria.  Alla fine arrivo  al parador che sono le 2 e mezzo (una e mezzo di Portogallo) è chiuso,  suono, il portiere di notte mi fa entrare, mi accompagna in camera e mi parcheggia anche la macchina di sotto. L’abitazione  è una pacchia: salotti e salottini ma poco sfruttabili data l’ora di arrivo. A nanna? Manco ti vedo,  inizio a smacchinare con le foto e il computer. Tanto domani devo fare poca strada fino a Barcellona.


BARCELONA E LA STAZIONE SANTS

Ogni che ritorno alla stazione Sants di Barcellona per consegnare la macchina al noleggio, faccio una strada diversa.
La prima volta ero da solo e mi sono infilato nel centro dei centri del Barrio Gotic, dalle parte del palau da musica catalana  e l’ayuntamento ecc  il vialone ho trovato i cartelli e la stazione
La seconda ero con mia figlia Valeria che e stata meravigliosa e mi ha indicato perfettamente la strada. Stiamo attraversando Piazza di Spagna, lei ha la guida verde del Touring Club, sta guardando la carta della citta e mi dice improvvisa.
- Quella e la rua xxx, babbo infilati lì e poi alla quinta traversa gira a sinistra e siamo alla stazione. -
- Ma Valeria.  Hai fumato, da quanto sai leggere la carta, sei  sicura?-
- Babbo. Infilati e poi alla quinta traversa a sinistra -
  L’ultima volta. Arrivo, come sempre dalla litoranea verso il centro, paso tra la colina di Monjuic e il mare, prima del porto vecchio sbaglio, invece di uscire dalla marginale per la città proseguo e infilo una galleria. si riemerge ma e troppo a nord, torno indietro e faccio 2 giri di rotatoria sulla piazza di Cristoforo Colombo e alla fine, sempre peggio,  mi infilo su per la rambla, pittoresca e pedonale con quelli che fanno i ritratti, gli artisti di strada e il passeggio, mai io sono con la macchina,  e devo andare alla stazione e mene frega poco della rambla pittoresca e pedonale, ormai il viaggio è finito, è tempo di tornare a casa e quando si torna si torna. Si fa tardi, seguo lentamente il traffico, arrivo al centro dei centri, giro a sinistra per un vialone grande e alberato, di solito si fa cosi, la stazione sarà laggiù, tra poco vedrò (vedrò?) un cartello e abbiamo risolto. Nulla, vado avanti piano, i semafori sono sempre verdi, quando hai necessità di fermarti e guardarti bene in giro, nemmeno i semafori rossi ti aiutano.. Nulla, ancora avanti, A questo punto devo fare qualcosa di strano, di esagerato per uscire dallo stallo, che so fermare qualcuno, mettermi ad urlare ai passanti:
dov’è la stazione??? -
Ma vado avanti, ancora piano, non faccio nulla, anzi faccio il bandito e salgo sul marciapiede con la macchina, ad un incrocio.
Scendo.  Fermo una signora che cammina a piedi che molto gentile si ferma e mi aiuta mi dice la stazione e qui vicino: 
Vai dritto per il vialone che è VVVV –
Ma ci devo andare col coce. –
Se ci devi andare col Coce devi andare di la e poi la prima a sinistra. No -
Mi chiede la carda di Barcellona, gli do la mia solita guida verde del TCI.
Ecco,  qui dovremo essere a vv leggi perché io non ci vedo bene -
io di meno - 
Allora mi legge la mia carta, mi dice
- Siamo a ROCAFORT, siamo qui, vai su, poi la quinta traversa a sinistra e sei alla stazione di Sants. -
Grazie Signora grazie Barcelona


ITALIANI

Questi viaggi mi risultano interessanti, non tanto perché sono solo a viaggiare, ma anche perché non ci sono altri turisti, non italiani, non gente come me, non cani randagi che vanno ad annusare in ogni anfratto secondo un itinerario che sembra la stessa ragnatela che hanno in testa. Gli ultimi italiani li avevo visti a Barcellona, alla stazione di Sants nell’ufficio del noleggio Europcar. Altri italiani li ho poi risentiti e rivisti sempre alla stazione di Sants. Mia moglie  e i miei figli dicono che sono un lupo, ma credo che sia un bene che la costa mediterranea sia il limes per gli italiani. Per me è meglio che la gente, come dice Cees Nooteboom, non si spinga oltre lo specchio ustorio della costa orientale, mi lascia più spazio alle mie ragnatele.
E certo che poi quegli incontri non hanno prodotto delle scintille di simpatia. Il cartello in casigliano affisso sulla vetrina dell’Europcar, recitava abbastanza preciso. Aspettare fuori di questa porta ed entrare uno per volta.  Prima di me sono già in attesa quattro ragazzi scozzesi, dentro ci sono altre persone. Arrivano i nostri, una coppia giovane, non più ragazzi,  sorpassano tutti e fanno per entrare. Lo scozzese con la barba gli dice in casigliano che bisogna fare la fila, che………….
  -“nos esperamos”- 
Ma i nostri non capiscono il castigliano parlato da uno scozzese, forse avrebbe dovuto parlare in inglese,  sorridono e salutano come si saluta un cameriere egiziano di Sharm al villaggio, entrano e si piazzano davanti al bancone. Ci hanno fregati, lo scozzese con la barba sorride e mi dice:
- Sei italiano pure te. -
-  Si sono italiano pure io.  -
Come sono gli italiani? Sono italiano pure io. Saranno solo furbi? O anche ignoranti? O solo ignoranti? Non sapranno ne  leggere ne parlare il castigliano?
Dentro, i due nostri, con la signorina dell’Europcar parlano solo in italiano, impariamo che sono marito e moglie, che sono di Milano città, sappiamo la via e la professione e tutto, nomi e cognomi.

 

Alcune foto: http://www.flickr.com/photos/84442834@N03/sets/72157632240708059/